Due commenti sulle rivolte nei paesi arabi autocratici, Il primo sulla STAMPA, di una illustre firma, che ritorna a dire la sua in un editoriale che avrebbe potuto essere titolato "Ecco il senno di poi". Ci chiediamo dov'era Kurt Volker quando era il momento di prevedere quanto sarebbe poi accaduto. Fare un elenco oggi di cause ed effetti è troppo facile, soprattutto non serve a nulla.
Molto più intressante e accurato il commento di Pierluigi Battista sul CORRIERE della SERA, il quale si sforza di analizzare il passato per capire cosa ci riserva il futuro.
Li riportiamo entrambi:
La Stampa-Kurt Volker: " Le rivoluzioni che l'Occidente non ha capito "

Kurt Volker
Una delle grandi sfide delle analisi nel lavoro di intelligence è la previsione dei grandi cambiamenti. L’analisi più sicura è quasi sempre che le forze che hanno plasmato le cose fino a oggi continueranno. Il mantenimento dello status quo è dunque il risultato più probabile - almeno fino al momento in cui lo status quo scompare.
Questo rende cauti i politici. Anche nel pieno di nuovi sviluppi - dimostrazioni, crisi economiche, guerre - l’aspettativa è che la nave corregga la rotta e le cose tornino alla normalità. Vale la pena quindi aspettare, essere cauti, per vedere chi prende il potere, per tentare di salvaguardare altri interessi di sicurezza nazionale. Perché invischiarsi in una situazione per sostenere una parte, se c’è una buona probabilità che l’altra prevalga?
E tuttavia i grandi cambiamenti inaspettati accadono. La caduta del muro di Berlino. Il crollo dell’Unione Sovietica. E trovarsi dalla parte sbagliata del cambiamento ha i suoi costi. Inoltre, quando il cambiamento è inevitabile, la cautela può prolungare una crisi, mentre l’azione potrebbe portare a una soluzione più rapida, pacifica e benefica.
Il trucco sta nel capire quando è in corso un grande cambiamento e quando è business as usual. Questo è proprio il punto su cui l’Occidente ha costantemente sbagliato riguardo alle rivoluzioni che stanno esplodendo in Medio Oriente. Prima c’è stata la Tunisia, dove la maggior parte degli osservatori riteneva che le manifestazioni non potessero rovesciare un dittatore. Poi c’è stata la presunta unicità della Tunisia, la maggior parte degli osservatori non credeva possibile che il cambio di regime lì potesse significare un cambio di regime altrove. In Egitto, la maggior parte degli osservatori non credeva che le proteste potessero davvero far cadere Mubarak. La maggior parte degli osservatori non credeva che in Libia, con un regime pronto a usare la forza bruta, il cambiamento fosse possibile. Ogni volta abbiamo sbagliato l’analisi. Ogni volta siamo stati lenti nel parlare, lenti nel sostenere il cambiamento, lenti nell’agire. Quelli che sono stati disposti a rischiare la vita per la propria libertà in Medio Oriente possono essere perdonati se pensano che gli Stati Uniti e l’Occidente siano stati contro di loro. Perché abbiamo sbagliato? Primo per la convinzione che i regimi alla fine avrebbero prevalso - e allora perché bruciare i ponti?
In secondo luogo, soprattutto in Europa, per la paura che ogni cambiamento porti a massicci esodi di rifugiati e flussi migratori. Terzo, per il timore che gli estremisti islamici si impadroniscano delle rivoluzioni e impongano un regime peggiore di quello precedente. Quarto, per la preoccupazione che i nuovi regimi potrebbero non onorare gli accordi esistenti con Israele. Quinto per il paternalistico luogo comune che ritiene gli arabi non ancora pronti per la democrazia. E sesto e ultimo punto - forse il più significativo - perché i governi occidentali semplicemente non capiscono che questa è una rivoluzione basata sui valori umani e su ideali di trasformazione.
