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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
21.02.2011 Libia, Iran: i dittatori sparano sulla folla
Che cosa c'entra Israele ? Cronache e commenti di Guido Olimpio, Cecilia Zecchinelli, Maurizio Molinari, Roberto Fabbri, Chris Patten

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale
Autore: Guido Olimpio - Cecilia Zecchinelli - Maurizio Molinari - Chris Patten - Roberto Fabbri
Titolo: «Il Rais costretto ad aggrapparsi ai suoi mercenari - Massacro a Bengasi, scontri a Tripoli. Il regime di Gheddafi spalle al muro - Le rivolte non si fermeranno ma i dittatori saranno spietati - Khamenei aizza gli egiziani ma a Teheran spara sulla folla»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/02/2011, a pag. 8, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Il Rais costretto ad aggrapparsi ai suoi mercenari ", l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Massacro a Bengasi, scontri a Tripoli. Il regime di Gheddafi spalle al muro ". Dalla STAMPA, a pag. 5, l'intervista di Maurizio Molinari a Afshin Molavi dal titolo "Le rivolte non si fermeranno ma i dittatori saranno spietati ", a pag. 1-33, l'articolo di Chris Patten dal titolo " Un messaggio a tutto l'Occidente  ", preceduto dal nostro commento. Dal GIORNALE, a pag. 10, l'articolo di Roberto Fabbri dal titolo " Khamenei aizza gli egiziani ma a Teheran spara sulla folla ".

Invitiamo a leggere il commento di Fiamma Nirenstein, pubblicato in altra pagina della rassegna

Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Il Rais costretto ad aggrapparsi ai suoi mercenari "


Muammar Gheddafi

WASHINGTON — I mastini della guerra in difesa del colonnello Gheddafi. Miliziani nigeriani, tunisini, algerini coinvolti nella repressione. Gli oppositori hanno mostrato i corpi senza vita di due mercenari dai tratti africani. Nella zona di Al Bayda ne avrebbero catturati a dozzine mentre 170 sono assediati a Misurata. Di un altro è diffusa la confessione su YouTube. Non parla bene l’arabo, lo hanno pestato. E’ circondato dai dimostranti che gli chiedono: «Di chi sono gli ordini?» . Risponde: «Degli ufficiali» . Per l’africano finisce male malgrado qualcuno cerchi di evitare il linciaggio. I «volontari» sarebbero quasi 30 mila, molti riconoscibili per un casco giallo. Una cifra, probabilmente, esagerata. E sarebbero ben pagati: voci raccontano di 12 mila dollari per ogni dimostrante ucciso. Testimonianze riferiscono di donne libiche stuprate, di cecchini che tirano sui funerali. La tv Al Arabiya ha aggiunto che 4 giorni fa è stato organizzato un ponte aereo dal Benin per trasferire combattenti arruolati su ordine del figlio di Gheddafi, Khamis. Tra gli ultimi arrivati anche gli ex poliziotti scappati dalla Tunisia dopo la cacciata di Ben Ali. A Tripoli hanno trovato un nuovo padrone in nome di una vecchia amicizia. Il ruolo dei mercenari può essere enfatizzato dagli avversari del leader libico ma è nella tradizione del regime che sin dalla sua nascita, nel 1969, se ne è servito. Senza dimenticare che la storia del Nord Africa è stata testimone delle azioni delle «spade in vendita» . Il faraone Ramesses II ne aveva a migliaia, Annibale li lanciò— senza fortuna— contro i romani. In epoca coloniale sono stati gli italiani a schierare la loro legione straniera. Miliziani reclutati nella regione o in Corno d’Africa (etiopi, eritrei) finiti poi a battersi al fianco dei famosi «meharisti» contro i ribelli libici. Quando il colonnello prende il potere con un colpo di Stato si tutela contro un eventuale golpe. Compra molti armamenti ma mette sotto tutela i soldati. Arrivano i famosi consiglieri della Stasi — la polizia segreta della Germania Est — e militari, sempre ben ricompensati, da altri Paesi. In particolare i piloti per l’aviazione: pachistani e bengalesi. Ci sono anche palestinesi ingaggiati e addestrati. Un modo per evitare di essere bombardato. I mercenari fanno da guardiani e, quando serve, partecipano alle operazioni esterne. Diventano importanti nella campagna d’Africa, a sud della Libia. Il comando libico si serve degli «uomini blu» , i formidabili Tuareg, e i Tabu, altra tribù che vive a cavallo tra le frontiere di molti Paesi della regione. Proprio le spedizioni in Ciad permettono ai servizi libici di crearsi una riserva dove pescare uomini in casi di emergenza. Sempre gli 007 del colonnello coinvolgono, nascondendosi dietro la causa palestinese, estremisti per compiere attentati. Un nome su tutti: Abu Nidal, un sicario per tutte le stagioni. Il problema, quando «affitti» i guardiani, è che qualcuno possa pagarli meglio. E dunque la fedeltà è a tempo. Poi c’è il rischio che li usino contro di te. Ed è quello che aveva pensato di fare l’intelligence britannica organizzando il «Piano Hilton» . Un’operazione per abbattere Gheddafi con la collaborazione di mercenari europei. Il Colonnello venne salvato dai servizi Usa e italiani. Il dittatore ha tanti nemici ma anche buoni amici. Dipende da cosa ha da offrire.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Massacro a Bengasi, scontri a Tripoli. Il regime di Gheddafi spalle al muro "

