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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
02.03.2011 Sono i soldi ad aver scatenato la rivolta in Libia
Analisi di Francesco Grignetti, Redazione del Foglio, Paola Peduzzi, Dimitri Buffa

Testata:La Stampa - Il Foglio - L'Opinione
Autore: Francesco Grignetti - La redazione del Foglio - Paola Peduzzi - Dimitri Buffa
Titolo: «Così è nata la rivoluzione. Per i soldi, non per l’islam - Oltre le sanzioni - Libia: il 18 marzo l'Onu vota la sua 'promozione' nel consiglio dei diritti umani»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/03/2011, a pag. 6, l'articolo di Francesco Grignetti dal titolo " Così è nata la rivoluzione. Per i soldi, non per l’islam ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo " Gheddafi è tutt’altro che sconfitto. Che succede se resta al potere? ", l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo " Oltre le sanzioni ". Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Libia: il 18 marzo l'Onu vota la sua 'promozione' nel consiglio dei diritti umani ".
Ecco gli articoli:

La STAMPA - Francesco Grignetti : " Così è nata la rivoluzione. Per i soldi, non per l’islam "


Francesco Grignetti

Due settimane dopo la grande rivolta, sulle scrivanie del governo sono arrivati finalmente i rapporti che documentano quanto accaduto davvero in Libia. E sono sorprendenti. Innanzitutto viene una precisazione: la Libia è ricca, per entrate avrebbe il Pil della Norvegia, ma a Tripoli non è mai nato uno Stato moderno. Il potere come cent’anni fa resta articolato in clan, le «cabile», in perenne lotta tra loro per la divisione dei proventi del petrolio. Altro che islamisti, dunque. Il problema sono i soldi.

Sui clan per quarant’anni ha imperato Gheddafi, la sua famiglia e la sua tribù. Ma i rapporti tra le cabile della Cirenaica e il dittatore si erano deteriorati gravemente negli ultimi tempi. E il raiss con quelli di Bengasi, tradizionalmente ostili al suo potere, ha usato il pugno di ferro: 1200 morti per reprimere una rivolta nel 1996, altri 14 morti per i moti del 2006 quando fu incendiato il consolato d’Italia. Stessi i luoghi della repressione. Stessa la persona che fisicamente rappresenta le vittime bengasine (e le cabile di riferimento): l’avvocato Fethi Tarbel, noto attivista dei diritti umani, il quale da tempo porta avanti un’impegnativa causa di risarcimento a nome di oltre mille famiglie.

Il 15 febbraio, l’avvocato Tarbel è stato arrestato con una scusa. Agli occhi dei bengasini era l’ennesimo trucco di Gheddafi per evitare i risarcimenti ai parenti delle vittime. E così il giorno dopo, sull’onda dell’emozione per quanto accaduto a Tunisi e al Cairo, ecco la prima scintilla della rivolta: un centinaio di familiari si sono radunati davanti a un commissariato di Bengasi per chiedere la liberazione del loro avvocato.

Quel sit-in è finito malissimo, a notte fonda, con disordini e scontri di piazza. E il 17, data fatidica della rivoluzione, c’è stata la replica. Ma questa volta i bengasini si sono presentati armati. Alcuni reparti dell’esercito, più fedeli alle cabile che a Gheddafi, hanno appoggiato la rivolta. Ne è nato un assalto alla Guardia presidenziale, lo zoccolo duro dei gheddafiani e dei mercenari. Si è sparato con le armi pesanti. Si sono contati a centinaia i feriti e i morti. E da quel momento la Libia si è dissolta in un batter d’occhio.

Gheddafi ci prova, dunque, a presentare la rivolta come un complotto di Al Qaeda perché gli fa comodo spaventare una volta di più l’Occidente. Ma la questione è molto più semplice. Epperò più complicata al tempo stesso. Già, perché se a Bengasi c’è ora un abbozzo di governo alternativo, rappresentativo delle maggiori tribù del Paese, il clan di Gheddafi è ancora abbastanza unito nel sostenere il «suo» dittatore. Non solo. Il raiss, poco fidandosi delle forze regolari, e a ragione, negli anni ha lasciato deperire l’esercito. Come si ricorderà, la Libia è stata sottoposta a un embargo severo per quasi dieci anni. Dacché ha potuto ricominciare ad armarsi, però, tutto è finito alle quattro Unità d’élite che gli sono fedeli. E in pratica la forza militare è ancora saldamente nelle sue mani. Se Gheddafi decidesse di fare sul serio la guerra, la Libia rischia uno spaventoso bagno di sangue.

