Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/02/2011, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo " Contagio e infezione ", l'intervista di Alessandro Giuli a Christian Rocca dal titolo "La Freedom Agenda di Bush e i suoi frutti nel Mediterraneo ", a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La sinistra ha molto trattato con Gheddafi (la differenza sta nei risultati) ", l'articolo di Paul Wolfowitz dal titolo " Che fare con le rivolte arabe ". Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Piazza anti Gheddafi: il PD manifesta contro se stesso ". Da LIBERO, a pag. 1-8, l'articolo di Magdi C. Allam dal titolo " Caduto il raìs il potere andrà ai talebani ". Dalla STAMPA, a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Clinton: ora tocca all’Onu agire ".
Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Contagio e infezione "

Muammar Gheddafi
Roma. Muammar Gheddafi ha parlato ieri alla nazione, l’ultimo tentativo per fermare la rivolta che scuote la Libia da Tripoli alla Cirenaica. “Morirò da martire come i miei nonni, non lascerò questa terra – ha detto nel lungo messaggio trasmesso dalla tv di stato – Ho realizzato la gloria del popolo libico, un piccolo gruppo di terroristi non sarà la scusa per far arrivare nel paese gli americani”. Rivolgendosi ai ribelli, ha minacciato di “ripulire la Libia casa per casa. Consegnate subito le armi e i poliziotti catturati. Abbiamo bisogno di stabilità e di sicurezza”. Il colonnello ha lanciato un avvertimento ai paesi stranieri che, a suo dire, avrebbero fornito “razzi Rpg ai ragazzi di Bengasi”. In passato, ha detto, “abbiamo sfidato l’arroganza dell’America e della Gran Bretagna e non ci siamo arresi. Anche l’Italia è stata sconfitta sul suolo libico”. Gheddafi ha parlato da una delle sue case di Tripoli, la stessa che fu bombardata dai caccia americani nel 1986 e che oggi è un monumento nazionale. Dopo la minaccia di trasformare Bengasi in una nuova Tiananmen, il colonnello ha promesso l’inizio delle riforme – a partire dalle “autonomie regionali” – e la distribuzione dei proventi petroliferi. Il discorso non ha fermato gli scontri. Gli oppositori dicono di controllare mille chilometri di costa, e anche il ministro dell’Interno si sarebbe unito alle proteste a Tripoli. Al Jazeera riporta che le tribù ribelli hanno sottratto all’esercito il controllo dei confini. Il gasdotto Greenstream, che rifornisce l’Italia, è stato bloccato nella città di Nalut. Per al Arabiya, i morti sono “più di mille”. Il segretario di stato americano, Hillary Clinton, ha chiesto ieri a Gheddafi di “fermare il bagno di sangue”. Il destino del rais dipende dalla tenuta dell’apparato militare, che sarebbe sul punto di crollare. Uno dei pochi dati certi di questa rivolta è lo scarso contributo dell’esercito alla repressione. A Bengasi, almeno due brigate dell’esercito sono passate dalla parte dei rivoltosi. Una soltanto, la al Sibyl, combatteva anche ieri agli ordini di Gheddafi. Le defezioni avrebbero indotto Gheddafi a mettere agli arresti domiciliari il capo di stato maggiore, Abu Bakr Yunis Jaber, e il suo vice, El Mahdi El Arabi. Due dei dodici Mirage F1 sono atterrati martedì a Malta, e altri due hanno raggiunto la base di Bengasi che aderisce alla rivolta. I piloti si sono rifiutati di compiere raid contro i manifestanti, anche se pare che la gran parte delle incursioni aeree sia soprattutto volta a distruggere i depositi di armi nelle zone sotto il controllo dei rivoltosi La Valletta sarebbe la destinazione di una nave militare salpata ieri e manovrata da ufficiali disertori, come dice il quotidiano Times of Malta: la nave sarebbe ora seguita dalla corvetta italiana Fenice. Gheddafi ha costituito fin dagli anni Settanta un sistema di difesa popolare che, in caso d’invasione, avrebbe trasformato ogni cittadino in un combattente. Il colonnello, del resto, ha sempre diffidato dei militari: già nel 1971, due anni dopo il golpe contro re Idris, costituì i Comitati popolari, una milizia paramilitare composta da 40 mila fedelissimi che rappresenta la manovalanza dei servizi di sicurezza interni. Le due strutture sono sotto il controllo di parenti di Gheddafi o di membri del suo stesso clan. L’appartenenza tribale è un requisito decisivo nelle forze dell’ordine. I posti di pilota dell’aeronautica, di ufficiali nelle brigate missilistiche e della Guardia sono assegnati ai membri del clan del raìs. Tutti gli altri ufficiali che affiancarono Muammar Gheddafi nel golpe del 1969 sono stati eliminati o costretti a fuggire all’estero. Nel 1985 alcune brigate dell’esercito e un reparto di Mig dell’aeronautica tentarono di rovesciare il regime, ma il piano fu scoperto e una sessantina di ufficiali furono giustiziati. Dodici anni più tardi, la rivolta del Gruppo militante islamico libico fu soffocata sulle colline del Gebel el Akhdar soprattutto da un migliaio di mercenari serbi reclutati tra i reduci della guerra in Bosnia – appoggiati da cacciabombardieri Mig ed elicotteri d’attacco pilotati da mercenari russi e ucraini. I mercenari sono una presenza costante nelle Forze armate libiche, servono ad addestrare i reparti e a mantenere efficienti i mezzi. Oggi sembrano costituire uno dei più importanti strumenti di repressione nelle mani del regime. Il loro numero pare inferiore ai 35 mila stimati dall’opposizione. Tra loro ci sarebbero ex poliziotti tunisini e algerini, anche se per la gran parte si tratterebbe di volontari arruolati dagli agenti libici nel Ciad e in Mauritania, dove Gheddafi ha sempre trovato manovalanza per la sua legione straniera.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " La sinistra ha molto trattato con Gheddafi (la differenza sta nei risultati) "

Carlo Panella
Roma. Il carattere quantomeno ufficioso dell’agenzia Ansa dirime ogni equivoco su chi, tra centrodestra e centrosinistra, abbia titoli per vantare la primogenitura dei rapporti d’amicizia e d’affari fra l’Italia e il rais libico, Muammar Gheddafi. Il titolo di un lancio del 2 dicembre 1999 è chiaro: “Italia-Libia: Gheddafi, rapporti migliori con Ulivo al governo”. Il concetto è ribadito in tutto il testo: “I rapporti tra Italia e Libia si sono ‘consolidati’ da quando l’Ulivo è al governo. Il leader libico si è detto ‘molto soddisfatto’ del suo colloquio di oggi con D’Alema e ha affermato che ora i rapporti tra i due paesi sono ‘amichevoli’. ‘Questi rapporti sono migliorati grazie all’Ulivo e alla direzione del nostro amico D’Alema. Lo stesso incontro è stato possibile perché l’Ulivo è andato al governo’, ha ripetuto”.
