Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Libia, Gheddafi continua a soffocare nel sangue i manifestanti Commenti di Daniele Raineri, Rolla Scolari, Vittorio Emanuele Parsi, Gilles Kepel
Testata:Il Foglio - La Stampa - La Repubblica Autore: Daniele Raineri - Rolla Scolari - Vittorio Emanuele Parsi - Gilles Kepel Titolo: «Fratelli diversi - Il Colonnello non molla - Le rivolte archiviano lo scontro di civiltà. Per gli arabi è un nuovo ingresso nella storia»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/03/2011, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Fratelli diversi ", l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Obama ancora cerca il suo uomo a Bengasi per rovesciare Gheddafi". Dalla STAMPA, a pag. 1-35, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Il Colonnello non molla ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-15, l'articolo di Gilles Kepel dal titolo " Le rivolte archiviano lo scontro di civiltà. Per gli arabi è un nuovo ingresso nella storia ", preceduto dal nostro commento. Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Fratelli diversi "
Daniele Raineri
Sana’a. Nei giorni dell’Egitto il canale al Jazeera ha toccato punte di lirismo. “Ho risparmiato il suo corpo, affinché la sua vista serva da lezione al popolo”, ha scandito con tono ieratico una voce maschile tra un aggiornamento in diretta e un altro sulla caduta dell’ex rais Hosni Mubarak. E’ il verso del Corano che spiega perché Dio non fece scempio del corpo del Faraone (ma tutti hanno naturalmente inteso: il presidente) che inseguiva il profeta Mosè quando fece richiudere su di lui e sul suo esercito le acque del mar Rosso. Prima era difficile accorgersene, perché le proteste riguardavano soltanto Tunisia e poi Egitto. Ora che il contagio investe tutti i paesi arabi, e persino la casa madre saudita, la differenza si vede, eccome: la rete satellitare al Jazeera ha soffiato sulle rivolte popolari nel nord Africa ma tace ed è in imbarazzo su quelle presenti e in arrivo nei paesi del Golfo. I giovani annunciano manifestazioni per l’11 e il 20 marzo in Arabia Saudita. Con tutta l’eccezionale potenza di fuoco riconosciuta anche dal segretario di stato americano Hillary Clinton, “al Jazeera sta vincendo la battaglia dell’informazione e sta facendo vergognare i canali americani”, il network in lingua araba e inglese (ma ci sono differenze deliberate tra le due edizioni) è diventato il più seguito e apprezzato dal movimento antidespoti. Fasci di luce proiettano il pallore accigliato delle giornaliste da studio sulle facciate delle case sopra agli accampamenti delle proteste. In questi giorni la rete manda in onda ogni pochi minuti il momento trionfale in cui i ribelli libici abbattono spingendo con le mani un murale di regime, o li mostra mentre dall’alto di un picco controllano una strada. Sui paesi del Golfo, però, al Jazeera è più cauta, al punto da sembrare muta. La repressione lampo sull’isola del Bahrein, davanti alle coste del Qatar da dove la rete trasmette, i disordini in Oman, le prime proteste in Arabia Saudita, davanti alla prigione dove da ieri è chiuso un predicatore sciita, passano quasi in silenzio. Perché al Jazeera, rete qatariota, ascolta il volere dei sauditi? Creata dodici anni fa soprattutto per dare fastidio all’Arabia Saudita e come arma mediatica puntata contro Riad, in seguito alla riconciliazione tra i due paesi nel 2008 – al tavolo per trattare era presente anche il direttore della rete – al Jazeera è stata addomesticata, come condizione della pace, dai regnanti oltreconfine. La differenza di trattamento fa parte della più generale dottrina saudita d’emergenza per spezzare in due e contenere il contagio. E’ questa: pazienza se Egitto, Libia e Tunisia sono andati, pazienza se due dittatori al potere da decenni sono già caduti, non si può più intervenire sul settore africano per il momento (ma Riad ha appena annunciato che s’impegna di buon grado a colmare il momentaneo buco