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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.03.2011 Libia, che cosa succederà quando cadrà Gheddafi ?
Cronache di Maurizio Molinari, Luigi De Biase, Davide Frattini

Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Luigi De Biase - Davide Frattini
Titolo: «L’invito di Obama ai militari libici: Cacciate il raiss - E se il Raìs resta al potere ? Tre scenari per l'Occidente»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/03/2011, a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " L’invito di Obama ai militari libici: Cacciate il raiss ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 6, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " E se il Raìs resta al potere ? Tre scenari per l'Occidente ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Luigi De Biase dal titolo " Chávez offre a Gheddafi la chance per allentare la stretta dell’occidente ".

Thomas Friedman (La Repubblica) e Valentino Parlato (Il Manifesto) continuano a descrivere le rivolte nel Maghreb come se si trattasse solo di una lotta per la democrazia. Nessuna traccia di islamismo in quelle rivoluzioni. A provare questa teoria sarebbe il fatto che non vengono utilizzati slogan religiosi, ma molto concreti. Sul fatto che gli islamisti siano ben infiltrati tra la popolazione e che abbiano reali possibilità di salire al potere nemmeno un accenno.
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " L’invito di Obama ai militari libici: Cacciate il raiss "


Maurizio Molinari, Barack Obama

Barack Obama lancia un monito ai militari libici che sostengono Muammar Gheddafi: «Chi commette violenze contro la popolazione civile ne sarà responsabile, sappiate che la Storia si sta muovendo contro il colonnello». Il Presidente americano parla in occasione della visita alla Casa Bianca del collega messicano Felipe Calderón e in una East Room gremita di reporter definisce una posizione sulla crisi libica che si articola su tre cardini: «La violenza deve avere fine, Gheddafi è del tutto delegittimato e se ne deve andare, chi esercita violenze contro i civili ne dovrà rispondere».

Se la precedente richiesta di dimissioni al colonnello era contenuta in un comunicato relativo alla telefonata con la cancelliera tedesca Angela Merkel, ora Obama parla in prima persona per esercitare una forte pressione verso coloro che stanno consentendo a Gheddafi di resistere. «C’è il pericolo di un sanguinoso stallo in Libia» dice Obama, attribuendolo a «coloro che sono intorno al colonnello e lo sostengono nel perpetrare violenze contro la popolazione». Da qui il messaggio: «Avete una scelta davanti a voi».

Restare con il colonnello comporta rischiare l’incriminazione da parte del Tribunale penale internazionale, mentre abbandonarlo significa seguire l’esempio dei militari egiziani, cui Obama si riferisce citandone la «capacità di portare a termine la svolta» del dopo-Mubarak. Dietro le soppesate parole di Obama ci sono le analisi dell’intelligence, secondo cui nella ristretta cerchia di collaboratori del colonnello vi sarebbero delle crepe. La Casa Bianca punta ad accentuarle, per spingere i militari a far cadere il regime.

È questa la dottrina Obama sulle rivolte arabe. «In Egitto abbiamo accompagnato il cambiamento senza intromissioni e il risultato è stato l’assenza di antiamericanismo fra i manifestanti» sottolinea Obama, facendo capire che anche in Libia punta a favorire una soluzione dall’interno.

Ciò non toglie che il Pentagono abbia messo sulla scrivania dello Studio Ovale «una totale capacità di intervento» e Obama tiene a sottolineare che navi e marines al largo della Libia servono per «poter intervenire rapidamente se necessario» in caso di «carenza di cibo a Tripoli con Gheddafi chiuso nel bunker» oppure di «gravi violenze contro i civili». Ovvero se il colonnello dovesse decidere di lanciare gas mostarda sulle regioni ribelli o di procedere a stragi di massa. Incalzato dalle domande dei reporter, Obama non esclude l’imposizione di zone di interdizione al volo sopra la Libia ma tiene a sottolineare che la priorità per le forze Usa è condurre «operazioni umanitarie». Da qui l’annuncio dell’impiego dell’Us Air Force «per trasportare in Egitto i profughi egiziani che si trovano in Tunisia», l’invio di navi «per soccorrere chi ne ha bisogno» e l’ordine dato all’Us Aid - l’Agenzia federale per gli aiuti internazionali - di creare delle postazioni lungo i confini, dove si stanno concentrando migliaia di persone in fuga.