L’entusiasmo e la gratitudine mostrati allora da Gheddafi sono comprensibili. Massimo D’Alema è stato il primo premier europeo a visitare la Libia da quando l’Onu, nel ’92, stabilì le sanzioni per l’attentato di Lockerbie, le stesse poi revocate nell’aprile ’99. Questo record – che in diplomazia pesa – non è casuale. E non è neppure merito di D’Alema. Si deve, invece, a Romano Prodi: il 21 ottobre del ’96, dopo un incontro con Hosni Mubarak, Prodi mostrò apprezzamento per le parole del presidente egiziano sui “cambiamenti della politica di Gheddafi”, e salutò quel processo come un “punto di riferimento importante per la politica estera”. Il 9 luglio del 1998, in piena fase di sanzioni Onu, Lamberto Dini firmò un primo trattato con la Libia, che fu lungamente discusso con Gheddafi.
Quel trattato, dissero allora all’Ulivo, si basava sulla constatazione che “direttamente o indirettamente, Tripoli da tempo non è più coinvolta in atti di terrorismo”. Era un’affermazione avventata – come dimostrerà il Sismi nel 2003 – che però fece da prologo al viaggio di D’Alema del ’99 e alle numerose telefonate fra Gheddafi e Prodi, salito nel frattempo alla guida della Commissione europea. Dopo i loro scambi, i quotidiani europei cominciarano a parlare di un possibile invito a Bruxelles per il leader libico. Le critiche costrinsero Prodi a ritirare l’invito e costarono al politico italiano un velenoso ritratto del Times.
“Prodi sprizza idee in tutte le direzioni – scrissero i britannici – Se non si è ancora dimostrato un leader energico e dotato di una visione, è perché il signor Prodi è ostacolato dalla sua imperfetta padronanza dell’inglese e del francese, da un servizio stampa erratico e dal suo stile schivo”. Naturalmente, Gheddafi si dichiarò “indignato per la decisione di non essere ricevuto”, e lo stesso Prodi comprese di dovere mettere a punto un nuovo dossier sulla Libia. La prima fase dei rapporti del centrosinistra con Gheddafi finì lì, con molta fiducia mal riposta e un sostanziale nulla di fatto.
Ma nell’autunno del 2003 accadde un evento che modificò completamente la posizione della Libia e le sue relazioni con l’Italia. Il Sismi di Nicolò Pollari, in un’azione congiunta con il Mukhabarat egiziano e con il supporto esterno della Cia, scoprì una nave carica di armi di distruzione di massa diretta in Libia. Il dossier era gestito dagli stessi agenti coinvolti nel caso Abu Omar, quelli che la procura di Milano ha mandato sotto processo e ha fatto condannare. La nave provava che la fiducia concessa a Gheddafi dai governi dell’Ulivo era cieca e immotivata.
