Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/02/2011, a pag. 1-4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Fuoco sulla Libia ", a pag. I, l'articolo di Luigi De Biase dal titolo " Gli islamisti più vicini al carro vittorioso delle rivolte arabe ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo " I soliti indignati e la politica estera ". Dal GIORNALE, a pag. 10, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " Libia, ecco l'incubo dei nostri 007: Rischio secessione ed emirato islamico ".
Ecco i pezzi, preceduti dal comunicato di Fiamma Nirenstein dal titolo " Libia, nostro dovere condannare senza riserve violenza regime Gheddafi ":
Fiamma Nirenstein - " Libia, nostro dovere condannare senza riserve violenza regime Gheddafi "

Fiamma Nirenstein
“Condanno nella maniera più assoluta l’uso senza precedenti della violenza che il regime di Gheddafi sta praticando sulla folla dei suoi concittadini. Nessuna delle rivoluzioni in corso in tutto il mondo musulmano ha avuto finora esiti così sanguinosi.
Pur augurandomi che le cose possano trovare una loro soluzione pacifica, non posso che rilevare l’indisponibilità di Gheddafi a soluzioni che abbiano a che fare con la nostra cultura della libertà, cosa che mi apparve evidente già quando mi astenni in Aula nel voto di ratifica dell’accordo Italia-Libia, approvato da quasi tutto l’arco parlamentare.
Le ragioni per cui lo feci, e che dichiarai in Aula, non erano attinenti al contenuto del trattato, che a me parve pieno di buona volontà e molto utili rispetto alla soluzione di un contenzioso che da anni impegnava tutti i vari governi italiani e che di fatto è stato in gran parte risolto, nonché alla questione degli sbarchi clandestini che sono diminuiti in maniera notevole. Le mie ragioni erano radicate nella difficoltà a credere in un interlocutore come Gheddafi, le cui parole sempre estremiste e le cui continue minacce all’ONU e allo Stato di Israele mi resero difficile, allora come oggi, credere nella sua autentica disponibilità.
L’esito di tutte le rivoluzioni cui assistiamo in questi giorni è ancora molto difficile da prevedere e l’Europa deve monitorare ogni possibilità di svolta verso l’integralismo islamico, un rischio che anche la Libia corre. Ma il nostro primo dovere ora è pronunciarci senza riserve perché si smetta quanto prima di sparare sui manifestanti”.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Fuoco sulla Libia "

Carlo Panella
Roma. Da Tripoli arrivano inequivocabili segnali di una “finis imperii”. La repressione del regime di Muammar Gheddafi è violentissima, ma la rivolta è stabilmente passata da Bengasi, città mai domata dal rais, alla capitale. I palazzi del governo sono in fiamme. Ieri gli elicotteri e i caccia militari si sono alzati in volo e hanno sparato sulla folla: secondo al Jazeera, Gheddafi sarebbe già partito, e voci credibili dicono che stia viaggiando verso il sud della Libia per organizzare la resistenza. Certe sono invece le dimissioni del ministro della Giustizia, Mustafa Mohamed Abud al Jeleil, “per l’eccessivo uso della violenza contro i manifestanti”. Il suo annuncio è stato preceduto da quello del rappresentante libico presso la Lega araba: tutti e due erano fedelissimi di Gheddafi. E’ dunque fallito il tentativo del figlio del colonnello, Seif al Islam, il cosiddetto “riformista” che ha letto domenica un comunicato durissimo in cui auspicava le dimissioni del governo conservatore di al Baghdadi Ali al Mahmoudi a patto che la rivolta si fermasse. In caso contrario, la repressione sarebbe stata feroce. L’altro figlio del rais, Khamis, continua a far sparare sui manifestanti. Aumentano anche le voci di un golpe militare che si preannuncia cruento e che potrebbe anticipare una guerra civile. La dinamica della crisi libica è molto diversa da quella tunisina ed egiziana. L’esercito libico non si è comportato in modo unitario, ma si