Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Incredibile, i lettori di Repubblica possono leggere l'opinione di Daniel Pipes nell'intervista di Arturo Zampaglione
Testata: La Repubblica Data: 27 febbraio 2011 Pagina: 9 Autore: Arturo Zampaglione Titolo: «Lenta la reazione di Washington, ma l'intervento militare è un rischio»
Con l'intervista a Daniel Pipes di Arturo Zampaglione, oggi su REPUBBLICA a pag.9, con il titolo "Lenta la reazione di Washington, ma l'intervento militare è un rischio", finalmente anche i lettori del quotidiano diretto da Ezio Mauro possono ascoltare un'altra campana. Ecco il pezzo:
Daniel Pipes, con la nostra collaboratrice Piera Prister
NEW YORK - «Tardiva, confusa, dilettantesca»: Daniel Pipes non usa mezzi termini né espressioni diplomatiche per definire - e criticare - la reazione di Barack Obama agli avvenimenti in Libia. E non è il solo a polemizzare con la Casa Bianca. In queste ore Robert Kagan, Paul Wolfowitz e una quarantina di altri esperti di politica estera - quasi tutti neocon come Pipes - hanno scritto una lettera aperta al presidente denunciando i ritardi e sollecitando la preparazione di una risposta militare. Ma Pipes, 61 anni, direttore del Middle East Forum, un think tank conservatore, e autore di una dozzina di libri, è molto più prudente sul caso libico. Non pensa che un´azione più tempestiva di Obama avrebbe messo in pericolo la vita degli americani che si trovavano in Libia? «La politica estera di una superpotenza come gli Stati Uniti non può essere condizionata dagli americani presenti sul terreno: anche perché ci sarà sempre uno Stato in cui vivono alcuni connazionali. Nel caso libico, poi, la risposta è stata ancor più lenta rispetto alla Tunisia o all´Egitto». Come lo spiega? «Purtroppo la Casa Bianca democratica tende a essere più critica dei suoi alleati, come Hosni Mubarak, cercando invece di costruire ponti con i suoi nemici, come Gheddafi e Mahmoud Ahmadinejad». Comunque Obama si è mosso. Come giudica le decisioni prese? E soprattutto perché, a differenza di altri neocon, lei è titubante sull´opzione militare? «Concordo con le prime azioni della Casa Bianca. Ritengo però che si debba affrontare con attenzione il tema dell´intervento militare. Mi rendo conto che è una ipotesi allettante, almeno per tre motivi: primo, l´intera opinione pubblica mondiale vuole fermare le stragi di Gheddafi; secondo, la Libia è un paese spoglio, pianeggiante, non molto popolato; terzo, l´apparato militare della Nato è a due passi di distanza. Ma tutto questo non basta a giustificare di per sé un´azione immediata. Gli Stati Uniti dovrebbero dotarsi di principi guida per l´eventuale risposta militare a emergenze umanitarie come questa: invece non li abbiamo». E se Gheddafi usasse armi chimiche contro i suoi cittadini basterebbe a far scattare l´intervento? «Ripeto: sarei d´accordo nell´inserire l´uso di armi chimiche tra le ragioni che legittimano un attacco. Ma dobbiamo prima avere i principi-guida. Ricordiamoci quando nel 1988 Saddam Hussein usò armi chimiche contro i curdi: perché allora rimanemmo immobili, mentre adesso dovremmo intervenire? Nell´immediato la strada più sensata mi sembra quella, da un lato delle sanzioni, dall´altro di una no-fly zone sulla Libia e dell´invio di armi all´opposizione».
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