Silvio Berlusconi, in accordo con George W. Bush, lavorò a una complessa trattativa che obbligò Gheddafi ad abbandonare le armi di distruzione di massa. Per questo, il Cav. fu ringraziato pubblicamente da Bush. All’annuncio del Colonnello seguì il primo viaggio di Berlusconi a Tripoli del 2 ottobre del 2004, quando furono poste le basi per il trattato definitivo di amicizia. Nel 2006, appena tornato al governo da ministro degli Esteri, Massimo D’Alema tentò di capitalizzare il lavoro svolto dal centrodestra. Ma fallì, come ben comprese il diplomatico italiano che, il 10 novembre del 2007, vide allibito il leader libico alzarsi e allontanarsi senza neanche salutare mentre ancora D’Alema parlava. Quello fu il loro ultimo incontro ufficiale. Si tratta di un episodio noto soltanto a pochi, che però spiega perché, nell’estate del 2009, D’Alema decise di fare un’inusuale anticamera davanti alla tenda di Gheddafi a villa Pamphili, dopo che questi aveva disdetto un incontro a Montecitorio
L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Piazza anti Gheddafi: il PD manifesta contro se stesso "

Dimitri Buffa
Ci deve essere un limite al ridicolo, alla malafede, alla disonestà intellettuale e alla spregiudicatezza in politica. Ieri il Pd mobilitando la piazza contro Gheddafi e gli accordi ratificati da Berlusconi nel 2009, ma firmati dall’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema nel 2007, ha superato ognuno dei suddetti limiti. Anche perché il voto di ratifica il 3 febbraio 2009 ha visto votare compatto tutto il Pd a favore, tranne i radicali e Furio Colombo più un altro peone Carneade, che si aggiungono ai deputati e ai senatori dell’Idv e dell’Udc (che ieri però, per bocca di Casini al Tg3 contrabbandava una unicità scudocrociata del voto di opposizione, ndr). D’Alema peraltro da Gallipoli non ha smentito sé stesso e mentre i suoi compagni sobillavano la piazza contro il Cav, quasi che da lui dipendesse anche la risoluzione delle rivoluzioni nordafricane, ammoniva di nuovo sul fatto che “qui ci sono in gioco gli interessi vitali del Paese perchè la Libia più l'Algeria fanno il 43% dell'energia italiana”, e quindi “è in gioco qualcosa di fondamentale”. Poi però non è riuscito a evitare il pizzico di demagogia che sempre lo contraddistingue dicendo, anche in riferimento al problema dei futuri profughi, che questi “sono problemi che si risolvono se c'è una classe dirigente” e che “bisogna affrontare la questione predisponendo l'accoglienza”. Giustamente la deputata Pdl Souad Sbai ieri in un comunicato si chiedeva dove fosse il Pd “quando i giovani tunisini venivano massacrati? Quando in Egitto tornava al-Qaradawi a infiammare l’estremismo? Quando venivano torturati migliaia di eritrei nei campi profughi vicino al Sinai?” La Sbai inoltre ricordava che “nessuno di questi signori ha mosso un dito quando in Iran Ahmadinejad faceva arrestare, sotto minaccia di impiccagione, i due leader dell’opposizione e sopprimeva nel sangue le manifestazioni per la libertà. Quando tutta la comunità iraniana in Italia chiedeva aiuto, anche solo con parole di sostegno..”
Come nessuno, tranne appunto Furio Colombo e i sei radicali della Camera, ha avuto un singolo sussulto quando il 20 gennaio 2009 prese la parola Massimo D’Alema per rivendicare il voto del Pd alla Camera, per la ratifica di quel Trattato Italo Libico da lui stesso siglato nel novembre del 2007. D’Alema prese la parola per una quindicina di minuti quel 20 gennaio di due anni fa, ma i concetti espressi sono rimasti scolpiti nella memoria di tanti, Marco Pannella compreso, che ora casomai chiedono un minuto di vergogna pure per lui. L’intervento iniziò con una “cazziata “ proprio contro Colombo autore di gran parte dei 6 mila emendamenti dell’opposizione insieme con la pattuglia radicale eletta nelle file del Pd. Poi disse che “oggi la Libia è un Paese che ha normali relazioni diplomatiche e intense relazioni economiche con tutti i Paesi europei e con gli Stati Uniti d'America.”
E aggiunse che “con gli Stati Uniti, in particolare, la Libia ha una forte collaborazione in materia di sicurezza, in particolare nella lotta contro il fondamentalismo islamico.”
Nel prosieguo dell’intervento D’Alema parlò di “normalizzare i rapporti con un Paese vicino con il quale abbiamo un legame antico, un debito storico nonché un partenariato economico molto forte che rappresenta, senza alcun dubbio, per noi, una risorsa irrinunciabile”. Non solo, si spinse ad affermare che “la Libia è, infatti, uno dei nostri principali partner nel campo della politica energetica e uno dei Paesi che garantiscono la sicurezza energetica dell'Italia.” Poi rivendicò la sostanza del trattato da lui stesso firmato e in quel momento in fase di ratifica parlamentare: “Esso a mio giudizio, rappresenta, in primo luogo, una scelta importante dell'Italia democratica: con questo trattato noi siamo il primo paese ex-coloniale che, nel rapporto con una ex-colonia, riconosce la sua responsabilità storica… in secondo luogo, consolidiamo un partenariato importante sotto il profilo economico e della sicurezza del Paese..in terzo luogo .. lo facciamo in un quadro di cooperazione con i nostri alleati: l'intesa di cooperazione con la Libia per prevenire l'immigrazione clandestina è una intesa italo-libica-europea, tanto è vero che la decisione di sostenere la costruzione di un sistema di monitoraggio dei confini libici è oggetto di un accordo che la Libia ha stretto con l'Unione europea e non soltanto con l'Italia.”
E allora, ci si domanda, contro chi ieri si sia annunciata la mobilitazione delle piazze del Pd. Forse contro lo stesso D’Alema?
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Clinton: ora tocca all’Onu agire "


Maurizio Molinari, Hillary Clinton
«Basta violenze». È Hillary Clinton a recapitare un brusco messaggio al colonnello Muammar Gheddafi, dando inizio a un «lavoro di concerto con la comunità internazionale» che ha visto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvare all’unanimità una dichiarazione nella quale si chiede «l’immediata fine delle violenze contro i civili» da parte del regime.