Autoritari leader arabi per anni ci hanno detto che l’Islam radicale era l’unica alternativa al loro governo. Hanno usato il conflitto israelo-palestinese come una cortina di fumo per mascherare i loro feroci regimi. Hanno soppresso l’accesso pubblico alle informazioni e alle fonti del pensiero arabo alternativo. Come risultato, noi in Occidente ci siamo convinti che un cambiamento democratico fosse davvero impossibile - nonostante i nostri stessi valori.
La maggior parte dei funzionari governativi non legge i messaggi su Twitter. Molti di quelli che li leggono li considerano insignificanti divagazioni popolari rispetto alle posizioni ufficiali e alle azioni del governo. Eppure, basta leggere i messaggi dei partecipanti e degli osservatori in Medio Oriente per capire che ciò che sta accadendo ora è diverso. La gente sta spazzando via i miti proposti per anni da questi leader autoritari. Questa onda di marea non ha a che fare con l’Islam, né con Israele o l’Occidente. Si tratta di una richiesta di diritti e libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società sono state depredate dai propri governanti. Per quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione dello spirito umano alla libertà rimane universale e intatta. Questo è ciò che la nostra prudente politica e le analisi di intelligence non sono riuscite a capire.
Il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nulla. E poiché è in linea con i nostri valori più profondi, l'Occidente avrebbe dovuto sostenerlo dall’inizio.
Per quanto sia difficile fare queste previsioni ora dobbiamo capire che questo non è business as usual - questo è il grande cambiamento. I nostri timori per la stabilità, la sicurezza dell’area e l’estremismo islamico hanno più probabilità di avverarsi se resistiamo a questi cambiamenti piuttosto che se li appoggiamo. E le opportunità per un reale progresso su questi stessi temi - la stabilità, la pace regionale, la sicurezza globale, la lotta all’estremismo - sono di gran lunga maggiori in un Medio Oriente democratico. Le conseguenze ridimensioneranno sia la guerra in Afghanistan sia quella in Iraq. *Ex ambasciatore americano alla Nato
è senior fellow e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies
e consulente senior presso McLarty Associates. (Traduzione di Carla Reschia)
Corriere della Sera-Pierluigi Battista: "Se le rivoluzioni generano altri tiranni"

Giù i tiranni, compreso Gheddafi. Ma le rivoluzioni vittoriose, da duecento anni a questa parte, giustificano ampiamente la "paura del dopo" che serpreggia in Europa e nel mondo che assiste alla svolta tumultuosa nella storia del mondo arabo.
Viva la rivoluzione. Finché non vince, però. Perché le rivoluzioni vittoriose, da duecento anni a questa parte, giustificano ampiamente la «paura del dopo» che serpeggia in Europa e nel mondo che assiste alla svolta tumultuosa nella storia del mondo arabo. Per cui ovvia-me n t e giù i tiranni, a cominciare dal massacratore Gheddafi. Ma se la vittoria di chi oggi vuole la libertà fosse l’antefatto di un nuovo dispotismo? Viva l’ 89, certo. Ma se poi la grande, libertaria, tonificante rivoluzione sprofondasse nel Terrore del ’ 93? La simpatia universale è per chi scende in piazza. Ma si scrutano con apprensione i segni del pericolo fondamentalista. La sinagoga data alle fiamme nella Tunisia appena liberata dall’autocrate Ben Alì. Le caricature sprezzanti di Mubarak con la kippah nella piazza del Cairo. Le prostitute tunisine aggredite dalla folla integralista che vuole ripulire la città dal peccato. Le paure dei cristiani in Egitto. Il ritorno dell’imam Qaradawi al Cairo accolto da un milione di persone inneggianti ai «Fratelli musulmani» : tutti a gridare, come ha scritto Giulio Meotti, «libereremo Gerusalemme» mentre a piazza Tahrir veniva ridotto al silenzio l’eroe della rivoluzione giovanile, laica e cyber-militante Wael Ghonim. E poi la palese assenza delle donne dalle piazze della Libia in rivolta, a differenza di ciò che accadde con la febbrile ed entusiasmante Onda Verde a Teheran, con una ragazza, Neda, simbolo