Ecco spiegate le enormi prudenze del governo italiano. Berlusconi e i suoi ministri sono diventati il bersaglio delle critiche più caustiche da parte dell’opposizione e anche in sede europea non mancano le puntualizzazioni. Eppure c’è una logica in tanta cautela.

Fino a ieri era la sorte dei nostri connazionali isolati nel deserto. Da oggi è la preoccupazione di non far finire un Paese tanto vicino, che è il perno della nostra politica energetica, e porta di accesso dall’Africa all’Europa, nel gorgo della guerra civile.

Intelligence e diplomazia italiana hanno fallito nel prevedere la dissoluzione del regime, ma ora, attivate le antenne, ritengono che la strada delle sanzioni, peggio ancora di qualche intervento armato, sarebbero il regalo migliore per Gheddafi, pronto a fare la vittima dei rapaci occidentali. Il consiglio è di muoversi con passo felpato e di inventare un’uscita di scena onorevole per il dittatore: tutto purché si eviti la carneficina e si possa subito negoziare con i nuovi potenti.

Il FOGLIO - "  Gheddafi è tutt’altro che sconfitto. Che succede se resta al potere?"


Muammar Gheddafi

Roma. La risata con cui Muammar Gheddafi ha risposto al giornalista della Bbc che gli chiedeva se fosse disposto ad accettare l’esilio conferma le peggiori previsioni. Il colonnello non ha intenzione di trattare per una via di fuga, controlla saldamente Tripoli e Sirte ed è anche in grado di tenere sotto assedio la strategica al Zawiya, terminal di un importante oleodotto, Zenten e Misurata. Proprio a Misurata, le truppe speciali di Khamis Gheddafi hanno ucciso ieri tre dimostranti, hanno catturato decine di giovani e li hanno mostrati alla televisione pubblica, indicandoli come “drogati” e “responsabili dei disordini”. Così, in Libia, si apre uno scenario completamente diverso rispetto a quello prospettato dalla maggior parte della stampa italiana, che ha assicurato per giorni la fine certa e rapida del colonnello. Venerdì, il Corriere della Sera ha titolato in prima pagina “Tripoli alla battaglia finale”, mentre la Stampa ha scritto “I ribelli puntano su Tripoli”. L’annuncio del quotidiano torinese risulta sobrio rispetto a quello scelto da Repubblica, che ha lanciato: “I ribelli marciano su Tripoli”. Quella marcia deve ancora avvenire, e Gheddafi non ha intenzione di cedere in fretta. Gli oppositori sono forti, soprattutto nella parte orientale del paese, hanno le armi e l’appoggio della popolazione. In più, ora cercano di organizzarsi anche sotto il profilo militare. Uno degli ufficiali che hanno lasciato l’esercito, Faris Zwei, ha detto ieri che i ribelli hanno costituito un consiglio unitario e che preparano attacchi coordinati contro i lealisti. “Pianificheremo gli assalti alle unità di sicurezza di Gheddafi, alle sue milizie e ai suoi mercenari – ha dichiarato – Vogliamo che ogni