Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 28/02/2011, a pag. 1-11, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Che beffa vedere la Cina fare la morale a Gheddafi ". Dal CORRIERE della SERA, a pag 11, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo " Ma il processo all’Aja a Gheddafi può trasformarlo in un nuovo martire ", a pag. 38, l'articolo di Paolo Franchi dal titolo " Un despota o antico liberatore? Gheddafi imbarazza ancora la sinistra ".
'Sparare sui dimostranti, bombardare i civili, schiacciare gli oppositori?! Gheddafi non ha mai sentito parlare del consiglio dei diritti umani onu ?'
'Se ne ha sentito parlare? Nel 2003 ne è stato il presidente! '
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Che beffa vedere la Cina fare la morale a Gheddafi "
Fiamma Nirenstein
Mentre metà del mondo grida «libertà!» chi poi decide fino in fondo, in base ai criteri della governance mondiale che ci siamo costruiti, sono sempre coloro che la libertà non sanno nemmeno dove stia di casa, ma conoscono benissimo invece l’indirizzo dell’Onu, dove agiscono da padroni ormai da decenni. In questo caso parliamo della Cina che insieme alla Russia, altro Paese che campione di libertà non risulta davvero, è riuscita a influenzare le sanzioni che il Consiglio di sicurezza ha votato per cercare di bloccare la mattanza di Gheddafi. Mentre la vendita di armi è bloccata, bloccati i beni degli otto figli del raìs e bloccati i movimenti di alcuni personaggi vicini a Gheddafi e ritenuti quindi pericolosi, solo dopo molti sforzi sulla Cina si è potuto ottenere che la risoluzione riferirà, come richiesto dai Paesi occidentali, al Procuratore della Corte Penale Internazionale; e a causa della Russia,il testo richiamerà l’articolo 41 che mette fuori giuoco ogni misura che richieda l’uso di forze armate o di interposizione.
Ma perché la Cina si impegna per il pazzo di Tripoli proprio mentre sta cadendo? È come la vecchia storia cinese in cui la rana chiede allo scorpione perché la punga mentre la trasporta di là dal fiume.
È soltanto perché è uno scorpione, che fare! Con la differenza che la Cina non morirà con la rana, ma continuerà a nuotare nella governance mondiale che mette una della nazioni più prepotenti nel Consiglio di sicurezza che dovrebbe salvaguardare il mondo, e che la dota di un diritto di veto già usato varie volte per difendere delinquenti e dittatori. Il caso più eclatante e ripetuto è quello del Sudan e della sua azione genocida in Darfur: la Cina ha seguitato in piena condanna internazionale del dittatore Bashir a fare vantaggiosi contratti proprio con lui. Ma ancora più grosso è il caso iraniano: la Cina ha salvaguardato col proprio corpo la costruzione del nucleare iraniano cui peraltro ha preso parte. Obama ha intrapreso svariate manche di colloqui con il presidente cinese, a casa propria e a Pechino, per convincerlo ad abbandonare Ahmadinejad e a votare le sanzioni, ma questo è avvenuto soltanto quando si è trovata una formula blanda che poteva convenire alla Cina economicamente e che scaricava il peso economico del gesto sugli al-tri abitanti delPalazzodi Vetro, naturalmente su quelli occidentali.
Resta infatti su di noi il peso di azioni aggiuntive unilaterali che rendano le sanzioni efficaci. Morale: le sanzioni sono deboli, affidate a chi se ne fa carico responsabilmente, mentre la Cina seguita i suoi commerci con l’Iran.
Insomma, la Cina si contrappone anche nel caso libico per salvaguardare i suoi interessi ma anche per gestire, con la sua contrapposizione agli Usa, un potere mondiale alternativo.
Nessuno osa dire alcunché: la Cina siede all’Onu anche nel Consiglio dei Diritti Umani dal 2009 e nel board del nuovo Consiglio per i Diritti delle Donne. Ad entrare nel Consiglio per i Diritti Umani ha aiutato anche la Libia,e peccato che abbia fallito nella mobilitazione internazionale per fare entrare l’Iran in quello per le donne. Peccato, perché ci stava bene un Paese che applichi alle adultere la lapidazione, come ci sta bene nella Commissione per i Diritti Umani un Paese come la Cina che compie circa 6.000 esecuzioni l’anno e che conta 70 reati che prevedono la pena di morte, dalla dissidenza,all’evasione fiscale, al disturbo della quiete pubblica, alla vendita di pelli di panda… Questa è l’Onu:un’organizzazione mondiale che nella Commissione per i Diritti Umani conta un gruppetto formato appunto da molti dei Paesi che sono stati scossi dalle grandi rivoluzioni di questi giorni. L’Egitto ci sedeva fino al 2010, ora ci sono tutti: Libia, Bahrein, Arabia Saudita… È quindi logica e al contempo assai esplicita la spiegazione politica del perché il mondo non si aspettasse affatto un’esplosione di quel tipo. Nessuno ha mai denunciato, suscitando un movimento mondiale, le prepotenze dei dittatori in questi Paesi. Mai la Cina è stata condannata, nemmeno per il Tibet, nemmeno per le persecuzioni degli Uiguri, nemmeno per la strage di Urumqi nello Xinjiang, che pure fu caratterizzata, come l’Onu dovette notare, da «uno straordinario numero di uccisi». E tutti i Paesi islamici insieme ai loro amici «non allineati» sono riusciti a conservare intorno a sé una cortina fumogena colorata da continue condanne del povero Israele, l’unico Paese democratico del Medio Oriente, condannato 27 volte su 33. In queste ore le autorità cinesi oscurano Internet e bloccano alcune annunciate dimostrazioni nelle loro piazze. Un Paese così forte e ricco non ha paura del dissenso, sa come domarlo: quando il premio Nobel è stato assegnato a Liu Xiaobo l'alto commissario, il capo del Consiglio per i Diritti umani Navy Pillay, ha accampato una scusa qualunque e non è andata alla cerimonia di premiazione. Come tanti altri Paesi del mondo che hanno ormai improntato la politica mondiale all'esercizio della prepotenza. Ma come si è visto in questi giorni, alla fine arriva il conto, e questo conto poi lo dobbiamo pagare tutti. Allora forse conviene rivedere chi siede negli alti scranni che ci fanno diventare, alla fine, tutti quanti sudditi della Cina e della Libia.