Se in occasione della crisi egiziana l’amministrazione Obama aveva deciso di recitare un ruolo di primo piano per favorire la «transizione ordinata» verso il dopo Mubarak, di fronte alla rivolta libica la scelta è invece differente. «C’è molta attività sulla Libia alle Nazioni Unite - dice Jay Carney, portavoce di Barack Obama -, partecipiamo agli incontri e vogliamo lavorare con la comunità internazionale affinché si parli con un’unica voce per condannare le violenze; riteniamo che ciò avrà maggiore efficacia». Il Segretario di Stato è ancora più esplicito: «Stiamo comprendendo meglio quanto sta avvenendo in Libia e dunque opereremo assieme alla comunità internazionale». Sono tre i motivi che spingono l’amministrazione Obama in questa direzione: il divampare dell’emergenza umanitaria a causa delle gravi violenze in corso, l’assenza di strumenti di pressione diretta nei confronti di Tripoli e la necessità di impedire che la crisi libica abbia serie conseguenze sul mercato del greggio.
È in tale cornice che la Casa Bianca ha visto con favore nella giornata di lunedì la telefonata del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon a Gheddafi, spostando l’attenzione sul Palazzo di Vetro dove ieri sera il Consiglio di Sicurezza ha approvato all’unanimità una dichiarazione in tre punti: porre «subito» fine alla repressione, «punire i responsabili» e «libertà di accesso ai feriti da parte delle organizzazioni umanitarie». Questo ultimo aspetto è un primo passo verso la creazione di «corridoi umanitari» per portare assistenza alla popolazione della Libia orientale, come auspicato da diplomatici libici in dissenso con Tripoli.
Per spingere Gheddafi ad accettare le richieste Onu si fa sentire John Kerry, capo della commissione Esteri, paventando «l’interruzione dell’attività delle compagnie petrolifere in Libia» con effetti immediati sui conti di Tripoli.
La scelta di arrivare a «concordare misure appropriate» con la «comunità internazionale» rientra per Hillary nella strategia più generale che l’amministrazione Obama si è data per affrontare le rivolte in Medio Oriente e che si basa su due pilastri: «Niente violenze e rispetto dei diritti umani per favorire la transizione verso la democrazia». Da qui la ferma condanna per le «violenze scioccanti e totalmente inaccettabili» che stanno avvenendo in Libia, ma anche l’auspicio che vengano meno gli attacchi da parte dei manifestanti. Hillary aggiunge che «è la Libia a dover rispettare i diritti dei suoi cittadini», ripetendo quanto venne detto a Mubarak, al fine di invocare il rispetto degli accordi internazionali sulla tutela dei diritti umani.
Da qui anche i commenti di Hillary Clinton sulle altre rivolte in corso: la «condanna delle violenze in Yemen» dove il governo sta usando la polizia contro i manifestanti, il plauso alla «decisione del Bahrein di liberare i prigionieri politici e aprire un dialogo con le opposizioni» e l’attenzione rivolta a Egitto e Tunisia «dove la transizione è appena iniziata», e Washington tiene a far sapere di continuare a tenere gli occhi aperti nel timore di sbandamenti.
LIBERO - Magdi C. Allam : " Caduto il raìs il potere andrà ai talebani "

Magdi C. Allam
Al presidente americano Obama e ai leader europei dico: basta! Smettetela di commettere errori all’inse - gna dell’ignoranza dell’ingenuità, della pavidità, di un egoismo morboso e della collusione ideologica di stampo sessantottino. Prima avete esaltato i dittatori spacciati per laici sostenendo che erano moderati, filo-occidentali e garanti della stabilità e della sicurezza regionale. Ora, dopo che sono stati spazzati via dalla collera popolare, vi siete uniti al coro della piazza e vi siete infatuati dell’idea di elezioni immediate, seguaci dell’ideologia dell’eletto - ralismo a tutti i costi, come se le elezioni fossero il sinonimo della democrazia sostanziale, la bacchetta magica che premia i migliori difensori dei diritti fondamentali della persona, dei valori non negoziabili, della pacifica alternanza al potere.
LI ABBIAMO COCCOLATI
Che vergogna! Che umiliazione! Che orrore! I dittatori arabi, talvolta sanguinari rei di crimini contro l’umanità come il nostro beniamino Gheddafi, stanno crollando uno dopo l’altro. Li abbiamo favoriti portandoli al potere con lo zampino dei nostri servizi segreti che rispondono agli ordini delle multinazionali del petrolio, li abbiamo coccolati assecondando i loro capricci anche quando hanno leso la nostra dignità a casa nostra, li abbiamo sostenuti concedendo loro anche le armi che ora vengono usate per massacrare le popolazioni in rivolta. Abbiamo accettato di tutto e di più pur di ottenere in cambio la garanzia delle forniture del petrolio e del gas, del deposito nelle nostre banche dei fondi sovrani accumulati con la speculazione in borsa dei titoli energetici, dell’in - gresso dei loro capitali nelle nostre aziende in difficoltà, dell’apertura dei loro mercati alle nostre imprese privilegiando i potentati economici che di fatto ci impongono le scelte di politica estera condivise supinamente da tutti i nostri partiti, di destra, di centro e di sinistra. I nostri leader da Moro, Fanfani, Andreotti, Craxi, Amato, Prodi, D’Alema e Berlusconi non hanno avuto remore a chinare il capo dopo aver incurvato la schiena per entrare nella tenda eretta nel deserto o nei nostri parchi pubblici, pur di essere ricevuti dal “leader della rivoluzione” perché non vi è foglia in Libia che non si muovesse se luinon l’ordi - nasse. E pur di avere il suo benestare gli abbiamo offerto l’altra guancia ben oltre qualsiasi disponibilità cristiana nei confronti del prossimo, consentendogli di offenderci e minacciarci a viso aperto a casa nostra dopo averlo accolto amorevolmente.