città abbia l’onore di liberarsi da sé. Se ci saranno ritardi, interverremo noi”. Ma il rais segue la strategia dell’arrocco e gli analisti più avvertiti cominciano a pensare che potrebbe anche avere ragione dei ribelli. Ha la calma che serve per incontrare i giornalisti, per mandare un nuovo ambasciatore negli Stati Uniti e per mettere uno dei suoi fedelissimi alla guida delle trattative con i ribelli. I suoi uomini stanno preparando in queste ore un attacco alla città di Nalut. Nalut, come al Zawiya, è un centro energetico importante – ci passa un gasdotto di Eni – ed è sotto il controllo di una tribù ribelle. Secondo al Arabiya, dal Niger sono in arrivo centinaia di mercenari addestrati per fermare la rivolta e riportare la Libia sotto la guida del rais. Stando alle notizie in arrivo da Tripoli, oggi Gheddafi ha qualche possibilità di restare al potere e di costringere le province orientali a lasciare le armi – un’operazione che può essere portata a termine sia con le buone maniere, che significa concessioni politiche, sia con quelle cattive, ovvero con una vittoria militare. L’altra possibilità è che il confronto tra il colonnello e i ribelli prosegua sino alla nascita di due entità amministrative separate, una a Tripoli, l’altra a Bengasi. Ognuna pone dei problemi alla comunità internazionale. In ogni caso, il rais non intende lasciare il potere rapidamente. “Gheddafi cadrà ma ci vorrà qualche settimana”, ha avvertito ieri il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Il leader libico ha ricevuto un importante aiuto dall’Organizzazione del consiglio islamico (l’Oci) che ha escluso l’idea di una “no fly zone”. Il segretario generale, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, è stato netto: “Siamo contro ogni possibile intervento militare, perché le controversie vanno risolte con mezzi pacifici e senza ricorrere all’uso della forza”. E’ evidente, e preoccupante, il peso che, nonostante la ferocia dimostrata da Gheddafi, i paesi musulmani attribuiscono alla sharia, che impedisce a “eserciti cristiani” di calpestare il dar al islam, il territorio dell’islam. E’ una posizione tipica del più rigido fondamentalismo islamico, che la Lega araba disattese nel 1991 quando chiamò la coalizione a guida americana a combattere contro le truppe di Saddam Hussein per liberare il Kuwait. Si apre ora l’interrogativo sulla tenuta delle forze di opposizione. Discreti contatti – mediati dal governo italiano, come ha lasciato intendere ieri il ministro Frattini – sono in corso con i principali esponenti del gruppo, che sono riuniti a Bengasi. Ma quale sarà l’atteggiamento delle tribù ribelli una volta che Gheddafi avrà dimostrato di poter resistere, e l’Onu avrà definitivamente escluso l’ipotesi di un intervento umanitario nel paese? Questo è l’interrogativo cruciale dei prossimi giorni.

Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " Oltre le sanzioni "


Paola Peduzzi

Milano. Piano con le opzioni sul tavolo, con le ipotesi umanitarie e quelle militari, perché poi potremmo doverle valutare sul serio, e allora cosa si fa, un’altra guerra nella regione più delicata del pianeta? Il partito del non intervento in Libia mette le mani avanti, soprattutto ora che si assiste a quella che Simon Tisdall sul Guardian definisce una “overreaction”. La comunità internazionale sta sfoderando le armi diplomatiche: sanzioni, espulsione dai consessi onusiani, embargo finanziario e militare. L’ambasciatrice americana all’Onu, Susan Rice, ha ribadito: “Faremo pressioni finché Muammar Gheddafi non se ne andrà”; il segretario alla Difesa, Robert Gates, ha annunciato l’invio di due navi anfibie e “centinaia di marine” di fronte alle coste libiche per essere pronti a ogni eventualità. Il premier britannico, David Cameron, l’unico ad avere ripreso la dottrina dell’ingerenza umanitaria e l’unico ad aver detto, alla Camera dei Comuni, che “l’opzione militare non è stata esclusa”, valuta l’ipotesi di una “no fly zone” unilaterale. Per l’11 marzo è stato fissato un Consiglio europeo straordinario, e intanto il neoministro degli Esteri francese, Alain Juppé, rispolvera persino l’Unione per il Mediterraneo – che di fatto non è mai esistita. Non c’è una voce unica della comunità internazionale, ma c’è una voce forte e già questo è un dato incoraggiante, ancor più se si pensa che, nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, Russia e Cina hanno votato per la linea dura contro la Libia – anche se ora si allontanano dalla linea. Ma che cosa succede se la pressione internazionale non ottiene ciò che vuole, se le armi diplomatiche non funzionano, se il colonnello non cade e il trionfalismo rivoluzionario di al Jazeera sfuma con la speranza di un futuro diverso? A detta della gran parte dei leader mondiali, Gheddafi non è più un interlocutore ammissibile, quindi o se ne va da solo, o bisogna costringerlo ad andarsene. E poiché nel frattempo ci sono stati i morti e i bombardamenti, si configurerebbe un caso da manuale di ingerenza umanitaria. Ma il partito del non intervento non ci sta. Tutte le opzioni sono sul tavolo Ma si sta già formando il partito del non intervento in Libia Una buona dose di cautela – condivisa anche dall’Italia – è giustificata: è in corso una guerra civile, in Libia, in cui a Gheddafi si contrappongono molti suoi ex fedelissimi e non è detto che, nel ricambio, il popolo libico avrà da guadagnarci. Ma, a ben vedere, questo potrebbe rendere la protezione internazionale ancor più importante. Invece molti iniziano a dissociarsi: il francese Juppé sottolinea che non ci sarà un intervento senza un chiaro mandato dell’Onu; il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, esclude ogni intervento da parte della Nato; l’Organizzazione della conferenza islamica s’oppone a qualsiasi ingerenza in Libia. Ogni paese ha le sue motivazioni, i suoi interessi da difendere, ma intanto si sta creando il “case against”, la lista delle ragioni per cui sarebbe meglio evitare ogni tentativo di regime change in Libia. Il Guardian elenca tre lezioni da tenere a mente: le rivoluzioni appartengono a chi le fa, e chi le fa non vuole stranieri; le rivoluzioni sono appena iniziate, vediamo dove vanno a finire; il processo di cambiamento andrà avanti, la politica occidentale in medio oriente potrà al limite adattarsi, non dettare i termini del cambiamento. Gideon Rachman, commentatore del Financial Times, rincara: “L’intervento esterno può salvare vite nel breve periodo ma nel lungo finirà per danneggiare l’unica chance reale di pace – la speranza che il futuro del medio oriente sia da ora determinato dai cittadini, non da dittatori né da potenze straniere”. Ma il Wall Street Journal, annusando il dibattito, scrive: “Le ragioni morali e strategiche per una leadership americana nella questione libica sono ovvie. Un regime terroristico sta uccidendo il suo popolo, che vorrebbe la protezione americana. Una guerra civile sanguinosa trasformerebbe la Libia in uno stato fallito nell’Africa del nord, un rifugio ideale per i terroristi. L’America deve sostenere un governo provvisorio che possa agire quando il regime collassa per restaurare l’ordine senza troppo spargimento di sangue. Obama cosa sta aspettando?”.

L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Libia: il 18 marzo l'Onu vota la sua 'promozione' nel consiglio dei diritti umani "