nella produzione mondiale di petrolio aperto dall’assenza della Libia in guerra civile). C’è da impedire con una cortina tagliafuoco che i disordini si propaghino all’Arabia Saudita, che è il buco della ciambella, e alla ciambella di stati attorno: il Bahrein e l’Oman, strategici per il petrolio e per affrontare l’Iran al di là del Golfo, e lo Yemen dei cugini poveri, che se riuscissero a spodestare il proprio regime darebbero uno smacco simbolico ai vicini. Il pezzo centrale della dottrina è la pioggia preventiva di soldi che sta cadendo sul popolo saudita per tenerlo buono. Di ritorno da tre mesi di convalescenza nel suo palazzo in Marocco, re Abdullah ha gettato sul paese un pacchetto di welfare anti sedizione da trentaquattro miliardi di dollari, inclusi aiuti agli studenti universitari più poveri e il pagamento dei debiti a chi è finito in prigione per bancarotta. E’ stato persino lanciato un nuovo canale tuttosport, per compiacere i ragazzi. Lo sponsor indiretto di questa munificenza è Saudi Aramco, la compagnia petrolifera del regno che finanzia la casa reale – e che in questi giorni è in parte ripagata dall’aumento di prezzi dovuti alla guerra civile libica, un dollaro in più al barile in un solo giorno. Poi ci sono i pezzi di contorno. Bahrein e Oman per ora reggono. In Yemen l’opposizione è andata a Palazzo a trattare con il presidente Saleh una sua uscita morbida nel giro di un anno, anche se nelle piazze del venerdì dovunque strapiene i toni sono stati come sempre bellicosi. Un accordo di compromesso sarebbe quello più gradito a Riad, che non vuole violenze, anche se ieri i ribelli Houti nel nord del paese hanno accusato l’esercito di avere sparato razzi contro un corteo di protesta, uccidendo due manifestanti; due “mudahirin” in arabo, ed è un vocabolo ad altissima frequenza su al Jazeera.
Il FOGLIO - Rolla Scolari : " Obama ancora cerca il suo uomo a Bengasi per rovesciare Gheddafi "
Rolla Scolari
Bengasi. Ieri, nelle strade di Bengasi, c’è stata l’ennesima, grande manifestazione: la gente continua a chiedere la fine del regime di Muammar Gheddafi e del suo clan, il rais risponde con attacchi aerei e proposte (irricevibili) di pace. Ma i cortei si sono visti anche a Tripoli, a poca distanza dal quartier generale del rais: nella Piazza Verde centinaia di persone hanno scandito slogan contro Gheddafi, ma sono stati dispersi dalla polizia. La parte orientale della Libia si autogoverna ormai da settimane, eppure non è ancora emersa una leadership chiara fra i ribelli. A Tobruk, Derna, Beida, Bengasi, Ajdabiya e in tutte le città e nei villaggi dell’est, i cittadini hanno formato comitati locali, consigli civici e militari, costruiscono milizie e si confrontano con i generali che si sono ribellati a Gheddafi. I gruppi di accademici, gli attivisti, gli avvocati, i giudici e gli uomini d’affari si occupano della vita quotidiana, evitando che le città finiscano nel caos. Tuttavia, ancora manca una strategia chiara. La risposta all’attacco del rais contro la cittadina petrolifera di Brega, mercoledì, è stata efficace ma del tutto spontanea. La Casa Bianca ha contattato alcuni membri dell’opposizione e che è pronta a fornire aiuti ai ribelli. Gli sforzi degli Stati Uniti si scontrano con una realtà fluida sul terreno. Gli americani non riescono a capire con chi parlare, chi siano i leader della rivolta e quali siano i loro obiettivi. Nel tribunale di Bengasi, il quartiere generale degli insorti, e negli altri centri dell’est, ci sono molte persone da incontrare, ma nessun leader con cui trattare. Gheddafi sfrutta la situazione. Ieri le sue truppe hanno cercato di riprendere al Zawiyah, che si trova a trecento chilometri da Tripoli. Al Jazeera, che non simpatizza certo per il rais, dice che “i soldati hanno aperto il fuoco contro i manifestanti e si contano molte vittime”. Quello che non racconta è che in strada si scontrano due eserciti, perché la guerra civile è già cominciata. Ci sono stati combattimenti anche