Obama nomina la Nato una sola volta, per ribadire che «agiremo non da soli ma in raccordo con gli alleati» ma il suo focus è altrove: è quando parla rivolto ai militari libici che guarda diritto nelle telecamere per far capire che Washington conosce i nomi di chi sta tenendo in piedi ciò che resta del regime della Jamahiriya.

L’altro tassello dell’approccio di Washington è descritto dal Segretario di Stato Hillary Clinton, secondo la quale «l’Iran sta tentando di approfittare delle rivolte arabe per mettere piede in Egitto, Yemen e Bahrein». E dunque anche l’instabilità libica giova agli avversari degli Stati Uniti in Medio Oriente.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " E se il Raìs resta al potere ? Tre scenari per l'Occidente "


Davide Frattini

Ottanta veicoli, cinquecento chilometri, in corteo armato dallo Zambia allo Zimbabwe, limousine e autoblindo per dimostrare che la benzina non manca a Muammar Gheddafi e che il colonnello sa essere generoso in petrolio con gli amici dittatori. L’incontro con Robert Mugabe, dieci anni fa, è sfoggio di carburante e diplomazia tra despoti, scambio di favori con il vicino di repressione, che ha visitato spesso Tripoli durante il periodo delle (prime) sanzioni internazionali. Adesso il Raìs è rimasto di nuovo solo e Mugabe è uno dei pochi che potrebbe essere disposto ad accoglierlo. Assieme al compagno Hugo Chávez, che dal Venezuela parla di «un comitato per la pace» , di un possibile piano— senza dettagli— per negoziare la fine degli scontri tra il governo e gli insorti. Se non fosse che Gheddafi disdegna l’ipotesi dell’esilio e invece di trattare continua a bombardare la città di Brega. Ripete di essere pronto a morire da martire piuttosto che fuggire, le sue forze incalzano verso oriente. Partire, cadere combattendo. O restare (al potere). Il Colonnello potrebbe riprendere il controllo del Paese, delle parti petrolifere e vitali. Potrebbe arroccarsi, pronto a subire l’inasprimento dell’embargo. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno per ora bloccato i suoi fondi, quelli di cinque familiari e venti fedelissimi, le vendite di armi e munizioni. Negli anni Novanta, il castigo americano colpiva anche le esportazioni di greggio e i rapporti commerciali. La crisi finanziaria, tra il 2008 e il 2009, ha già ridotto del 40 per cento i ricavi dai pozzi, intaccando il rapporto tra il capo e le tribù, che con la ribellione stanno rompendo il patto economico e d’onore. La Corte internazionale di giustizia ha aperto un’inchiesta per violazione dei diritti umani. Da presidente dell’Unione Africana, Gheddafi aveva attaccato il tribunale dell’Aja, dopo il mandato di arresto emesso contro Omar al Bashir, accusato per i massacri, in Darfur. Il leader libico, anche se rimanesse insediato a Tripoli, è in una posizione politica più debole rispetto al capo di Stato sudanese. «Indietro non si torna — spiega una fonte diplomatica italiana —. Se Gheddafi dovesse restare, non può più essere un interlocutore credibile. La comunità internazionale perderebbe la faccia, non è possibile riprendere le relazioni. Verrebbe isolato. Sanzioni diplomatiche sempre più dure, con l’opzione militare