Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La prima mossa da fare è rompere i rapporti con Israele Ecco il nuovo Egitto 'democratico'. Cronache di Marco Pedersini, Michele Giorgio
Testata:Il Foglio - Il Manifesto Autore: Marco Perdersini - Michele Giorgio Titolo: «Grosso guaio al Cairo - Il governo Sharaf al via, agli esteri un filopalestinese»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 08/03/2011, a pag. I, l'articolo di Marco Pedersini dal titolo " Grosso guaio al Cairo ". Dal MANIFESTO, quotidiano di Rocca Cannuccia, a pag. 9, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "Il governo Sharaf al via, agli esteri un filopalestinese". Ecco i due articoli:
Il FOGLIO - Marco Pedersini : " Grosso guaio al Cairo "
Marco Pedersini
Roma. Migliaia di persone hanno preso d’assalto undici edifici del ministero dell’Interno egiziano, razziando gran parte degli archivi della polizia segreta, la Mabahith Amn al Dawla (Mad). Tutto è cominciato nella notte di venerdì, quando gli agenti di polizia di Alessandria sono stati sorpresi mentre si sbarazzavano di documenti considerati compromettenti. Alcuni strappavano le carte, altri caricavano faldoni sui mezzi della polizia: l’iniziale capannello dei curiosi si è ingrossato e le forze dell’ordine non sono riuscite a contenere la folla, che ha invaso il quartier generale dei servizi. Qualche ora più tardi sono stati presi d’assalto gli uffici del ministero dell’Interno nella città di Madinat as Sadis min Uktubar, a trenta chilometri dal Cairo, e il quartier generale della polizia segreta nella capitale, dove i militari, per disperdere i manifestanti, sono stati costretti a sparare in aria. L’intervento dell’esercito – affidato, secondo l’agenzia Reuters, a uomini in borghese – non è riuscito a tamponare l’emorragia di documenti, che potrebbe avere ripercussioni significative in futuro. “Abbiamo potuto frugare per qualche ora negli archivi e siamo riusciti a prenderci molti hard disk, dvd e cd”, ha detto il blogger Wael Abbas al Wall Street Journal. Un’altra attivista ha assicurato di aver trovato fra i documenti della Mad “i tabulati delle mie telefonate, i miei messaggi e le stampate delle mie email”. Il materiale trafugato è pronto a essere diffuso via Internet, come se fosse una specie di Wikileaks artigianale. E’ stata già creata una pagina, su Facebook, nella quale alcuni manifestanti stanno pubblicando le scansioni di ciò che hanno trovato negli archivi della Mad. Secondo fonti della Procura del Cairo, qualche leader della protesta ha scelto una via più istituzionale, scaricando agli uffici del tribunale migliaia di documenti riservati dell’era Mubarak. La polizia segreta, diretta dall’ex vicepresidente Omar Suleiman dai primi anni Novanta, si è sempre dedicata a mantenere la sicurezza interna spiando e reprimendo ogni sintomo di dissidenza nei confronti del presidente Mubarak. E’ un corpo scelto che è stato accusato di aver fatto ricorso anche alla tortura, nei cui archivi sono custoditi migliaia di documenti. Il danno maggiore, però, non è nella fuga di notizie sul regime, che già era tacciato di seguire una condotta non proprio cristallina. Per la prima volta dall’inizio di questa rivolta, l’esercito ha fronteggiato con la forza i manifestanti, a dimostrazione del fatto che anche i soldati ora hanno qualche problema a governare il malcontento. Se anche i potenti generali non possono evitare che la folla appicchi il fuoco agli edifici del ministero dell’Interno, allora serve che qualcun altro aiuti la transizione. Lo ha capito il presidente americano, Barack Obama, che avrebbe chiesto al segretario alla Difesa Robert Gates, ieri in visita a Kabul, di occuparsi personalmente della questione con una visita d’emergenza al Cairo. La Casa Bianca, che ha sempre guardato all’Egitto come partner decisivo per la sua strategia mediorientale, teme che l’esercito – storicamente molto secolarizzato – non sia più in grado di garantire un argine contro la piazza e contro le infiltrazioni islamiste. Lo ha lasciato intendere lo stesso segretario di stato americano, Hillary Clinton: “Gli iraniani stanno usando Hezbollah per comunicare con i loro omologhi nella Striscia di Gaza, Hamas, che a loro volta sono in comunicazione con i loro omologhi nel territorio egiziano”. Secondo fonti d’intelligence, infatti, ci sarebbero ampi flussi di petrodollari iraniani, smistati da Hamas, che stanno raggiungendo l’Egitto per solleticare la radicalizzazione dei movimenti islamisti, Fratelli musulmani compresi. Senza l’azione repressiva della Mad, gli estremisti hanno un margine più ampio dentro e fuori dai confini egiziani. L’esercito, poi, ha dimostrato in questi giorni di avere problemi anche quando si tratta di fare fronte all’emergenza dell’ordine pubblico, una notizia che non è certo positiva per la stabilità del paese e per gli equilibri nella regione. Nella Striscia di Gaza festeggiano: “La gente dell’Egitto e della Tunisia ci ha ridato una nuova vita”, ha detto domenica il leader di Hamas, Khaled Meshaal, mentre parlava di “una riconciliazione fra i palestinesi basata sul jihad”. Primo: non perdere l’Egitto Robert Kagan, sul Washington Post, ha chiesto alla Casa Bianca di non lasciare l’Egitto a se stesso, come se la transizione democratica fosse già avviata verso una soluzione soddisfacente: “L’Egitto è il cuore del mondo arabo, è stato la culla del panarabismo con Gamal Nasser e il perno del processo di pace con Anwar Sadat. Se, con i suoi ottanta milioni di abitanti, riuscirà a completare la transizione verso la democrazia, allora segnerà l’inizio di una nuova era per il mondo arabo. Se invece finirà con l’aver cambiato una dittatura con un’altra, difficilmente il resto della regione andrà avanti: la primavera araba nascerà o morirà al Cairo”. Ci vuole un’azione decisa, ma non prepotente perché, come ha ricordato Tareq el Malt del partito al Wasat, “l’aiuto americano può essere frainteso”. Ma senza l’aiuto garantito dai militari, che sono considerati affidabili anche da Israele, è possibile che i 150 milioni di dollari con cui Hillary Clinton vuole rianimare l’economia egiziana alimentino affari ben più pericolosi.