Ormai non è più, se lo è stata, una ribellione nell’Est o la rabbia dei giovani globalizzati. Ma guerra aperta in tutta la Libia, sempre più unita contro Muammar Gheddafi. In serata, dopo voci sulla fuga del leader libico in Venezuela, poi smentite, Saif Al Islam, figlio del Colonnello, ha parlato in tv, promettendo alcune riforme e agitando lo spettro della guerra civile e di un ritorno al colonialismo. Dopo il discorso, la gente è scesa in piazza in diverse città libiche, tra cui Tripoli, gridando: «Libia unita, Libia libera, Gheddafi fuori» , e un giornalista ha riferito ad Al Jazeera che nella capitale sono state uccise 6 persone e che alcuni manifestanti si dirigevano verso la caserma di Bab El Azizia, dove vive Gheddafi. A Bengasi, i dimostranti, tenendo delle scarpe in mano, urlavano contro Saif: «Fuori tu e tuo padre» . Quasi persa la Cirenaica dove le battaglie continuavano ieri, il conto dei morti (impossibile, ma già ben oltre 200) si allunga ma pure quello delle città liberate, intere unità dell’esercito passano con gli oppositori. Finalmente esplicita la rivolta nell’Ovest, dove ieri la più grande tribù del Paese, i Werfalla, ha invitato alla lotta contro «chi non sa governare» , mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere, ai militari di disertare, a Dio di portare all’inferno Gheddafi» . Anche Tripoli è scesa in piazza: almeno 2 mila manifestanti e quattro morti ieri sera, annuncia Al Jazeera, mentre 500 giudici e magistrati sono asserragliati nel tribunale. Nella vicina Zawia, roccaforte una volta dei comunisti, in migliaia hanno bruciato un palazzo del Colonnello, decisi a marciare sulla capitale. Ancora scontri e morti a Misurata. Si sono dimessi «per unirsi ai rivoltosi» al Cairo il rappresentante libico alla Lega Araba Abdel Moneim Al Honi e a Pechino l’ambasciatore libico Hussein Sadeq Misrati. La stessa frase che pronunciò Mubarak prima della caduta. «E’ questione di giorni, l’intera Libia ha fatto una scelta irrinunciabile — dice l’esule libico e attivista Ibrahim Jebril —. Non c’è ideologia, non c’entrano islamisti o complotti stranieri come dice il dittatore, è tutta la Libia contro di lui. Poi dovremo pensare a ricostruire il Paese ma un passo per volta. Non è ancora finita» . Infatti. Anche ieri, sesto giorno dell’Intifada, i combattimenti sono stati furiosi nell’Est. A Bengasi per l’ennesima volta i funerali dei martiri della vigilia e le proteste al tribunale sono stati attaccati: 40 morti a partire da mezzogiorno. Intorno alla caserma di Fadhil Bu Omar la battaglia è continuata: l’ultimogenito del Colonnello, Saadi, sarebbe scappato ma un gruppo di mercenari restava all’interno. Le truppe africane al soldo del Qa’id hanno usato razzi, mortai, mitragliatrici, cecchini dai tetti e elicotteri in cielo. Ma i ribelli nell’Est hanno assaltato caserme, preso armi, munizioni e blindat i . «Oh ni p o t i di Omar Mukhtar, combattete per mettere fine alla dittatura» , è l’appello che circolava in Rete e sui telefonini solo in parte bloccati. Mukhtar, ovvero l’eroe della resistenza contro gli italiani, catturato e impiccato dopo 20 anni nel 1931. Come allora è nella sua Montagna Verde, a Est di Bengasi, che c’è più resistenza. Ormai libera o quasi, qui si combatteva ieri per l’aeroporto di Qobba, vitale per mandare nuove truppe del Colonnello. Ma sembra una missione impossibile. «Ormai è troppo tardi» , è il messaggio che arriva dall’Est, lo stesso inviato a Gheddafi che ieri ha proposto alla Cirenaica di formare un «governo civile con rappresentanti delle città» , lasciando a lui «la sicurezza» . Arrestato il noto teologo Sadeq Ghiriany per aver dichiarato che «dovere di ogni musulmano sano di corpo è combattere il leader ingiusto» . Ma le stesse parole risuonano ovunque dalle moschee, e con varianti più laiche su Twitter, Internet, negli slogan delle proteste, negli appelli degli intellettuali. Sembrava impossibile, ma l’onda del risveglio arabo è davvero arrivata anche in Libia.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Le rivolte non si fermeranno ma i dittatori saranno spietati "