è diviso per vie tribali e politiche. La parte fedele a Gheddafi è intervenuta in Cirenaica, sparando contro i manifestanti di Bengasi, Beida e di altre città, arrivando addirittura a tirare granate sulla folla o a falciare con il tiro dei cecchini un corteo funebre. Questi reparti antisommossa sono sotto il comando di Khamis Gheddafi, a dimostrazione che questo clan familiare “di prima generazione” è di ben altra tempra rispetto a quelli di Hosni Mubarak e di Ben Ali, divenuti “dittatori per caso”, che avevano i figli nei consigli di amministrazione, non certo nell’esercito. Un’altra componente dell’esercito, invece, non ha obbedito agli ordini di sparare sulla folla e si è ammutinata. Secondo fonti locali – che, però, non possono essere verificate – i reparti formati da quattro tribù libiche stavano marciando su Tripoli ieri sera. L’esercito libico è una macchina che non si può comprendere facilmente. La struttura tribale è ancora la sua principale forma di organizzazione, con tradizioni claniche millenarie, rese ancora più difficili dall’appartenenza a diverse confraternite religiose. L’esercito libico è strutturato anche formalmente su base tribale, con una gerarchia che vede al vertice i membri della tribù Qhadafa di Sirte – come si comprende dal nome, è quella di Gheddafi – che sono gli unici che possono accedere all’aviazione, e in posizione di fronda gli alleati della tribù Maghariba, un tempo colonna del regime e ora all’opposizione. I Maghariba erano associati al potere fino a quando Gheddafi, nel 1993, emarginò il proprio braccio destro, Abdessalam Jallud, suo principale esponente. Da allora i Maghariba si sono alleati con la tribù Warfalla e con le tribù Zintan, Tebu, Furjan e Zawhiya – che è strategica perché controlla larga parte dell’estrazione dei campi petroliferi che sono nel suo territorio e già minaccia di fermare le pompe – nell’appoggiare la rivolta. Da domenica in poi, mentre i capi di queste tribù via via si esponevano in dichiarazioni contro Gheddafi, i vari reparti a loro collegati si sono schierati con i rivoltosi. Pare che a Bengasi questi reparti, assieme a quelli della polizia, con una sorta di anteprima cruenta di guerra civile, siano riusciti a scacciare dalla città gli agenti antisommossa di Khamis Gheddafi, una specie di legione straniera composta da ciadiani innanzitutto, poi da egiziani, tunisini, mauritani e algerini che Gheddafi ha organizzato nel corso degli ultimi decenni per sostenere la guerra nel confinante Ciad e per tentare golpe un po’ ovunque (l’ultimo in Mauritania). I reparti speciali si sono macchiati delle peggiori nefandezze in questi giorni, tanto da motivare ancora di più la decisione di alcuni generali di tentare il colpo di forza contro Gheddafi. Tentativo, secondo al Jazeera, che sarebbe guidato addirittura dal capo di stato maggiore, il generale El Mahdi el Arabi.
Il FOGLIO - " I soliti indignati e la politica estera "

Sivlio Berlusconi con Muammar Gheddafi
Tra tutte le espressioni che poteva usare, Silvio Berlusconi non ha scelto la più felice. “Non voglio disturbare” Muammar Gheddafi nel momento in cui ci sono trecento morti in Libia a causa della repressione ha un che di involontariamente fastidioso (ma ieri il premier ha ricalibrato il tiro con dichiarazioni toste e chiare contro “l’inaccettabile violenza sui civili”). La diplomazia del Cav. è da sempre fatta così, e funziona: una pacca sulla spalla e una megatenda nel più bel parco di Roma, con un occhio ai risultati più che alla polvere protocollare. Checché ne dica l’opposizione scandalizzata – ma ve lo ricordate, nel giugno 2009, D’Alema che aspettava fuori dalla tenda di Gheddafi a Villa Pamphilj, dopo che il rais aveva boicottato un incontro a Montecitorio? – Berlusconi è riuscito a ottenere più di chiunque altro dalla Libia (e non si dimentichi che l’Italia è il primo importatore di petrolio e il terzo per quel che riguarda