DEMOCRAZIA
A chi come me, ha avuto l’onore di essere iscritto nella lista nera di Gheddafi, dei “nemici della causa araba” da colpire ed eliminare, ben venga la fine di questo tiranno che non ha esitato a far sganciare le bombe contro la sua stessa gente, rendendosi colpevole di “genocidio” secondo l’accu - sa mossagli dal vice-ambasciatore libico all’Onu. La Storia ancora una volta premia chi ha il coraggio di tenere la testa alta e di andare avanti con la schiena dritta. Ma ora basta! Non degradiamo dall’errore di sostenere i dittatori cosiddetti laici all’orrore di favorire l’ascesa al potere degli estremisti islamici concedendo loro la passerella delle elezioni. Le elezioni sono parte e strumento della democrazia, ma non corrispondono né esauriscono lademocrazia sostanziale. Affranchiamioci da una concezione puramente formalistica della democrazia e della libertà per non renderci corresponsabili dell’avvento al potere dei Fratelli Musulmani o di sigle similari che ucciderebbero la democrazia e la libertà nei loro paesi e si sentirebbero incoraggiati a islamizzare l’Europa stessa. L’ideologia del relativismo, la dittatura del relativismo come denuncia Benedetto XVI, ci sta privando del diritto e del dovere di usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti attraverso gli strumenti della valutazione e della critica. Il risultato è che aprioristicamente mettiamo sullo stesso piano tutte le religioni, le culture, i valori e i concetti a prescindere dai loro contenuti. Nel caso delle rivolte popolari in Tunisia e in Egitto stiamo commettendo l’er - rore di concepirecomeaprioristicamente positiva la prospettiva dell’avvento al potere dei Fratelli Musulmani qualora ciò fosse il risultato di libere elezioni. Nel caso specifico noi, consapevolmente o meno, rifiutiamo di considerare i contenuti dell’ideo - logia islamica radicale contenuta nel loro Statuto e nei testi dei loro capi spirituali (Hassan Al Banna, Sayyid Qutb, Abdallah Yusuf Azzam, Yusuf al-Qaradawi), così come ignoriamo il fatto che ovunque siano arrivati al potere i Fratelli Musulmani, nelle loro differenti denominazioni, dal Fis (Fronte di salvezza islamico) in Algeria a Hamas nei Territori palestinesi, hanno soffocato la democrazia, represso la libertà, sottomesso il popolo con la violenza, scatenato il terrorismo cieco che infierisce indiscriminatamente contro tutti.
LA FACCIA DEL CORANO
Più in generale non teniamo conto che, anche al di là che facciano o meno riferimento al movimento estremista islamico mondialedei FratelliMusulmani, ovunque un soggetto politico dica di ispirarsi al Corano (che per i musulmani è opera increata al pari di Allah, della stessa sostanza di Allah), alla Sunna (la tradizione che si fonda sui Hadith, i detti e i fatti attribuiti a Maometto, e sulla Sira, la biografia ufficiale di Maometto), alla Sharia (la legge islamica che si fonda su quattro fonti: il Corano; la Sunna; Al Ijma’h, il consenso della comunità che corrisponde all’intesa tra gli ulema, i dotti dell’islam;Al Qiyas, il principio analogico, con cui si fa ricorso a casi simili per risolvere dei casi che non sono stati finora contemplati), ebbene il risultato è la crescente islamizzazione della società( conla proliferazione dellemoschee, scuole coraniche, tribunali e enti finanziari islamici, con sempre più donne velate e uomini barbuti), la crescente intolleranza religiosa nei confronti degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani eterodossi e degli appartenenti a fedi o ideologie diverse dall’islam, il crescente monopolio del potere modificando la Costituzione per accreditare l’identità islamica dello Stato, il crescente svuotamento sostanziale della democrazia riducendola al rito formale delle elezioni adeguatamente manipolate per assicurare il risultato stabilito anticipatamente. Questo è quanto già accade in Iran sottomesso all’arbitrio del regime degli ayatollah dal 1979; in Libano dove l’Hezbollah con un colpo di mano ha imposto un suo uomo,il miliardario Najib Mikati, alla guida del governo estromettendo Saad al-Hariri che era stato eletto democraticamente; a Gaza dove Hamas ha imposto la propria dittatura massacrando i soldati leali all’Autorità Nazionale Palestinese e reprimendo ogni dissenso interno; in Turchia, formalmente unoStato laico,democratico e liberale, il cui governo islamico guidato da Recep Tayyip Erdogan (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) tende ad accentrare sempre più il potere, è sempre più filo-Hamas e anti-israeliano, sempre più filo-iraniano e antioccidentale, sempre più repressivo nei confronti della libertà religiosa dei cristiani, continuando ad occupare il territorio europeo del Nord di Cipro sradicandovi i simboli della cristianità.