Afshin Molavi     Maurizio Molinari

Sono i dittatori ad avere le maggiori possibilità di sopravvivere alle rivolte in atto in Medio Oriente». È la tesi di Afshin Molavi, l’islamista della New American Foundation di Washington divenuto uno degli analisti più popolari per la capacità che dimostrò nel giugno 2009 di descrivere e anticipare quanto stava avvenendo nelle strade dell’Iran. Gli abbiamo chiesto un’analisi comparata delle diverse rivolte in corso.

Che cosa accomuna le rivolte popolari in Medio Oriente?
«La richiesta di dignità. Dal Cairo a Teheran la gente che scende in piazza chiede dignità politica con il rispetto dei diritti civili, dignità economica con politiche per combattere la miseria e dignità sociale con la fine dei privilegi delle élites e l’apertura di maggiori spazi per le donne nella vita di tutti i giorni».

E che osa invece le distingue?
«La reazione dei governi. Lì dove ci sono delle feroci dittature, come in Libia o in Iran, il regime adopera la violenza senza limiti, fa stragi e resta in sella grazie alla repressione. Mentre dove a governare sono presidenti autocrati, come in Tunisia o in Egitto, questi tentano di reagire facendo concessioni e questo li porta ad essere rovesciati. È una differenza di reazione che è conseguente anche al legame dei singoli regimi con l’Occidente».

Sotto quale aspetto?
«In Tunisia e in Egitto gli autocrati Ben Ali e Mubarak erano molto legati all’Occidente e dunque ne subivano le pressioni. Gheddafi e Ali Khamenei invece sono avversari dell’Occidente e dunque sono indifferenti a ogni richiesta o intervento da fuori».

Il Bahrein dove lo colloca?
«Il Bahrein è un’autocrazia simile a quella egiziana. Molto legata all’America dagli accordi militari in base ai quali ospita la V flotta. Anche Marocco, Algeria e Yemen sono autocrazie legate da rapporti con l’Occidente. Come vediamo, stanno alternando concessioni alla piazza a diversi livelli di ricorso alla forza. Alcuni di questi autocrati potrebbero cadere. In Iran la situazione è tutt’altra».

Può farci un esempio concreto?
«Ho parlato con alcuni degli studenti che negli ultimi giorni, e anche ieri, hanno manifestato a Teheran. Erano senza parole per il fatto che durante le manifestazioni a piazza Tahrir Mohammed el Baradei, leader dell’opposizione, è stato intervistato dalla Cnn per otto sere di seguito. Una cosa del genere in Iran è impensabile. Lì non solo i leader ma anche i semplici militanti dell’opposizione sono nell’impossibilità di comunicare. E i media stranieri non possono uscire dai loro uffici per lavorare».

Che cosa implica per l’Occidente il fatto che i dittatori hanno più facilità a sopravvivere?
«Gli Stati Uniti, ma soprattutto l’Europa che in Medio Oriente conta di più, dovrebbero essere più duri contro i dittatori. Invece preferiscono alzare la voce con i loro alleati autocrati, in Bahrein o in Yemen, mentre scelgono il pragmatismo davanti alle stragi libiche o iraniane. È un doppio standard che potrebbe lasciare il segno nei giovani che manifestano».