Dimitri Buffa

Questa storia della rivoluzione in Libia e della repressione sanguinaria ordinata da Gheddafi ha fatto venire alla luce molte contraddizioni. La più macroscopica delle quali riguarda l’Onu, non l’Italia. Il prossimo 18 marzo 2011  infatti il Consiglio per i diritti umani, da cui in teoria la Libia è stata sospesa per decisione unanime all’interno del Consiglio di sicurezza e del segretario dell’Onu Ban Ki Moon, ha al contrario all’ordine del giorno l’approvazione del rapporto sullo status dei diritti umani in Libia. Ed è un rapporto favorevolissimo, fatto di lodi ed encomi. Ad esempio raccomanda “la permanenza della Libia nel Consiglio” (composto di 47 stati) apprezzandone “la collaborazione fattiva”, e loda  la Libia “per i grandi miglioramenti apportati al rispetto dei Diritti Umani al proprio interno “.
Le lodi alla Libia sono state firmate dai seguenti altri paesi  membri del Consiglio: Iran, Algeria, Qatar, Sudan, Siria, Nord Corea,  Bahrein, Autorità Nazionale Palestinese, Iraq, Arabia Saudita, Tunisia, Venezuela, Giordania, Cuba, Oman, Malesia, Egitto, Malta, Bangladesh, Marocco, Pakistan, Messico, Myanmar, Vietnam, Thailandia, Brasile, Kuwait. 
Tutto ciò è stato segnalato ieri  dall’organizzazione non governativa “UN Watch”, l’unica amica di Israele dentro le Nazioni Unite,  che si batte da tempo per l’esclusione della Libia e dell’Iran dal Consiglio ONU per i Diritti Umani.
Il problema, nella burocrazia Onu, è che la risoluzione in agenda non è stata mai annullata e quindi il 18 marzo potrebbe essere votata come se niente fosse. Con il bel risultato che da una parte Gheddafi verrebbe cacciato o esiliato dal proprio paese e dall’altra il suo regime promosso davanti all’Onu. Così la ong “UN Watch”, che guida la Global Campaign ONG per rimuovere la Libia dal Consiglio dei diritti umani, ha invitato il Segretario di Stato Hillary Clinton e il ministro degli Esteri dell'Unione europea Catherine Ashton a sollecitare il segretario Ban Ki Moon per fare  annullare la risoluzione prevista che loda il trattamento dei diritti umani in Libia e che dovrebbe essere adottata nella sessione in questione. Attualmente quindi la siutuazione “onusiana” è questa:  da una parte il Consiglio di sicurezza ha votato per sospendere la Libia dal Consiglio dei diritti umani fintanto che la situazione con Gheddafi non sarà risolta, dall’altra il Consiglio stesso sta per approvare una mozione in cui il prossimo 18 marzo il regime di Gheddafi viene promosso per avere “implementato all’interno della Libia il rispetto dei diritti umani”. Una mozione che  la stragrande maggioranza dei membri del Consiglio ha utilizzato per lodare  in perfetta malafede il regime di Gheddafi per la sua presunta promozione dei diritti umani.
Ecco alcune perle dell’ultima riunione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu tenutasi il 4 gennaio scorso (quando le rivolte nel Maghreb erano tutte già in pieno svolgimento) in cui venne deciso di sentire tutti i rappresentanti degli  stati (canaglia) membri.
 Parla l’Iran e osserva che “la Libia ha attuato una serie di strumenti internazionali sui diritti umani e ha collaborato con gli organi trattato pertinente”. L’Iran “ha preso atto con soddisfazione dell'istituzione del Comitato nazionale per i diritti umani come  istituto nazionale indipendente per i diritti umani, e della fornitura di un ambiente favorevole per le organizzazioni non governative.” La parola al rappresentante dell’Algeria che “fa  notare gli sforzi della Libia per promuovere i diritti umani, cosa che riflette l'impegno del paese a rispettare i diritti umani e le risoluzioni del Consiglio di cooperazione con la comunità internazionale”. L’Algeria “ha accolto con favore il quadro istituzionale nazionale che era stato istituito, in particolare il Comitato Nazionale dei Diritti Umani e ha rilevato che il paese ha compiuto alcuni progressi nel settore dell'istruzione, così come il progresso sociale ed economico in conseguenza della revoca delle sanzioni”.
Parla il Sudan e nota “l’esperienza positiva del paese nel raggiungimento di un elevato tasso di scolarizzazione e il miglioramento della formazione delle donne”. Parla il rappresentante della Repubblica araba siriana che “elogia la Libia per il suo impegno serio e l’interazione con il Consiglio dei diritti umani e dei suoi meccanismi.” La Siria ha poi “lodato il Paese per il suo regime democratico basato sulla promozione dell’autorità del popolo, attraverso l'organizzazione di conferenze pubbliche, che migliora lo sviluppo e rispetto dei diritti dell'uomo, nel rispetto delle tradizioni culturali e religiose..”
Mettiamoci pure l’intervento del rappresentante nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu della Corea del Nord, che magari sennò si offende, e scopriamo che il suddetto ha “elogiato la Libia per i suoi successi nella tutela dei diritti umani, in particolare nel campo dei diritti economici e sociali, tra cui aumento del reddito, assistenza sociale, un sistema di istruzione gratuita, una maggiore fornitura di servizi di assistenza sanitaria, l'assistenza per le persone con disabilità, e gli sforzi per l'empowerment delle donne.”
Ecco, questo accade nell’Onu, il feticcio del famoso multilateralismo come approccio per risolvere le crisi internazionali. E queste allucinanti considerazioni da “mondo a parte” saranno votate e presumibilmente approvate il prossimo 18 marzo. Se qualcuno non chiama prima la Croce verde e manda a a prelevare i rappresentanti di quei paesi all’interno del Palazzo di Vetro.

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