www.fiammanirenstein.com
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " Ma il processo all’Aja a Gheddafi può trasformarlo in un nuovo martire "

Pierluigi Battista
Quando Gheddafi, letteralmente, leverà le tende, il mondo dovrà trovargli un pensionato, non l'occasione del martirio. Un pensionato, o un rifugio, un'isola lontana dove non potrà più nuocere ai cittadini libici angariati per decenni. Ma non la cella di una prigione predisposta da una Corte internazionale di dubbia legittimità, dove la giustizia diventa una parola retorica e il «guai ai vinti» crea inevitabilmente attorno al tiranno detronizzato un'aura di simpatia e persino di fascino. Tra le ipotesi che stanno prendendo piede nelle Nazioni Unite c'è infatti anche quella di un rinvio di Gheddafi, all'indomani della sua auspicata e prevedibile caduta, alla Corte Penale Internazionale dell'Aia. Il mito della nuova Norimberga è potente e suggestivo. Una Corte che parli e deliberi a nome dell'umanità e non dei singoli Stato sovrani appare inoltre come una prospettiva ecumenica e seducente che dovrebbe sgomberare il terreno che porta alla vera e autentica Giustizia dai particolarismi delle spezzettate sovranità nazionali. Ma questa rosea e visionaria prospettiva non riesce a liberare l'immagine della Corte Internazionale da un sospetto di parzialità, se non di iniquità. Perché colpire i tiranni nella polvere se poi quelli che quotidianamente violano i diritti umani e si rendono responsabili di crimini contro l'umanità siedono imperturbabilmente ai loro posti di comando? Perché Milosevic deve essere consegnato all'Aia quando ha già perduto, mentre i despoti che sono in piena attività con la loro politica costellata di crimini contro l'umanità godono di una speciale immunità o addirittura riescono a contare nella composizione dei tribunali che, nel nome di un'umanità astratta, devono giudicare concretissimi dittatori, purché sconfitti dalla storia? C'è stato finora un solo caso di tiranno raggiunto da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale. Quello del presidente Omar al-Bashir. Ma il dittatore si fa beffe di quella decisione, rivendica pubblicamente la sua politica bollata dalla Corte come un concentrato di «crimini di guerra» , riceve a Khartoum delegazioni da tutto il mondo. Al-Bashir getta nel ridicolo una decisione sofferta e che avrebbe dovuto conferire al caso sudanese la dimensione di una terribile tragedia. Non c'è niente di peggio di una Corte internazionale che dimostra così platealmente la sua impotenza. Niente di più sconfortante nella battaglia per i diritti umani che una decisione ridotta a carta straccia: dove non si comprende nemmeno chi dovrebbe procedere all'arresto del dittatore ancora al potere, con quali mezzi, nel nome di quale autorità. Tutti sanno che Omar al-Bashir resterà impunito. Con grave danno per l'idea stessa di «giustizia internazionale» . Resta il problema di cosa fare dei dittatori deposti, una volta sottratti all'eventuale furia vendicativa di chi ne è stato vittima. L'idea di un tribunale internazionale avrebbe dovuto essere anche una valida alternativa al modello di «macelleria messicana» già sperimentato nella scena tragica di Piazzale Loreto. Ma il modo altalenante con cui sono state rivendicate le sue prerogative dimostra ancora una volta la problematicità della sua istituzione. Saddam Hussein è stato mandato al patibolo dopo un processo a Bagdad in cui la tutela dei diritti della difesa è stato pressoché inesistente. Il serbo Milosevic, deceduto prima che venisse emanato un verdetto, ha accumulato capitali di simpatia nelle frange più estreme dell'ideologia anti-occidentale come esempio di dignità calpestata dalla giustizia dei «vincitori» . E oggi chi materialmente dovrebbe catturare Gheddafi, trascinarlo nel carcere olandese, giudicarlo secondo leggi che non tutto il mondo riconosce, anche se sono state scritte nel nome dell'Umanità? E i governi che hanno trattato con lui, che sono stati complici silenziosi e accomodanti quando il tiranno sembrava onnipotente dovranno comparire come testimoni in un processo internazionale che metta alla sbarra il dittatore libico spodestato da una grande rivoluzione? La decapitazione del Re, da Carlo I in Inghilterra a Luigi XVI in Francia, non appare più, fortunatamente, come una tappa necessaria dell'epopea rivoluzionaria. Molti dittatori moderni sono morti nel loro letti, da Stalin e Francisco Franco. Il processo contro il leader tedesco-orientale Honecker è stato seguito con indifferenza dalla stessa Germania libera dall'ingiustizia del muro di Berlino. Sapere cosa fare del dittatore Gheddafi all'indomani della sua rovinosa caduta è un compito che la comunità internazionale, insieme agli stessi responsabili della nuova Libia liberata, dovrà porsi. La scorciatoia per l'Aia, però, forse non la più agevole. E nemmeno la più giusta.