LA DISSIMULAZIONE
I fautori della teocrazia islamica hanno eretto la dissimulazione a precetto di fede. La dissimulazione è considerato un comportamento islamicamente legittimo sia dagli sciiti sia dai Fratelli Musulmani, sulla base dei versetti 105-106 della Sura XVI del Corano: «I soli a inventare menzogne sono quelli che non credono ai segni di Allah: essi sono i bugiardi. Quanto a chi rinnega Allah dopo aver creduto - eccetto colui che ne sia costretto, mantenendo serenamente la fede in cuore - e a chi si lascia entrare in petto la miscredenza; su di loro è la collera di Allah e avranno un castigo terribile». Ed è così che non hanno alcuna remora ad indossare il doppiopetto e a mostrarsi concilianti e disponibili al compromesso quando ciò viene ritenuto vantaggioso per la promozione della causa dell’islamizzazione della società. Né hanno alcuna remora ad usare come «facciata accettabile » dei personaggi cosiddetti laici, boriosi, illusi o comunque ingenui, che si prestano a farsi strumentalizzare. Ricordiamoci cari Obama e leader europei che Adolf Hitler arrivò al potere nel 1933 attraverso libere elezioni e immediatamente dopo impose la sua dittatura. Proprio il caso di Hitler ci deve far comprendere che le libere elezioni non corrispondono automaticamente alla democrazia sostanziale. La democrazia affinché sia sostanziale deve tradursi nella condivisione di valori non negoziabili, a partire dalla fede nella sacralità della vita, del rispetto della dignità e della libertà della persona, così come deve tradursi nell’accettazione di regole inviolabili a partire dalla pacifica alternanza al potere delle forze politiche che godono di pari diritti e pari doveri. Ebbene tutto ciò è assolutamente inesistente nell’ideologia teocratica e assolutista dei Fratelli Musulmani e di tutti gli integralisti e estremisti islamici. Ora basta: non innamoriamoci del nostro aspirante carnefice!
Il FOGLIO - Alessandro Giuli : "La Freedom Agenda di Bush e i suoi frutti nel Mediterraneo "

Christian Rocca
La primavera di sangue e libertà che incendia il Maghreb e il medio oriente scorre davanti a noi mentre ci domandiamo, con Christian Rocca, “chi nel 2003, ma anche soltanto sei mesi fa, avrebbe detto che fra i paesi arabi e mediorientali oggi il solo Iraq si sarebbe rivelato stabile e passabilmente democratico”. Rocca è da circa un anno corrispondente per il Sole 24 Ore da New York, dove prima ha lungamente lavorato per il Foglio. Oltre a essere uno di famiglia, è la persona giusta per decodificare genealogia, senso e prospettiva delle rivoluzioni antidispotiche del Mediterraneo: da fogliante è stato fra i primi divulgatori in Italia della dottrina ultra democratica dei neocon americani, precipitata nella così detta “Freedom Agenda” – sul tema ha pubblicato due libri: “Esportare l’America” (il Foglio, 2003), “Cambiare regime” (Einaudi, 2006). Oggi la realtà internazionale sembra convalidare il concretissimo idealismo che ha ispirato il doppio mandato di George W. Bush alla Casa Bianca. “E’ la conferma di quanto ci dicemmo la sera dell’11 settembre 2001: nulla sarà più come prima”. Da quel momento – dice Rocca – sul fondale delle macerie di Ground Zero “prese corpo un approccio radicalmente nuovo nei rapporti storici verso gli stati implicati con il terrorismo islamista; verso i regimi con i quali in precedenza, per ragioni economico- energetiche, si era deciso di mantenere uno status quo cristallizzato”. Quell’approccio ha portato l’America e l’occidente a combattere due guerre, in Afghanistan e in Iraq, “e a inaugurare un processo di democratizzazione che non poteva maturare dall’oggi al domani, ma che ora sta dando frutti”. Se in Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Libia, Marocco e, non da ultimo, in Iran nulla è come prima, per Rocca “lo si deve al sostegno bushiano nei confronti di ogni dissidenza, all’aumento dei finanziamenti a favore delle opposizioni democratiche, a una scossa tellurica indotta che aveva già costretto Gheddafi a stracciare il programma nucleare libico, la Siria a ritirarsi dal Libano, i palestinesi a lacerarsi sul fondamentalismo di Hamas; e altri paesi ad azzardare esperimenti di tipo democratico, se pure non proprio in stile Westminster”. Una gloria postuma della dottrina pro democracy di Bush, “più forte dei suoi ripiegamenti di fine mandato dovuti alla tentazione di lasciare un’eredità non solo conflittuale”; ma sopra tutto più forte delle intenzioni ireniche del successore Barack Obama “che non ha promesso libertà ai popoli islamici oppressi ma è andato al Cairo per tendere la mano a Mubarak e ai teocrati iraniani che lo hanno ripagato col pugno di ferro contro l’Onda verde”. Obiezione: la primavera democratica preoccupa anzitutto Israele, avamposto demo-occidentale in medio oriente, e coloro che nei residui del panarabismo o dell’ibrido social-musulmano hanno visto un deterrente contro l’islamizzazione delle società. “Israele è nella trincea della prima linea – risponde Rocca – è chiaro che preferisca chiunque sia capace di garantire un ordine a basso tasso d’islamismo aggressivo”. Per dirla forte: non è che la Freedom Agenda lavora senza volerlo per i Fratelli musulmani, per Moqtada al Sadr che tiene al laccio il governo di Baghdad, o per Hezbollah che plaude alla piazza libica? “Il rischio c’è”, ammette Rocca, ma vale la pena correrlo se oggi “i cittadini iracheni possono finalmente scendere