il gas): un accordo per controllare l’immigrazione, una “pace” simbolica dopo settant’anni di minacce da parte di Tripoli, un compromesso con gli eventi storici che hanno per decenni incancrenito i rapporti con uno dei leader più importanti dell’Africa del nord. Come abbiamo visto in questi giorni, la gestione dell’immigrazione è complicata, ne sa qualcosa l’Europa che non si è mai mossa per una strategia comune e ora si trova senza un piano alternativo nei contesti critici nella regione. Per l’Italia in più c’è stato un ricasco importante per i campioni nazionali, con commesse strategicamente rilevanti per le più grandi imprese italiane. Si dirà: a quale prezzo? Il prezzo è naturalmente alto, quando si fanno affari con i regimi a pagare sono i diritti umani, il pluralismo, la democrazia. Stiamo tutti scoprendo, in questi mesi di rivoluzione araba, che la politica dello status quo ha i giorni contati. Lo sanno i francesi, incastrati in uno scandalo via l’altro a causa delle connessioni con gli ex dittatori di Tunisia ed Egitto, per non parlare della fine ingloriosa dell’Unione per il Mediterraneo patrocinata da Sarkozy. Lo sanno tutti i paesi europei che condannano la repressione libica ma non riescono ad accordarsi per definire una nuova strategia che possa valere in un momento in cui le categorie del passato non servono più. Lo sanno anche gli esponenti della nostra opposizione, che s’indignano sempre ma non sanno offrire un’alternativa di politica estera valida (a parte la ritrita retorica anti israeliana, una via d’uscita per tutte le rivoluzioni). La comunità internazionale deve fare i conti con la fine della realpolitik degli anni Ottanta, ma almeno la diplomazia spericolata di Berlusconi lo ha posizionato al fianco di Bush e Blair, gli unici ad aver tentato di dare un’occasione democratica ai regimi di tutto il mondo.
Il FOGLIO - Luigi De Biase : " Gli islamisti più vicini al carro vittorioso delle rivolte arabe "

Luigi De Biase
Roma. Cinque settimane dopo la fuga del presidente Ben Ali, i cittadini di Tunisi hanno assistito a nuovi scontri fra la polizia e gruppi di civili. Questa volta le forze dell’ordine non sono dovute intervenire per proteggere i palazzi del governo dai giovani che chiedono libertà e lavoro: hanno fermato decine di persone che lanciavano pietre e bottiglie molotov contro un bordello sulla strada Abdallah Guech. “Dio è grande – gridavano i manifestanti – Non c’è posto per i bordelli in terra musulmana”. La polizia ha impiegato poco tempo per disperdere la folla, ma la battaglia mostra che i ranghi dei conservatori si stanno gonfiando nelle strade della Tunisia: forse l’islam ha avuto un ruolo marginale nei giorni della rivolta antiregime, ma non è detto che i partiti religiosi vogliano restare in disparte ancora a lungo. Il più conosciuto, Ennahda, si è appena ricomposto dopo le persecuzioni dell’epoca Ben Ali. Ennahda significa “rinascita”: il segretario generale, Hamadi Jebali, ha detto alla rivista Réalités che “non ha alcuna intenzione di gettare al vento” i risultati raggiunti sinora dalla piazza, e ha ribadito che non chiederà mai di portare la legge coranica nell’ordinamento dello stato. Sono gli stessi tunisini, quelli che appartengono alla borghesia più raffinata del Maghreb, a guardare con sospetto lui e la Rinascita. L’attacco contro il bordello di Abdallah Guech a colpi di pietra e canti sacri non è l’episodio più grave del fine settimana. Venerdì sera, un prete polacco di 34 anni è stato ucciso in una scuola salesiana a Manouba, un sobborgo della capitale. L’agenzia di stampa Tap, controllata dal governo, ha scritto che l’uomo è stato “picchiato a morte” da alcuni sconosciuti. Duemila persone hanno manifestato a Tunisi per rivendicare lo spirito laico della nazione, ed Ennahda è stato uno fra i primi partiti a condannare l’omicidio. “Qualcuno vuole sfruttare il momento di debolezza che il nostro