CORRIERE della SERA - Paolo Franchi : " Un despota o antico liberatore? Gheddafi imbarazza ancora la sinistra "

Paolo Franchi
Ma chi è Muhammar Gheddafi? Una «bestia immonda» , come lo definisce la lettrice Iglaba Scelgo? Un «dittatore sanguinario» , come scrive l’abbonata Mariletta Calazza? Oppure il «vecchio leone ancora spavaldo» nonostante la sua immagine sia quella «tristissima e patetica di un uomo obnubilato dalla solitudine» di cui scrive Luciana Castellina? O il leader «invecchiato» e travolto dalla propria «vanità» , certo, e però a lungo protagonista «non solo in Africa di uno straordinario tentativo di innovazione, che andava apprezzato e sostenuto» , che Valentino Parlato continua a difendere? Il manifesto sta, si capisce, dalla parte della rivolta. E neppure sta troppo a chiedersi, come fa invece Liberazione, se per caso quella libica non sia «una guerra civile sponsorizzata dalle potenze capitalistiche» . Ma su Gheddafi al manifesto si discute. Anzi, ci si accapiglia. E si tratta di una discussione che potrebbe diventare molto istruttiva, e anche utile. Sin qui, somiglia a un conflitto generazionale. A rifiutarsi al giudizio sommario (e in certi casi, come quello di Parlato, a chiedere quanto meno l’onore delle armi al colonnello) sono soprattutto i grandi vecchi del quotidiano comunista; e sono soprattutto, anche se non soltanto, i redattori e i lettori più giovani a indignarsene. Ha cominciato Luciana Castellina, ricordando che nel ’ 69, quando il «giovane tenente» prese il potere, «tutti gli anticolonialisti gioirono» , come avevano gioito per la vittoria di Nasser, «l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo» , e ancor più per l’Algeria, qualcosa di assai simile, per la sua generazione, a quello che fu il Vietnam per la generazione del Sessantotto. Non c’è dubbio, scrive Castellina, «la ribellione del Maghreb e del Mashrak è sacrosanta» , ma non si può rappresentarla come l’esplosione del malcontento secolare di popoli che hanno conosciuto solo «fanatismo e oppressione» . Per chi sta a sinistra, e soprattutto per chi ci è stato, guardando alla Libia, all’Egitto, all’Algeria, la domanda (terribile) è tutta diversa: «Perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, sono finite così?» . Ecco, esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche. Lo scrive apertis verbis Rossana Rossanda. Che allarga la domanda a un fallimento ancora più clamoroso, quello delle rivoluzioni comuniste: «Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler stessa razza, tesi degli storici post ’ 89), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e d’altronde non fa che spostare la domanda. Perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader?» . Rossanda azzecca, almeno in parte, anche la risposta. La prima illusione tragica (ma anche, alla lunga, colpevole, aggiungerei) è consistita, scrive, nell’affidarsi «in presenza di masse incolte, a un’avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e (…) lo difende non solo dagli avversari, ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente"un nemico» . E forse corre rischi analoghi anche «la folla generosa ma atomizzata» che affolla e insanguina del proprio sangue le piazze in Paesi in cui «un dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l’articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto» . Anche «il problema delle rivolte arabe (…) è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo» . Irritati dalle provocazioni di Parlato, che al Sole24Ore ha detto di considerarsi tuttora «un estimatore convinto del colonnello» , i lettori del manifesto hanno scritto parecchie lettere contro di lui, riservando invece sin qui un’attenzione tutto sommato modesta all’intervento «menscevico» di Rossanda. Capita, di questi tempi, anche sul quotidiano diretto da Norma Rangeri, a chi si ostina a inerpicarsi in ragionamenti complessi, che non si lasciano imprigionare in un’immagine televisiva. Per quel che vale, la speranza è invece che la riflessione impietosa sollecitata da Luciana Castellina, e avviata da Rossanda, si allarghi, e non solo sul manifesto. Arrivando sin là dove nell’ 89 non aveva saputo o voluto arrivare. Una sinistra incapace di affrontare coraggiosamente i suoi ieri ha poco o nulla da dire sull’oggi. E ancora meno sul domani.
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