Quanto conta l’Islam come molla per la mobilitazione?
Meno di quanto non si creda. Se la gente protesta nel mondo arabo e non in Cina è perché, sebbene in entrambi manca la libertà politica, in Cina c’è una crescita economica. Ciò che fa la differenza è la fame, la miseria, la disoccupazione. L’Islam viene dopo. Se però in Tunisia o Egitto i partiti islamici sapranno proporre validi programmi economici, potrebbero presto arrivare al governo».

E se invece lo sviluppo economico continuerà a tardare?
«È facile prevedere che le proteste torneranno».

Come spiega il fatto che in Tunisia e in Egitto, ad autocrati oramai caduti, le libertà politiche restino comunque lontane?
«La caduta di un’autocrazia non significa l’avvento della democrazia. In Tunisia e in Egitto governano ancora élites economiche e militari. Potremmo andare incontro a uno scenario simile alla Russia, dove la democrazia è solo apparente».

Qual è il ruolo svolto da Internet nelle rivolte?
«Le grandi manifestazioni in Tunisia e in Egitto si sono svolte il venerdì, il giorno della preghiera. Il network della moschea, o del bazar, conta assai più di Facebook, Google o delle email. La funzione di Internet è stata un’altra: informare all’estero su quanto stava avvenendo e dunque aumentare la pressione internazionale su Mubarak e Ben Ali, come sta avvenendo ora in Bahrein. Ma anche Internet conta meno contro le dittature: le immagini delle violenze a Teheran e Bengasi sono arrivate nelle nostre case ma l’impatto su quei regimi è stato scarso».

La STAMPA - Chris Patten : " Un messaggio a tutto l'Occidente "


Chris Patten

Chris Patten inizia il suo pezzo con un elogio di Alaa Al-Aswani, meritevole di aver descritto la società egiziana facendo capire come la rivoluzione sarebbe prima o poi arrivata. Un paladino della democrazia, insomma. Patten si stupisce che non l'abbiano censurato in Egitto, ma non fa alcun accenno al fatto che al-Aswany abbia impedito la traduzione in ebraico del suo romanzo in segno di boicottaggio contro Israele. Com'è possibile conciliare un gesto simile con l'immagine di scrittore che ne capisce di democrazia ?
In ogni caso, non è ben chiaro per quale motivo se ci sono le rivoluzioni in Egitto, Libia, Iran, Tunisia, Algeria, si debba per forza anche scrivere di Israele e dei negoziati. I due argomenti, rivoluzioni nel mondo arabo e Israele non sono correlati. Ma, visto il modo in cui scrive, Patten non è interessato a informare. Ciò che conta è attaccare Israele.
Patten propaganda Turchia e Indonesia per paesi democratici. Evidentemente ritiene che libertà d'espressione e di opinione siano due diritti secondari, anche se non sono garantiti si è comunque in una democrazia.
Per quanto riguarda l'Indonesia, poi, pazienza se c'è una polizia speciale che controlla che la sharia venga applicata e se, per esempio, le donne vengono frustate se osano infilare un paio di pantaloni.
Ecco l'articolo:

Chi abbia letto Palazzo Yacoubian , un romanzo del 2002 dell’egiziano Alaa Al-Aswani, guarderà alla rivoluzione in Egitto come a qualcosa da lungo tempo atteso. I lettori del romanzo non saranno stupiti dalla facilità con cui il relitto in disfacimento del regime di Hosni Mubarak sì è schiantato contro gli scogli, né dallo spirito e dal coraggio di quelli che hanno progettato questo straordinario pezzo di storia.

Innanzitutto è un libro molto divertente e perspicace sui personaggi che abitano un elegante condominio del Cairo (che esiste davvero) e che si accampano in tuguri sul tetto. Come il fatiscente hotel Majestic nel romanzo «Troubles» di JG Farrell, che racconta la fine del dominio britannico in Irlanda del Sud, il condominio era una metafora dello stato, e i suoi abitanti rappresentano i diversi aspetti dell’Egitto di Mubarak.