paese sta attraversando – ha dichiarato il ministro dell’Interno – Ci sono gruppi di fanatici che hanno intenzione di portare il caos e la violenza. Sono gli stessi che, nelle loro marce, intonano slogan estremisti e razzisti”. Il governo di Tunisi affronta in queste settimane il passaggio dal regime alla democrazia, che culminerà con la scelta del nuovo presidente. Gli ufficiali di Ennahda – che dicono di ispirarsi ai partiti islamici moderati di Turchia e Malaysia, ma hanno molte più cose in comune con i Fratelli musulmani – prendono molto sul serio le elezioni. Il loro leader, Rachid Ghannouchi, ha dichiarato in una intervista al quotidiano Asharq al Alawsat che non sarà fra i candidati, ma ha anche aggiunto che Ennahda ha voglia di partecipare a questa fase. “Noi siamo pronti ad accettare il risultato delle urne, qualunque esso sia – sostiene Ghannouchi – Ogni cittadino deve essere pronto a farlo”. Il mondo che si agita alle spalle di Ghannouchi, e che domani potrebbe sostenere le campagne e le richieste del suo partito filoislamico, ha poco a che fare con i giovani che hanno lanciato la protesta contro Ben Ali. Molti, però, pensano che stia già conquistando spazio nelle strade di Tunisi. Una sponda elettorale per i terroristi Ogni nazione ha la propria storia, ma la Tunisia potrebbe diventare un modello per le altre capitali del Maghreb e del medio oriente. In Egitto, i Fratelli musulmani sono passati in pochi giorni dalla galera al tavolo delle trattative e oggi partecipano alla transizione politica del dopo Mubarak. Anche loro, come gli uomini di Ennahda, dicono d’ispirarsi al modello turco e guardano con orgoglio a Giustizia e progresso (Akp), che guida il governo di Ankara da otto anni e ha portato il paese alla leadership della regione. Le differenze con il partito di Recep Tayyip Erdogan, che è un leader rispettabile, ma non ha certo il curriculum degli eroi liberali, sono enormi: i Fratelli musulmani non hanno alle spalle un processo di costruzione democratica lungo più di settant’anni. La loro presenza alle elezioni previste entro il mese di settembre può convogliare le aspirazioni degli ambienti più conservatori e offrire un riparo ai gruppi estremisti. La Libia ha un problema differente e parallelo. Negli anni al potere, Muammar Gheddafi ha annientato gli avversari politici proprio come hanno fatto Ben Ali e Mubarak, ma anche favorito l’intreccio fra l’islam e la cosa pubblica – il suo Libro verde, pubblicato a metà degli anni Settanta, doveva essere un testo di riferimento per tutti i paesi musulmani. Per questo, la religione è già un elemento significativo nelle proteste che stanno portando al collasso il regime del colonnello. Se in Tunisia e in Egitto la rinascita dell’islam e la possibile ascesa di movimenti integralisti sono una risposta al periodo della repressione, in Libia è lo stesso regime ad avere fornito una base al fenomeno. Secondo Paul Cruickshank del New York University Center on Law and Security, le rivolte hanno spiazzato organizzazioni come al Qaida: anche i terroristi volevano la fine di Mubarak in Egitto, ma chi ha costretto il rais alla fuga non lo ha fatto in nome della sharia, bensì della libertà individuale. I partiti filoislamici che non hanno alcuna esperienza democratica (ma possono già partecipare alle elezioni) potrebbero fornire ai terroristi una sponda inaspettata.
Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Libia, ecco l'incubo dei nostri 007: Rischio secessione ed emirato islamico "

Fausto Biloslavo
Il regime libico, che sta perdendo pezzi fra ambasciatori e ministri, si arrocca attorno agli uomini chiave della sicurezza, ben conosciuti dall’Italia. Il nostro governo fa il possibile per evitare il peggio e si prepara ai contraccolpi della rivolta in Libia. A cominciare da un flusso migratorio dal Nord Africa «ben più grave rispetto alla crisi in Tunisia», secondo fonti del Viminale.