a Ras Lanuf, uno snodo del petrolio nel Golfo di Sirte, dove i soldati di Gheddafi avrebbero ucciso almeno venti uomini di una tribù ribelle. A Bengasi sono stati bombardati alcuni arsenali. Pochi giorni fa, l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi, che ha lasciato il governo all’inizio della protesta, si è proposto come leader della transizione e ha annunciato la nascita di un governo provvisorio della “Libia liberata”. Mustafa Abdul Jalil, capo del comitato di Baida, ha le credenziali per ricevere l’appoggio della popolazione – è noto per aver criticato il colonnello anche in passato, prima della rivoluzione – ma la sua mossa non ha trovato tutti d’accordo. Anzi, ha mostrato la prima crepa nella composizione dell’opposizione. Un altro uomo che potrebbe diventare centrale in questi giorni di combattimenti e di trattative è il leader del nuovo comitato militare di Bengasi, Abdel Fattah Younes, un ex generale dell’esercito che è stato ministro dell’Interno e ha abbandonato Gheddafi il 22 febbraio. La popolazione ha apprezzato le sue dimissioni, ma Younes pare troppo compromesso con il regime per poter essere accettato all’unanimità dalle forze vive della protesta. Tuttavia il generale è stato già individuato dagli osservatori internazionali come possibile attore nel futuro della Libia: il responsabile degli Esteri britannico, William Hague, ha già parlato al lungo al telefono con lui. Come Roma, Washington e Parigi, anche Londra in queste ore sta cercando di capire con chi comunicare nella nuova Libia. Alcuni diplomatici che nelle scorse settimane hanno preso le distanze dal governo – come l’ambasciatore a Washington, Ali Suleiman Aujali, e il vice ambasciatore alle Nazioni Unite, Ibrahim Dabbashi – conoscono bene i corridoi del potere internazionale e possono svolgere il ruolo di mediatori in questa fase complicata. Sul terreno, però, sono altri ad avere il controllo della situazione, come gli sconosciuti membri della classe saliti alla ribalta durante i giorni della protesta e degli scontri. Come Iman Bugaighis, una portavoce del consiglio rivoluzionario, che oggi incontra i giornalisti e auspica di avere presto contatti con le potenze straniere. Nei suoi 42 anni al potere, Gheddafi ha annientato la vita sociale del paese, soffocando ogni iniziativa privata. Gli uomini che oggi siedono nei comitati cittadini sono noti a livello locale, ma sconosciuti a livello nazionale. La mancanza di un interlocutore credibile a diverse settimane dall’inizio della rivolta preoccupa i paesi europei quanto gli Stati Uniti, che ora temono l’infiltrazione dei terroristi fra i ribelli. “Una delle maggiori paure è che la Libia discenda nel caos e diventi un’altra grande Somalia”, ha ricordato il segretario di stato americano, Hillary Clinton.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Il Colonnello non molla "
Vittorio Emanuele Parsi
Sono confuse e spesso contraddittorie le notizie che giungono dalla Libia, ma non su un punto. Sono chiare e univoche almeno sul fatto che la fine di Gheddafi è tutt’altro che imminente. Il colonnello non solo non molla, ma sfida come suo costume la comunità internazionale (ha appena nominato un nuovo ambasciatore all’Onu) e continua imperterrito a impiegare ogni mezzo a sua disposizione per reprimere la rivolta. Sa bene che il fattore tempo gioca a suo favore, che mentre il denaro gli consente di continuare a far arrivare mercenari e armi dai porosi confini meridionali (anche grazie all’appoggio di amici come Mugabe), i ribelli prima o poi esauriranno le scorte di armi sottratte ai lealisti e che, soprattutto, proprio il carattere spontaneo della ribellione rende difficile l’emergere di una leadership capace di fornire un progetto agli esasperati ed esausti cittadini libici. D’altronde, in una situazione di pressoché totale ignoranza su quali potrebbero essere i futuri eventuali leader del dopo-Gheddafi, la prospettiva di procurare armi ai ribelli appare ovviamente impraticabile.