in strada non più contro un tiranno ma per reclamare pane e ricchezza”. E poi c’è l’argomento principe dell’idealismo realistico statunitense: “Come per le guerre contro Saddam e i talebani, l’esperienza ci dice che le situazioni precedenti allo strike erano peggiori e covavano il mostro jihadista”. Dopotutto “i governi eletti sono meno pericolosi di quelli dispotici che si sentono liberi di gasare i cittadini o mitragliarli con gli aeroplani, e figurarsi se hanno remore a finanziare i terroristi”. Per Rocca una stabilità antidemocratica non solo non è preferibile alle incognite degli attuali rivolgimenti, “è un’illusione”. Valeva per l’Egitto, dove “il popolo che ha rovesciato Mubarak odia gli Stati Uniti ma è stato vessato grazie alle armi e ai soldi americani destinati al regime”; vale per l’Iran, “dove il popolo non odia l’America, anche perché da Washington l’opposizione riceve sostegno materiale per smascherare l’imbroglio khomeinista”; varrà per l’Arabia Saudita, alleato sempre meno indiscusso, “dove origina la gran parte del fondamentalismo radicato in occidente”. Seconda obiezione: quanto la Freedom Agenda sia compatibile con gli interessi strategici dell’Europa, ove è stata percepita da taluni come la combinazione tra le pulsioni dell’America profonda, patriottica ed evangelica, e la costruzione teorica di un’élite liberal “assalita dalla realtà” e stanziata alla corte intellettuale di Bush. Controreplica: “Contesto nettamente l’idea della cricca o, come è stato scritto, della kabala annidata dentro e fuori la Casa Bianca per curare interessi oligarchici. Il padrino dell’ingerenza democratica si chiama Tony Blair, un protestante inglese convertito al cattolicesimo e rifondatore del Labour britannico. Basta rileggersi il suo discorso a Chicago del 1999 per ricordare come fosse lui a convincere Bill Clinton che l’Iraq saddamita non era differente dalla Serbia di Milosevic”. Profezia, anzi agenda di libertà “nutrita, dopo l’11 settembre, dal consenso del Congresso americano, di John Kerry prima che sfidasse Bush, del New York Times, di intellettuali europei come André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik, Giuliano Ferrara, Magdi Allam, e come il mio direttore Gianni Riotta. E poi bisogna finirla col falso mito dell’Europa riluttante: tolte Francia e Germania, dall’Italia berlusconiana alla Spagna di Aznar, con al seguito il Portogallo di Barroso, la Polonia e i paesi dell’est, quella Freedom Agenda riabbracciata da Obama ha avuto e dovrebbe avere anche oggi un largo seguito europeo”. Per fare cosa, nell’immediato? “La leva economica sarà decisiva per vigilare sulla transizione egiziana. E in Libia, dove il condizionamento degli stati occidentali (Italia a parte) è meno forte, si potrebbe imporre una no fly zone con l’obiettivo di salvare le vite dei manifestanti”. Da ultimo: nella Freedom Agenda si fatica a intravedere il dossier cinese, lo yuan è assai più temibile di Gheddafi. “Sì, e poi a Pechino c’è sempre gran parte del debito pubblico americano”.
Il FOGLIO - Paul Wolfowitz : " Che fare con le rivolte arabe "

Paul Wolfowitz
Muammar Gheddafi è uno dei despoti più spregevoli del mondo. Per quarantadue anni ha tenuto i propri sudditi imprigionati in un regime di paura al cui confronto l’Egitto di Mubarak sembra quasi un paese libero. Ha addestrato e sostenuto killer come Charles Taylor e Foday Sankoh, fomentando spaventose guerre in Liberia, Sierra Leone e altri paesi africani, che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di africani (circa 200.000 nella sola Liberia, una cifra pari al 5 per cento della popolazione complessiva). Ed è Gheddafi (e non il suo agente Abdelbaset al Megrahi, che l’anno scorso è stato riaccolto in Libia come un eroe) ad avere la responsabilità dell’attentato al volo 103 della Pan Am e della morte dei suoi duecentosettanta innocenti passeggeri. E’ difficile comprendere perché gli Stati Uniti continuino a tentennare, quando invece dovrebbero esprimere con la massima chiarezza il proprio sostegno ai coraggiosissimi libici che Gheddafi sta massacrando. Non c’è modo di sapere cosa potrà accadere dopo l’uscita di scena del dittatore libico, dato che egli stesso ha stroncato sul nascere qualsiasi forma di leadership alternativa, ha impedito l’organizzazione di gruppo della società civile e ha messo il potere nelle mani di mercenari stranieri, diversamente da quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto, dove militari professionisti hanno saputo gestire e tenere sotto controllo la situazione. C’è il concreto pericolo che gruppi islamisti (i più pronti a organizzarsi in tali condizioni di spietata repressione) possano sfruttare a proprio vantaggio il vuoto di potere libico. Ma questo non è assolutamente un motivo per preferire una continuazione del crudele regime di Gheddafi. Gli Stati Uniti devono schierarsi al fianco del popolo libico, in nome dei nostri stessi principi e valori. Quanto più a lungo dureranno i massacri, tanto più gravi saranno le conseguenze. Il silenzio statunitense in questi ultimi e cruciali giorni è stato duramente criticato e deriso da numerosi commentatori sui media arabi, che hanno ripubblicato con cinica soddisfazione la foto, scattata nel 2009, del segretario di stato Hillary Clinton che si incontra con uno dei più spregevoli figli di Gheddafi, Mutassim. Non saremo certo accolti con favore in una Libia post Gheddafi se continueremo