Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Sempre più minacciosi i tentacoli del fondamentalismo Analisi di Marco Pedersini, Carlo Panella
Testata:Il Foglio - Libero Autore: Marco Pedersini - Carlo Panella Titolo: «L’avanzata iraniana - Se salta l’Arabia è l’Apocalisse»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 2502/2011, a pag. I, l'articolo di Marco Pedersini dal titolo " L’avanzata iraniana". Da LIBERO, a pag. 7, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Se salta l’Arabia è l’Apocalisse ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Marco Pedersini : " L’avanzata iraniana "
Mahmoud Ahmadinejad
Roma. In Siria, in Iran e nei Territori palestinesi si sentono commenti entusiasti sulle rivolte di piazza che stanno terrorizzando i regimi del medio oriente. Approfittando del caos, il regime di Damasco può portare avanti il suo programma nucleare sotterraneo. Come testimoniano le fotografie ottenute dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, la Siria ha costruito due impianti per l’arricchimento dell’uranio quindici chilometri da Damasco. Secondo l’Institute for Science and International Security (Isis) di Washington, gli impianti operavano assieme ai siti di Masyaf e Iskandariyah, più a nord, per arricchire e stoccare l’uranio del reattore di al Kibar, distrutto da un raid israeliano nel 2007. L’Isis ha pubblicato fotografie che testimoniano un’attività considerevole attorno al sito vicino a Damasco il 25 luglio 2008 – pochi mesi dopo la richiesta di ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Si notano molti lavori attorno all’edificio: posa dell’asfalto, grandi colate di cemento e, soprattutto, movimenti di container imponenti. Non sono operazioni inedite per i siriani. Già nel 2007, prima di ventilare una possibile ispezione al sito nucleare di al Kibar, il regime di Damasco si premurava di spazzare l’area con i bulldozer per eliminare ogni traccia dell’edificio preesistente. La Siria ha sempre negato le sue velleità nucleari, invitando l’Aiea a controllare piuttosto il presunto arsenale atomico israeliano. Mentre rifiuta le ispezioni, il regime di Bashar el Assad fa dell’ambiguità la sua bandiera e dice di essere disponibile al dialogo con Gerusalemme, accogliendo l’iniziativa di mediazione promossa dal senatore americano John Kerry. Israele non gli crede, e da gennaio si sente sempre più isolato. Perché intanto, proprio a Damasco, una delegazione di generali di Teheran ha festeggiato con i fidi alleati siriani l’arrivo di due navi iraniane che, approfittando delle rivolte, sono entrate nel Mediterraneo. Il passaggio dal Canale di Suez può essere negato soltanto a paesi con cui l’Egitto è in guerra e la commissione militare che comanda ora al Cairo è più morbida con l’Iran rispetto al passato. Il Mediterraneo non vedeva una nave militare iraniana dal ’79, e nemmeno i porti sauditi avevano mai visto, in tutta la storia del regno, attraccare mezzi della marina di Teheran. Ma gli scontri che stanno scuotendo la regione hanno fatto capire anche ai sauditi che non è il momento di sfidare la grande alleanza sciita che da Teheran, attraverso il Bahrein, arriva in Siria e Libano. Mercoledì, anche Hamas ha approfittato dell’instabilità sparando in territorio israeliano due razzi Grad a lungo raggio. L’indomani i vertici militari di Damasco e Teheran si sono spostati al porto di Lattakia per festeggiare l’arrivo di quelle che il ministro della Difesa israeliano, per minimizzare, ha chiamato “una fregata e una nave di supporto con qualche cadetto”. Chissà quanti, fra i presenti, hanno creduto al brizzolato ammiraglio Sayyari, capo della marina iraniana, quando ha detto: “Queste navi portano un messaggio di pace per tutto il mondo”.
LIBERO - Carlo Panella: "Se salta l’Arabia è l’Apocalisse "
Re Abdullah Carlo Panella
E se il contagio della rivolta araba arriva in Arabia Saudita? La risposta non può che essere apocalittica. Perché l’Arabia Saudita è governata da un sistema feudale che non sa rispondere se non con la repressione più feroce alle tensioni politiche e quindi ne sarebbe sconvolto. Perché è la prima trincea all’espansione dell’influenza politica dell’Iran degli ayatollah, che – senza l’ostacolo di Ryad - potrebbero dilagare in Medio Oriente. Perché tutti gli emirati del Golfo (Kuwait incluso) devono la loro stabilità (parimenti feudale) a quella di Ryad. Quindi, se salta il regime saudita e si apre una fase di instabilità nell’intera penisola arabica sarà bene che ogni famiglia in occidente vada a far legna e si compri biciclette, perché nessuno potrà più garantire il flusso di un petrolio che per più del 50% viene estratto nell’area del Golfo. Il saudita re Abdullah è cosciente di questa possibilità ed è precipitosamente rientrato in Patria - nonostante sia malatissimo - dopo un’assenza di tre mesi,annunciando un “clamoroso” pia - no di riforme che prevede l’im - piego immediato di 36 miliardi di dollari per un aumento del 15% del salario dei dipendenti pubblici e per un piano di aiuti per studenti e disoccupati e che, entro la fine del 2014, programma una spesa di 400 miliardi di dollari per migliorare istruzione, sanità e infrastrutture. Forse questo piano riuscirà a “comperare” la pace sociale, ma non è detto, tanto che l’appello su Facebook per fare dell’11 marzo prossimo una “giornata della collera” per chiedere riforme costituzionali, ha già ottenuto centinaia di adesioni. Il fatto è che il regime saudita è tanto anacronistico, impostato com’è su una corte parassitaria di 4.000 principi che si dividono tutto il potere e su nessuna istituzione statuale, che non è in grado di attuare nessuna riforma. Ma oggi, la piazza araba che si è imposta in Tunisia, Egitto e Libia chiede soprattutto riforme politiche e una monarchia costituzionale in un paese in cui re Abdullah, che pure ci ha provato, non è riuscito neanche a varare la “riforma” che permette alle donne di guidare l’auto da sole. Tempi duri, dunque anche per i principi sauditi, ma forse non drammatici se le contestazioni si limiteranno alla popolazione sunnita. L’enorme rendita petrolifera rende infatti disponibili immense possibilità di spesa per elargire welfare e anche per sedare lo scontento dei disoccupati che sono incredibilmente il 10% della popolazione, a causa delle totale incapacità dei sauditi (e dei regimi arabi in generale) di usare i petrodollari per ingenerare sviluppo economico (o vengono bruciati dalla corruzione o vengono impiegati sul mercato finanziario in manovre speculative). Ben più gravi e drammatiche sarebbero invece le prospettive per re Abdullah se la popolazione sciita si ribellasse al predominio sunnita, sulla scia di quel che avviene in Bahrain. L’ideo - logia dell’Islam wahabita della casa regnante saudita è infatti impregnata di odio per gli sciiti, accusati di essere idolatri (perché venerano i 12 Imam) e “falsi musulmani”. Da sempre repressi e quasi schiavizzati dalla casa regnante saudita, gli sciiti sauditi vivono in uno stato di assoluta marginalità sociale edeconomica. Sono pronti quindi alla rivolta, come già fecero nel 1979 e negli anni successivi e possono costituire un drammatico problema per re Abdullah. Vivono infatti nella regione di Hassa, nel nord est della penisola, che è la principale sede dei campi di petrolio. Se si incendiano gli sciiti sauditi, si incendia buona parte del petrolio saudita. Con conseguenze immaginabili.
Per inviare la propria opinione a Foglio e Libero, cliccare sulle e-mail sottostanti