della rivoluzione iraniana martirizzata. L’Iran, appunto. L’emblema di una rivolta popolare che detronizza il tiranno, lo scià Reza Pahlevi, occidentalista sì, ma a capo di una delle polizie segrete più feroci del ventesimo secolo come la Savak. Una rivoluzione che diventa ostaggio dell’oscurantismo spietato dei mullah e dei pasdaran come pretoriani violenti del nuovo ordine. Prima la libertà, il sogno democratico, il rifiuto di un regime oppressivo. Poi la dittatura fondamentalista degli ayatollah che, trascinati dal carisma e dal fervore religioso di Khomeini, cancellano una ad una le libertà fondamentali e schiacciano l’Iran sotto il tallone di una tirannia integralista e intollerante. È lo spettro di Teheran che incombe sulla tempesta del Cairo, di Tunisi e ora di Tripoli e costringe alla prudenza quando si parla dell’"89 arabo"» . Prima scaraventare giù dal piedistallo un despota sanguinario come Gheddafi. Ma dopo? Cosa ci sarà dopo? Il mito rivoluzionario, del resto, resiste solo nel ricordo di insurrezioni che fallirono o che, come il famoso ed esaltante ’ 48 europeo, non instaurarono un nuovo ordine plasmato sulla parola d’ordine di un mondo interamente rinnovato. Chissà perché, o forse il perché è sin troppo evidente, non sono considerate archetipi della rivoluzione moderna quelle liberali e costituzionali dell’Inghilterra e dell’America. Oppure ci si commuove per le rivoluzioni stroncate, a cominciare da quella, epica e soffocata nel sangue, della Comune di Parigi in cui gli insorti pagarono un prezzo crudele con oltre trentamila morti massacrati in piazza e un numero quasi pari di fucilati e giustiziati, la cui memoria è scolpita nel glorioso Muro dei Comunardi nel cimitero di Père Lachaise. Ma le rivoluzioni deviate, scivolate verso un nuovo controllo totalitario, ripulite da ogni elemento di disturbo attraverso i meccanismi perversi della repressione e dell’epurazione di massa, quelle rivoluzioni al potere sono invece il retaggio che giustifica ogni timore sugli esiti disastrosamente autoritari che ogni rivoluzione moderna porta in seno. Rivoluzioni che partirono nel nome dei diritti, della libertà e della democrazia e si pervertirono nel loro contrario. La Rivoluzione francese, che nel 1989 aveva rovesciato l’Ancien Régime inaugurando una nuova era della politica e della modernità e che slittò inesorabilmente, come ha raccontato la scuola di François Furet e come aveva già capito nel pieno della tempesta il liberale Benjamin Constant, nel fanatismo giacobino, nella deriva terroristica del ’ 93, nella ghigliottina con le tricoteuses in piazza, nello sterminio di ogni dissenso. E poi la rivoluzione russa del ’ 17. Anzi, le due rivoluzioni. Quella democratica, parlamentarista e costituzionale del febbraio di Kerensky. E quella che nell’ottobre rovesciò la precedente per instaurare la dittatura del Partito, il verbo soviettista, il terrore destinato a schiacciare intere categorie sociali, la nascita della terribile Ceka per la caccia ai «nemici del popolo» da sopprimere o spedire nei nuovi campi di concentramento. Certo, il rischio è che la paura del «dopo» possa trasformarsi in paura indiscriminata del Nuovo. O addirittura che l’incognita di una nuova stagione di instabilità e di caos nel mondo scaturito dall’ «89 arabo» risvegli precocemente, troppo precocemente, nostalgie per l’ordine che le satrapie autoritarie garantivano all’Occidente, alle sue diplomazie e agli interessi economici che prosperano negli Stati immuni dalle scorribande rivoluzionarie. Come è già accaduto in Europa dove, dopo le immagini dei tedeschi che nel 1989 smantellavano festosi il muro di Berlino e dopo la rivoluzione «di velluto» di tutto l’Est comunista, è resuscitato in un battibaleno il rimpianto per l’ordine garantito dalla guerra fredda. Le piazze rivoluzionarie, elettrizzanti nel loro formarsi e nella cacciata del despota, dovranno guardarsi da chi ne vuole deformare il messaggio di libertà. Guardarsi indietro, per imparare anche le amare lezioni della storia.
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