aperta, pronti a interporsi per fermare eventuali eccidi» . Ignazio La Russa, ministro della Difesa, ha annunciato che l’accordo Italia-Libia del 2008 è sospeso «di fatto» . «Con il Raìs ancora al suo posto— continua il diplomatico— sarebbe necessario cancellare l’intesa anche di diritto» . L’intervento armato è ridimensionato da chi dovrebbe condurlo. Il Pentagono muove nel Mediterraneo le navi Kearsarge e Ponce, ma Robert Gates si affretta a enfatizzare «le capacità d’emergenza e di aiuto umanitario» delle due unità, non quelle militari. Il segretario alla Difesa ripete che non c’è ancora il mandato delle Nazioni Unite e che non esiste unanimità nella Nato sull’ipotesi di un’azione. I tedeschi, gli spagnoli, i polacchi e i norvegesi sono riluttanti perfino all’idea di imporre la no-fly zone nei cieli libici. «Entrare con truppe americane ed europee o cominciare i bombardamenti per sostenere l’opposizione sarebbe controproducente — scrive Nicholas Kristof, editorialista del New York Times, due premi Pulitzer— perché offrirebbe al Colonnello l’opportunità di giocare sui sentimenti nazionalistici, di accusarci di mire imperialiste. La verità è che dopo l’Iraq non possiamo permetterci di invadere un’altra nazione araba ricca di petrolio» . Gli occidentali si stanno anche preparando a una situazione di stallo, a una divisione nel Paese, con Gheddafi e i suoi mercenari asserragliati a Tripoli e dintorni, i ribelli vittoriosi a Est, ma incapaci di conquistare tutto il territorio. «In questo caso— continua la fonte italiana— è possibile instaurare un rapporto istituzionale con i leader in Cirenaica a condizione che sia l’embrione di un futuro governo nazionale. L’ipotesi separatista non è accettabile» . Stephen Walt, docente di politica internazionale all’università di Harvard, è stato invitato un anno fa a tenere un seminario all’Economic Development World di Tripoli, dove sono passati anche altri intellettuali divi come Francis Fukuyama, Bernard Lewis, Joseph Nye, Richard Perle. Trentasei ore nella capitale, riassunte in una lista di sorprese («in tv si vedono la Bbc, la Cnn, Bloomberg, Al Jazeera, Casalinghe disperate e i vari cloni di Csi. In giro c’è meno polizia o militari che nella Spagna di Franco» ), fino alla conclusione: «La Libia è lontana dall’essere una democrazia, ma sembra più aperta dell’Iran o della Cina» . Nel diario di viaggio scritto per Foreign Policy elogiava Bush I, Bill Clinton e Bush II per «aver mantenuto la pressione su Gheddafi con le sanzioni, lasciando però la porta aperta alla riconciliazione» . Dopo i massacri, ritiene improbabile che la comunità internazionale sarà disposta a concedere una seconda possibilità: «Il Raìs è rimasto bandito per anni, prima di venire reintegrato — commenta al telefono da Boston—. Questa volta l’Occidente è ancora più sospettoso» . Autore di un controverso saggio sulla «lobby israeliana» , Walt crede che se il leader resta aggrappato al potere, «qualche Paese accetterà di fare affari con lui, cercherà di aggirare l’embargo. Ma Gheddafi non riuscirà più a farsi riabilitare» .

Il FOGLIO - Luigi De Biase : "  Chávez offre a Gheddafi la chance per allentare la stretta dell’occidente"