I ribelli chiedono con crescente insistenza che la comunità internazionale intervenga per porre fine a una repressione che il prolungarsi della guerra civile rende sempre più violenta, mentre parimenti fa aumentare il nostro disagio di assistere inermi a quanto avviene. Eppure, proprio mentre Gheddafi accentuava la sua pressione sugli insorti, scemavano rapidamente le prospettive di un intervento militare occidentale diretto almeno a impedire l’impiego dei bombardieri contro la popolazione civile. Le ragioni tecniche e legali che rendono estremamente complicata l’attuazione di una no fly zone sui cieli della Libia sono state ampiamente spiegate in questi giorni. Sembra però opportuno sottolineare che proprio la capacità di resistenza mostrata dal colonnello modifica il quadro complessivo e rende l’ipotesi di intervento militare esterno ancora più implausibile. Non solo perché questo andrebbe incontro a difficoltà maggiori o a un numero di perdite prevedibilmente più alto. Ma per un fatto squisitamente politico. Sino a pochi giorni fa un intervento militare esterno sarebbe stato un modo per accelerare un destino segnato, allo scopo di limitare il sacrificio di vite umane. Si sarebbe cioè configurato come un intervento umanitario un po’ più «muscolare», una sorta di operazione «Restore Hope» (Somalia 1991), auspicabilmente di maggior successo. Oggi il medesimo intervento avrebbe il senso di far pendere la bilancia a favore di una parte contro un’altra in una situazione di guerra civile ancora molto fluida e dall’esito incerto. Sarebbe un intervento dal chiaro significato politico: ben più arduo da accettare non solo per Cina e Russia, ma anche per molti Paesi arabi e africani. Guadagnando tempo, resistendo, Gheddafi sa così di rendere molto più difficile che lo sdegno occidentale possa produrre ciò che in cuor suo più teme, l’escalation (anche militare) dell’internazionalizzazione della crisi.
La REPUBBLICA - Gilles Kepel : " Le rivolte archiviano lo scontro di civiltà. Per gli arabi è un nuovo ingresso nella storia "
Secondo Gilles Kepel le rivoluzioni del mondo arabo diumostrano che la teoria dello scontro di civiltà di Samuel Huntington è falimentare. Non ci sono fondamentalisti nelle piazze, o comunque sono una minoranza. Come se lo scontro di civiltà avesse a che vedere solo con i musulmani nei Paesi al di fuori dell'Occidente. Kepel non legge i giornali? Come può ignorare quello che sta succedendo in Pakistan, per fare un esempio? L'unico ministro cristiano del governo è stato assassinato perchè era cristiano e aveva osato mettere in discussione la legge sulla blasfemia. Anche un altro ministro, Salman Taseer (musulmano) era stato ammazzato per lo stesso motivo. Il suo assassino è stato acclamato dalla folla. Kepel prende la Turchia come esempio di civiltà islamica democratica e scrive : " vi erano islamisti come l´Akp turco, pronti a partecipare al sistema politico, destinati poi a vedere la propria dottrina dissolversi nel pluralismo, e a riconoscere che la sovranità deriva dal popolo e non da Allah: la democrazia.". La Turchia sarebbe una democrazia? Una volta era un Paese laico. Ora, 'grazie' a Erdogan e alle sue leggi che limitano il potere di militari, non lo è più. Ecco l'articolo:
Gilles Kepel
Mi ricordo una colazione al Club dei Professori di Harvard con Samuel Huntington, qualche anno dopo la pubblicazione del suo famoso articolo, poi del suo libro, sullo Scontro delle civiltà. Avevo voluto vederlo perché, per elaborare il suo argomento, aveva usato fra l´altro il mio libro La rivincita di Dio. In quelle pagine spiegavo come, negli Anni Settanta, si fossero sviluppati i movimenti politici religiosi all´interno del Cristianesimo, l´Ebraismo e l´Islam. Avevo voluto tracciare dei paralleli trans-religiosi fra quei fenomeni; dimostrare come, benché in modo diverso, ciascuno dei tre fosse nato in reazione alla crisi della modernità e del mondo