Suppongo che i censori non abbiano mai un grande senso dell’umorismo, e che l’ironia e la parodia di solito siano oltre la loro comprensione intellettuale. Ma ho trovato curioso che Palazzo Yacoubian non sia stato vietato in Egitto - o in altri Paesi arabi - e che successivamente sia diventato anche un film popolare e diffusissimo. Al-Aswani ha detto ai suoi lettori in modo molto chiaro che cosa c’era di sbagliato nell’Egitto moderno, pur dimostrando che, nonostante la corruzione e la polizia di sicurezza, i cairoti sono pieni di carattere e di «savoir faire» molto cittadino.

Così, ora che lo Stato Yacoubian è crollato, la domanda più interessante non è «Perché è accaduto?», Ma «Perché non è successo prima?». Per anni, noi in Occidente - vergogna - abbiamo parlato di democrazia diffusa in tutto il mondo, ma, nonostante un occasionale, delicato schiaffo sul polso dei despoti arabi, abbiamo accettato che ci fosse un’eccezione araba al desiderio di libertà e responsabilità. Abbiamo avallato comodi stereotipi culturali per sostenere quello che credevamo fosse un espediente per il perseguimento del nostro interesse nazionale. Mentre la ricerca del Pew Center suggeriva che le aspirazioni delle famiglie in Medio Oriente erano simili alle altre, molti di noi si affidavano alla comoda illusione che le società a maggioranza musulmana non riuscissero a governare e non volessero la democrazia. Nessuno ha visitato la Turchia o l’Indonesia?

Questa presa di posizione ha convenientemente evitato dissidi con i dittatori del petrolio. Inoltre, sempre che non fossero politicamente troppo fastidiosi su Israele, potevano guadagnarsi un posto ben pagato al nostro tavolo. Non dovevano amare Israele, bastava che non fossero troppo duri sul pregiudizio americano pro-Israele e sul suo rifiuto di accettare che insistere sul diritto inalienabile di Israele a esistere non è lo stesso che permette ad Israele di fare quello che vuole. Molti tra gli stessi arabi sapevano cosa c’era di sbagliato nella loro regione. Già a inizio 2000, il programma di sviluppo dell’Onu aveva pubblicato due rapporti di funzionari e docenti universitari arabi che esaminavano i fattori alla base della stagnazione economica del Medio Oriente.

In troppi Paesi, avevano detto, le donne erano emarginate (anche se, ad essere onesti, non in Tunisia), l’istruzione era dominata dalla religione, e il governo era autocratico, inaffidabile e corrotto. Nonostante tutto il petrolio e il gas sotto la sabbia del deserto, la crescita tardava e la disoccupazione era alle stelle. Giovani uomini e donne in tutta la regione restavano delusi nelle loro speranze e talvolta si rivolgevano all’Islam militante come unica alternativa a uno Stato repressivo. Cosa accadrà ora? Beh, forse per cominciare, quelli di noi che vivono in Stati democratici opporranno resistenza a futuri suggerimenti su questo o quel Paese immune al fascino della libertà, dello Stato di diritto, e del governo rappresentativo. Se non c’è un’« eccezione araba» non c’è nemmeno un’«eccezione cinese». Più nell’immediato, noi in Occidente dovremmo evitare la presunzione di essere stati in qualche modo gli eroici progenitori dietro le quinte dei cambiamenti fondamentali in Tunisia e in Egitto. Invece di parlare di un grande gioco della democrazia - per il quale ci guadagneremmo il giustificato disprezzo degli arabi - dobbiamo offrire con umiltà e generosità assistenza pratica nella gestione della transizione verso società più aperte.

L’Unione europea, per esempio, è stata assai parca nell’assistenza allo sviluppo dello Stato di diritto, della buona politica e delle istituzioni rappresentative del mondo arabo, nonostante la collaborazione in campo economico e politico con i suoi governi. Per i Paesi che vogliono questo tipo di assistenza, c’è un bel po’ di soldi nelle tasche dell’Unione europea destinato a questo.

Dobbiamo anche capire che il clima è cambiato per quanto riguarda il «non-processo» che ha così miseramente fallito l’obiettivo della pace in Medio Oriente. Il fallimento di Israele in questi ultimi anni nel negoziare seriamente e responsabilmente con i palestinesi significa che dovranno ora essere prese in considerazione le opzioni diplomatiche nello scenario di un mondo arabo in cui i governi saranno costretti ad ascoltare con più attenzione le opinioni dei loro cittadini sulla Palestina. Il comandante americano in Afghanistan, generale David Petraeus, e altri hanno richiamato l’attenzione sull’impatto dannoso della parzialità filoisraeliana americana sui suoi interessi in alcune delle regioni geopoliticamente più sensibili del mondo. Forse ora avranno l’attenzione che meritano.