Luigi De Biase, Hugo Chavez

Roma. Due navi americane cariche di truppe si trovano a cinquanta miglia dalle coste della Cirenaica. Il capo della Casa Bianca, Barack Obama, annuncia che gli aerei militari saranno usati per rimpatriare i profughi e lancia un messaggio poco rassicurante al leader libico, Muammar Gheddafi: basta violenze, dice Obama, il rais “se ne deva andare”. Gheddafi cerca di riprendere la parte orientale del paese, che è in mano ai ribelli da due settimane. Ieri si è combattuto a Brega e Abadiya, due centri strategici per l’industria del petrolio. Sinora gli oppositori hanno resistito agli attacchi, ma non sembrano in grado di fare molto altro. Anche per questo, nei giorni scorsi hanno domandato l’intervento militare delle potenze straniere. La risposta dell’occidente alla crisi è una: Gheddafi non è più considerato un interlocutore, quindi deve lasciare il potere. Da un lato ci sono le manovre diplomatiche, che comprendono la richiesta di esilio, il blocco dei beni del rais e l’indagine per crimini contro l’umanità aperta ieri dal Tribunale dell’Aia. Dall’altro, c’è l’ipotesi dello sbarco militare, che pare lontana ma non si può ancora escludere. Duemila marine della Quinta flotta hanno lasciato il Bahrein per prendere posizione nel Mediterraneo, le navi italiane trasportano aiuti ai civili di Bengasi e il segretario della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha ricordato ieri che l’Alleanza “prepara piani in modo prudente per ogni eventualità”, anche se non intende intervenire. In ogni caso, ammette il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, “serviranno alcune settimane” alla fine del regime. Il rais ha la forza per tenere i ribelli sotto assedio e ora dice di essere pronto a una mediazione internazionale. Naturalmente, le prospettive avanzate dai paesi europei non sono sulla sua agenda. E’ in questo spazio che si sta inserendo un outsider come Hugo Chávez: proprio ieri, il presidente del Venezuela ha annunciato di avere una proposta per fermare i combattimenti e risolvere la crisi del Mediterraneo. Il piano rischia di aiutare Gheddafi più dei cittadini libici e somiglia a un clamoroso depistaggio, ma ha già raccolto i favori della Lega araba. Chávez vorrebbe mandare a Tripoli un gruppo di mediatori arabi, europei e sudamericani. “Anziché pensare ai marine, alle navi da guerra e ai caccia, perché non formiamo un comitato di volenterosi in grado di aiutare la Libia? Dopotutto, loro sono nostri fratelli – ha detto il presidente venezuelano – Credo che Gheddafi sia vittima di una campagna di menzogne”. Al di là dei proclami, Libia e Venezuela hanno in comune due cose soltanto: le riserve di petrolio e la politica antiamericana. Questi due particolari hanno rafforzato l’amicizia fra i due leader: nel 2009, Chávez è stato a Tripoli per festeggiare i quarant’anni di Gheddafi al potere, ed è rimasto seduto al suo fianco durante un’imponente parata militare. Pochi mesi più tardi, il colonnello ha intitolato a Chávez un grande stadio a Bengasi, la stessa città che oggi ospita il quartier generale dei ribelli. Non a caso, dopo le prime proteste, alcuni hanno ipotizzato che Gheddafi fosse pronto alla fuga in Venezuela. Lui ha smentito le voci con un paio di discorsi minacciosi, e ora può usare la mediazione dell’amico Chávez per prendere tempo, per ricostruire la propria immagine agli occhi del mondo arabo e proseguire la campagna militare nei confronti degli avversari. L’idea di una trattativa guidata dal presidente del Venezuela è buona per il segretario della Lega araba, Amr Moussa, che l’ha già benedetta, ma potrebbe essere sostenuta anche dalla Turchia. Il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu, ha escluso l’ipotesi di un intervento della Nato, sostenendo che c’è il grande rischio di “trasformare una crisi regionale in uno scontro di civiltà”. La proposta di Chávez è stata respinta dai rappresentanti dei ribelli e può intralciare le operazioni umanitarie che stanno partendo proprio in queste ore. Ieri, l’Unione europea ha assegnato trenta miliardi di euro all’emergenza profughi, mentre l’Organizzazione mondiale per le migrazioni comincerà presto a evacuare i civili dal porto di Bengasi. Il Consiglio dei ministri italiano ha dato il via libera alla missione in Cirenaica, grazie alla quale sarà offerto aiuto sia alla popolazione di Bengasi sia a quella di Misurata.

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