industriale, all´indebolimento delle solidarietà sindacali e operaie dopo la scomparsa del lavoro in fabbrica, l´aumento della disoccupazione, e così via. Paradossalmente, però, Huntington aveva attinto soltanto alla parte islamica del mio libro, usandola per argomentare il carattere eccezionale dell´Islam. Su questo aveva fondato una visione univoca dell´Islam senza capire che all´interno di quella fede si opponevano varie forze, si scontravano per controllarlo, o per imporre una divisione tra il riferimento laico e quello religioso nella lotta politica e nello spazio pubblico. La discussione con lui quel giorno fu cortese, ma affiorarono posizioni radicalmente diverse. Qualche anno dopo arrivò l´11 settembre 2001. Huntington conobbe un secondo trionfo: gli attentati di Al Qaeda, agli occhi di gran parte dei commentatori, convalidavano le sue tesi e il carattere assolutista dell´Islam; trasformavano la gran massa dei fedeli in seguaci di Bin Laden. Dal canto mio, nel libro Jihad, ascesa e declino dell´islamismo, avevo cercato di spiegare che l´islamismo attraversava, appunto, un declino. Infatti, si era spaccato. Da un lato, vi erano i gruppi radicali destinati a usare sempre più la violenza, nella speranza che quella avrebbe svegliato le masse e innescato la rivoluzione islamica. Quei gruppi erano una versione musulmana delle Brigate rosse, o della Rote Armee Fraktion tedesca. Dall´altro lato, vi erano islamisti come l´Akp turco, pronti a partecipare al sistema politico, destinati poi a vedere la propria dottrina dissolversi nel pluralismo, e a riconoscere che la sovranità deriva dal popolo e non da Allah: la democrazia. Il 12 settembre, mentre Huntington trionfava nei media, certi giornalisti francesi chiesero la mia rimozione dalla cattedra, tanto i miei scritti parevano a loro privi di senso. Eppure oggi, che sono trascorsi 10 anni, quell´analisi mi sembra giusta. L´estremismo islamico, di cui Bin Laden era l´emblema, non è riuscito a trascinare le masse del mondo musulmano. Al Qaeda è ridotto a una setta priva di fecondità politica. D´altro canto, i regimi autoritari e dittatoriali dei vari Mubarak e Ben Ali, ritenuti dagli occidentali "baluardi" contro l´estremismo islamico, sono anch´essi diventati obsoleti. Oggi i popoli arabi sono emersi da quel dilemma - stretti fra Ben Ali o Bin Laden. Hanno fatto di nuovo ingresso in una storia universale che ha visto cadere le dittature in America Latina, i regimi comunisti nell´Europa orientale, e anche i regimi militari nei Paesi musulmani non arabi, come l´Indonesia e la Turchia. Di conseguenza, gli islamisti che proponevano la partecipazione politica all´interno di un sistema pluralista sul modello turco, oggi prevalgono, anche se in Egitto non sono stati capaci di imporre il proprio vocabolario politico, e sono costretti - senza pregiudicare gli sviluppi futuri - a seguire le rivoluzioni democratiche arabe, anziché invocare la sovranità di Allah. Perciò, credo che il sociologo politico abbia avuto ragione rispetto a certi studi che riducevano la società a dei testi ideologici. Molti, con grande ingenuità, ora scrivono che l´islamismo è scomparso, che gli arabi assomigliano agli europei o agli americani. La realtà, però, è più complessa. Gli arabi, infatti, stanno costruendo una modernità, esitante. Non è un caso che la prima rivoluzione araba sia avvenuta in Tunisia, e che lo slogan più celebre sia stato espresso in francese: "Ben Ali dégage", "vattene", ripreso fedelmente dagli egiziani in un Paese dove quasi nessuno parla più il francese. Gli egiziani l´hanno ascoltato su Al Jazeera ed è divenuto uno slogan rivoluzionario. In Tunisia vi è un vero pluralismo culturale franco-arabo. Questo ci fa capire la vera natura delle rivoluzioni in corso: radicate nelle culture locali, e al tempo stesso nelle aspirazioni universali, con tutte le difficoltà che ciò comporta.
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