Se il 2010 si è concluso nel segno dello scoramento, il nuovo decennio è iniziato con un glorioso esempio dell’instancabile coraggio dello spirito umano. Quello che ci aspetta non sarà facile. Ma sarà migliore e più promettente? Ci potete scommettere.

Il GIORNALE - Roberto Fabbri : " Khamenei aizza gli egiziani ma a Teheran spara sulla folla "


Ali Khamenei

Nonostante la massiccia presenza delle forze di polizia, diverse zone di Teheran si sono nuovamente trasformate nel teatro di affollate manifestazioni anti-Ahmadinejad, al grido di «morte al dittatore». Anche in altre città iraniane, come ad esempio Shiraz, la rabbia contro il “presidente usurpatore” è esplosa nelle piazze. Il tam tam dell’opposizione, che chiamava alla sfida ai divieti di scendere in strada per una grande dimostrazione da tenersi ieri, è stato ascoltato. Segno che la voglia di abbattere regimi sentiti come liberticidi è forte non solo nel vicino mondo arabo, ma anche in quella Repubblica islamica che araba non è, ma si trova a subire la brutalità di un sistema basato su un’ideologia fanatica e intollerante.
Purtroppo anche questa volta la polizia ha fatto ricorso alla violenza ed è certo che ci sono delle vittime, anche se il divieto imposto ai giornalisti stranieri di seguire le manifestazioni rende difficile documentare i fatti. La corrispondente della televisione americana Abc Christiane Amanpour ha riferito via Twitter che un uomo è stato ucciso quando per disperdere la folla di manifestanti la polizia iraniana e i basiji (miliziani in borghese) hanno aperto il fuoco sui dimostranti. La Bbc in lingua farsi parla di spari nella zona di Abbas Abad nel nord di Teheran. Siti dell’opposizione raccontano anche di scontri con le forze di sicurezza a piazza Vali Asr, dove migliaia di persone gridavano «morte al dittatore». Altri parlano di cinque feriti a Shiraz.
Ma l’episodio politicamente più rilevante sembra essere l’arresto di Faezeh Hashemi, figlia dell’ex presidente della repubblica Akbar Hashemi Rafsanjani, molto critico nei confronti di Ahmadinejad. La donna, già fermata nel 2009 in circostanze simili, secondo l’agenzia ufficiale Irna è stata arrestata mentre «scandiva slogan provocatori» insieme ad altri manifestanti e rilasciata nelle ore successive. Suo fratello, Mehdi Hashemi, vive da tempo in Gran Bretagna: il regime lo accusat di avere avuto un ruolo nell’organizzazione delle manifestazioni del 2009 e sarebbe certamente arrestato se tornasse in Iran.
È ironico osservare che le manifestazioni contro la dittatura scuotano dalle fondamenta proprio quella Repubblica islamica dell’Iran i cui massimi dirigenti sono impegnati a sostenere simili manifestazioni nei Paesi arabi. Il gioco di Teheran, ovviamente, è quello di orientare i sommovimenti all’estero nella direzione gradita. Lo ha ribadito chiaramente ieri la Guida suprema della teocrazia iraniana Alì Khamenei: «I nemici - ha detto l’ayatollah - cercano di mostrare un’immagine non islamica dei movimenti popolari in Egitto, Tunisia e altre parti del mondo islamico, ma questi movimenti popolari sono assolutamente islamici e devono essere rafforzati». Khamenei non ha certo nascosto di considerare gli Stati Uniti come il principale ostacolo a questo progetto: «Sono il più grande problema che il mondo islamico si trova di fronte - ha detto il leader religioso - e gli egiziani devono stare attenti che il nemico non faccia deviare il movimento popolare e porti al potere un individuo legato al regime egiziano faraonico».
Le mire iraniane non si limitano certo all’Egitto. Basti pensare ai disordini nel piccolo ma strategico emirato del Bahrein, dove Teheran ha aizzato contro il monarca filoamericano la locale maggioranza sciita. O alla provocazione anti-israeliana rappresentata dall’invio nel mediterraneo di due navi da guerra: un messaggio ai musulmani del mondo arabo per dire «È noi che dovete seguire».

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