a essere considerati in questo modo. Una nitida dichiarazione di sostegno da parte degli Stati Uniti sarebbe estremamente importante. Ma la situazione richiede anche un’immediato intervento, e non semplicemente parole più efficaci. Sfortunatamente, le opzioni a nostra disposizione non sono quelle che avremmo potuto avere se la diplomazia americana in questi anni avesse stretto rapporti con le possibili forze d’opposizione. Ciononostante, ci sono varie cose che possiamo prendere in considerazione. C’è una disperata mancanza di medicine e attrezzature mediche nel pochi ospedali di Bengasi. La Associated Press riferisce che i libici residenti in Egitto stanno già inviando i rifornimenti più urgenti. Ayman Shawki, un avvocato residente nella città di Matrouh, presso il confine con la Libia, ha detto che alcuni membri della potente tribù di Awlad Ali si sono offerti di trasportare i rifornimenti in Libia. Gli Stati Uniti potrebbero aiutarli direttamente oppure incoraggiare donazioni private a questo scopo, come è stato fatto in occasione dello tsunami in Indonesia e del terremoto ad Haiti. Dovrebbero inoltre fare pressioni per una sospensione della Libia dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. E si dovrebbe avviare un’indagine sulla concreta possibilità che i funzionari dell’ambasciata libica abbiano costretto con la forza alcuni studenti libici a partecipare alle manifestazioni pro regime a Washington. Bisogna anche verificare la voce secondo cui i più stretti collaboratori del dittatore tunisino Zine el Abidine Ben Ali stiano facendo penetrare in Libia numerosi mercenari. Se queste voci saranno confermate, gli Stati Uniti dovrebbero intervenire, in collaborazione con la Francia e la stessa Tunisia, per interrompere immediatamente questo flusso. Forse, l’aiuto più utile che gli Stati Uniti possono fornire sarebbe quello di rompere il blocco delle comunicazioni grazie al quale il regime di Gheddafi sta isolando il popolo libico e nascondendo i suoi crimini. Per raggiungere questo obiettivo si possono adottare anche semplici iniziative, come, per esempio, dare nuove carte telefoniche a tutti i libici che non possono più usare il proprio telefonino o che temono di averlo sotto controllo. Naturalmente, ci sono molte altre cose che il governo americano potrebbe fare per aiutare il popolo libico, ma questo richiederebbe una chiara presa di posizione politica, che finora non c’è stata. Per vari giorni, diversi portavoce dell’Amministrazione e lo stesso presidente non hanno saputo far altro che recitare il solito ritornello, ossia che “i governi del Bahrein, della Libia e dello Yemen” devono mostrare “moderazione nei confronti delle proteste pacifiche”, come se non ci fosse alcuna differenza fra le colpe dei leader del Bahrein e la crudeltà assassina di Gheddafi, responsabile di un autentico massacro di manifestanti pacifici. La scorsa domenica, al programma della Nbc “Meet the Press”, l’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, Susan Rice, si è rifiutato di rispondere a una esplicita domanda sul fatto che Gheddafi stava facendo ammazzare i manifestanti, affermando, invece, che “c’è stata meno violenza, e almeno finora pochissima a Tripoli”, anche se “siamo molto preoccupati per le notizie che a Bengasi – e nelle aree costiere – le forze di sicurezza si siano messe a sparare contro manifestanti pacifici”. Sempre nella stessa giornata di domenica, il dipartimento di stato ha cercato di rilanciare, rilasciando una dichiarazione nella quale si esortava il governo libico a rispettare il proprio “impegno a garantire il diritto alla protesta pacifica”, e si affermava che “si sarebbe ritenuto responsabile qualsiasi funzionario di sicurezza che non si sarebbe attenuto a tale impegno”. Subito dopo questa dichiarazione, però, uno dei figli di Gheddafi, Saif, ha pronunciato l’infame discorso con cui ha minacciato i propri sudditi paventando il caos e la guerra civile. Incredibilmente, un anonimo funzionario dell’Amministrazione ha successivamente dichiarato alla Cnn che la Casa Bianca sta “analizzando” il discorso per vedere “quali possibilità offriva all’attuazione di un significativo processo di riforma”. Sulla Libia, il governo britannico ha reagito molto meglio degli Stati Uniti. Già sabato il ministro degli Esteri britannico, William Hague ha condannato le “inaccettabili violenze” di Gheddafi, e ha espresso preoccupazione per le notizie sull’uso di cecchini e di armi pesanti contro i manifestanti. Queste notizie, ha detto Hague, “sono spaventose. E se anche non ci sono telecamere a riprendere, questo non significa che il mondo non stia guardando”. Fortunatamente, la politica americana sembra essersi messa al passo. Lunedì, con una netta seppur tarda dichiarazione, il segretario di stato Hillary Clinton ha detto che “è giunto il momento di fermare questo inaccettabile massacro”. Ciononostante, ha evitato di richiedere una rapida transizione del potere, come gli Stati Uniti hanno invece fatto con l’Egitto. Ciò che devono fare adesso gli Stati Uniti è indagare sulla notizia che forze mercenarie stiano mettendo in atto la minaccia di Saif di riportare il paese all’età della pietra. Se questa notizia risulta vera, gli Stati Uniti devono esortare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad approvare un immediato intervento per porre fine ai massacri.
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