Nel dietro le quinte di queste ore i nostri servizi segreti segnalano che i fedelissimi di Muammar Gheddafi fanno quadrato, anche se la sorte del leader al potere da 42 anni è incerta. In televisione hanno mandato il volto umano del clan: Seif al Islam, il figlio moderato del colonnello. Da una parte ha offerto ai rivoltosi il ramoscello d’ulivo del negoziato per varare la Costituzione e la creazione di una commissione d’inchiesta sulle violenze. Dall’altra ribadisce che «combatteremo fino all’ultimo uomo, all’ultimo proiettile».
All’uso della forza ci pensa il ministro dell'Interno, generale Younis al Obeidi, nonostante la sua polizia abbia combinato sanguinosi errori nell'affrontare la protesta. In prima linea è schierato anche Abuzed Omar Dorda, nominato nel 2009 a capo del servizio segreto esterno. Ex primo ministro fa parte della vecchia guardia e ha sostituito Moussa Koussa, spregiudicato uomo forte dell’intelligence libica, oggi ministro degli Esteri. Il responsabile della diplomazia libica deve tener buona la comunità internazionale, mentre in Libia scorre il sangue. Il vero regista della cupola di crisi è l'inossidabile Abdallah Senussi, ex capo dell'intelligence militare e cognato di Gheddafi. In pratica ha un ruolo di «primus inter pares» nel settore sicurezza.
Una fonte di intelligence conferma a Il Giornale: «Stanno facendo quadrato e prevediamo che scorrerà del sangue in maniera significativa». Non è chiaro, però, se il colonnello faccia parte dell'ultima trincea. Dall'inizio delle proteste non si è più visto. Ieri mattina venivano segnalate sparatorie attorno alla caserma Bab al Aziziyah, residenza e centro comando di Gheddafi a Tripoli. Per tutta la giornata si sono susseguite voci su una sua fuga all'estero poi smentita.
Sul fronte diplomatico il nostro Paese lavora dietro le quinte per «la cessazione delle violenze da tutte e due le parti. Non si tratta di manifestanti pacifici contro poliziotti brutali. Azioni sanguinose si registrano da un lato e dall'altro della barricata». La Farnesina appoggia la linea di Seif al Islam indirizzata ad un processo negoziale politico e al varo della Costituzione. Secondo fonti diplomatiche la maggiore preoccupazione «è l'integrità territoriale della Libia. Siamo di fronte ad un movimento secessionista in Cirenaica con forti connotati islamici. Non è accettabile trasformare la Libia in uno spezzatino». Fra i rivoltosi non ci sono solo i Fratelli musulmani, ma pure estremisti islamici, talvolta infiltrati dai paesi vicini, che si rifanno all'ideologia di Al Qaida. «Si stanno affermando ipotesi di emirati islamici nella Libia orientale a poche decine di chilometri da noi. Sarebbe un fattore di grande pericolosità», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini riferendosi alla Cirenaica in rivolta. Il responsabile della Farnesina ha partecipato ieri alla riunione dei Ventisette a Bruxelles sulla crisi libica. Non sono mancati attriti con i finlandesi, che oltre la condanna delle violenze chiedevano dure sanzioni contro Gheddafi, senza conoscere bene il problema.
Oggi Frattini vola al Cairo e poi rientra a Roma per partecipare ad un vertice a Palazzo Chigi sui rischi di una nuova ondata migratoria verso l’Italia. Oltre al premier Silvio Berlusconi ci saranno i ministri dell'Interno, della Difesa e dello Sviluppo economico.
«Ci prepariamo al peggio. Da soli non saremo in grado di affrontare l'emergenza se crollasse la Libia. Si teme un’ondata ben più importante rispetto alla Tunisia», spiega una fonte del Viminale. Il ministro Roberto Maroni è sempre più deciso a chiedere un ulteriore coinvolgimento dell’Europa. In Libia la Guardia di Finanza addestrava la guardia costiera, che utilizza nostre motovedette per fermare i barconi dei clandestini. I 15 finanzieri hanno lasciato la caserma del nord di Suwarah alla volta dell’ambasciata di Tripoli. Probabilmente verranno rimpatriati. Secondo una fonte d'intelligence «nel caso in cui le autorità libiche si sciogliessero si spalancheranno le porte per chi preme dal sud del Sahara. Un possibile flusso migratorio di decine di migliaia di esseri umani che ci farà impallidire».
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