Il MANIFESTO - Michele Giorgio : " Il governo Sharaf al via, agli esteri un filopalestinese"
Giorgio applaude, un buon motivi per essere preoccupati IC redazione
Michele Giorgio
Alla vigilia della MillionWomenMarch, la grande manifestazione per l’8 marzo che unmilione di donne egiziane terranno oggi in Piazza Tahrir, e mentre è ancora alta la tensione per l’aggressione ai giovani della «rivoluzione» lanciata domenica scorsa da agenti dell’odiata Amn al Dawla (la Sicurezza dello Stato), ieri il premier Essam Sharaf ha presentato il nuovo governo e giurato davanti al Consiglio militare supremo che controlla il paese. Il successore di Ahmad Shafiq, l’ultimo primoministro scelto dall’ex raìs Hosni Mubarak, pare deciso a puntare sulla rottura con il passato, come chiedono gli egiziani. E alcune delle sue scelte vanno effettivamente in quella direzione. Sharaf infatti ha nominato nuovi ministri degli Esteri, della Giustizia e dell’Interno. Il nome più eccelente tra i silurati è quello di Ahmed Abul Gheit, alla guida della diplomazia egiziana dal 2004 e braccio destro di Mubarak. Al suo posto è stato scelto Nabil Elaraby, ex giudice della Corte internazionale di giustizia ed ex rappresentante permanente presso l’Onu. Elaraby peraltro è vicino all’Assemblea per il Cambiamento del riformista Mohamad ElBaradei. L’improvvisa uscita di scena di Abul Gheit preoccupa non poco Israele che perde un altro amico fedele nell’esecutivo egiziano dopo aver dovuto digerire l’esilio balneare dell’alleato Mubarak. A farsi indirettamente portavoce delle «ansie» di Tel Aviv e della linea cauta dell’Amministrazione Obama, è stato il Washington Post. Elaraby sarà più severo con Israele, ha previsto ieri il quotidiano americano. Pur avendo fatto parte del team che negoziò gli accordi di Camp David con lo Stato ebraico, ha scritto il WP, il nuovo ministro degli esteri non sarà disposto ad accettare le politiche israeliane nei Territori occupati palestinesi. È questa anche l’opinione di Mustapha Kamel al Sayyd, professore di scienze politiche all’università del Cairo. «L’opinione pubblica in Egitto è favorevole ad un approccio meno soft nei confronti di Tel Aviv, Elaraby condivide questo sentimento e sarà difficile per lui fare quel tipo di concessioni che Hosni Mubarak faceva ad Israele», ha detto al Sayyd, ricordando il caso della devastante offensiva «Piombo fuso» a Gaza quando Il Cairomantenne chiuso il confine con la Striscia. «Il nuovo Egitto potrebbe non essere così affidabile come alleato degli Stati Uniti quanto lo era Mubarak», ha aggiunto da parte sua il Washington Post. I leader israeliani per tenere in piedi i rapporti si affidano al Consiglio militare supremo egiziano, perchè largamente dipendente dall’aiuto annuale degli Stati Uniti (1,3 miliardi di dollari). Intanto parte in salita il nuovo ministro dell’interno, Mansour El Essawy che deve affrontare subito la questione dei servizi di sicurezza. Domenica decine di agenti della Sicurezza dello Stato (Amn al Dawla), uno dei principali strumenti di oppressione del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak, hanno attaccato con bottiglie molotov, bastoni e coltelli la folla che cercava di entrare in una delle sedi del servizio di sicurezza per impedire la distruzione di documenti segreti. L’aggressione è stata molto violenta. I feriti sono stati decine e solo l’intervento dell’esercito, che ha dovuto sparare in aria, ha evitato conseguenze peggiori. Migliaia di dimostranti della «rivoluzione del 25 gennaio », sono entrati negli ultimi giorni in 11 sedi della Sicurezza dello Stato per impedire la distruzione di decine di migliaia di file da parte degli agenti segreti che temono l’avvio di inchieste indipendenti su torture e abusi subiti dagli oppositori di Mubarak.
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