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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
18.02.2011 Le rivoluzioni del Maghreb hanno colpito il resto del mondo arabo, ma non i dittatori
Forte la repressione in Yemen, Libia, Bahrein. Cronache e commenti di Daniele Raineri, Carlo Panella, Lorenzo Cremonesi, Marina Verna

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Daniele Raineri - Carlo Panella - Lorenzo Cremonesi - Marina Verna
Titolo: «Guardi la piazza yemenita e scopri l’illusione del contagio arabo - Il risveglio dei giovani berberi: Il regime di Algeri cadrà presto - Bahrein, 4 morti nel blitz in piazza»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/02/2011, a pag. 4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Guardi la piazza yemenita e scopri l’illusione del contagio arabo ", a pag. 1-4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "  Il contagio sfiora Tripoli Ma per ora Gheddafi controlla la protesta". Dal CORRIERE della SERA, a pag. l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Il risveglio dei giovani berberi: Il regime di Algeri cadrà presto ". Dalla STAMPA, a pag. 10, l'articolo di Marina Verna dal titolo " Bahrein, 4 morti nel blitz in piazza ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri : "  Guardi la piazza yemenita e scopri l’illusione del contagio arabo"


Daniele Raineri       Yemen

Sana’a, dal nostro inviato. C’è uno spettacolo insolito all’incrocio fra Sherre Sittin e Sherre Rabat. I negozi e i ristoranti aperti persino durante la preghiera del venerdì e sovranamente indifferenti ai tumulti delle settimane scorse oggi sono deserti e nascosti dalle imposte di metallo. Il passaparola magico che regola la vita della capitale dello Yemen ha messo in guardia: è in marcia una corteo di protesta, e questa volta sarà differente, questa volta sarà come nelle città a sud di Aden e Taizz, dove da due giorni si contano i primi morti. Si salvi chi può, pure i venditori ambulanti si dileguano. Quasi subito, dall’altro lato del lungo rettilineo, si materializzano i più feroci oppositori dei manifestanti, che non sono gli agenti della polizia, ma i picchiatori a noleggio del presidente Ali Abdullah Saleh. E dietro i picchiatori i fuoristrada che trasportano i kit per trasformare chiunque in un controrivoluzionario fatto e finito su due piedi, le bandiere nazionali da sventolare, i poster con la faccia severa del presidente Ali Abdullah Saleh da innalzare e le mazze da distribuire e adoperare. I veicoli di lusso sono gli stessi che a operazione compiuta portano via in fretta – ma dove? – i capi squadra più importanti. La disoccupazione al 40 per cento ha dato loro un bel mestiere: squadristi a cottimo in favore del regime trentennale del presidente Saleh. Sono una legione compatta di straccioni in età militare, ma c’è pure il teppistello di dieci anni con il bastone e il leone sdentato di sessant’anni che ancora se la cava a menare le mani. Sono la brigata mobile del governo yemenita, senza nulla da perdere, pagata sottobanco per sbrigare l’opera di repressione che invece il governo non può più assolvere senza gettare alle ortiche le apparenze – e le apparenze da salvare sono importanti, c’è in ballo un viaggio del presidente a Washington il prossimo mese, e la settimana scorsa è arrivata la prima tranche di un finanziamento da 70 milioni di dollari contro i terroristi di al Qaida. Sono la versione yemenita dei cammellieri che due settimane fa hanno attaccato a frustate i manifestanti egiziani in piazza al Cairo, ma sono stati più furbi e hanno occupato preventivamente la piazza Tahrir di Sana’a – si chiama così anche qui – per evitare che diventasse il centro simbolico dell’opposizione. Dovunque ci sia una protesta, appaiono loro a spegnerla con la violenza. Questa volta però l’operazione è più difficile. I manifestanti sono una folla, riempiono la strada per più di un chilometro, sono in maggioranza studenti universitari e per un giorno hanno smesso quell’aria che fa quasi tenerezza di chi crede – come gli studenti di tutto il mondo – di essere qualcosa di più e invece è qualcosa di meno. In mezzo a loro c’è chi estrae un’arma e spara in aria tra le grida di entusiasmo degli altri. Per cinque settimane – appena è arrivata la notizia della ribellione tunisina – hanno manifestato pacificamente in giro per Sana’a e sono stati zittiti con le maniere forti. Adesso occupano tutta un’arteria vitale della città e scambiano colpi furiosi con gli avversari. Anche dall’altra parte si ascoltano pochi spari, e sarà così ogni ora durante tutta la durata degli scontri, perché le armi in Yemen circolano liberamente. Ma il grosso si fa a pietrate. Sassi che volano dappertutto, in lunghe parabole arcuate e lente o in tiri diretti e insidiosi, sfondano quello che è stato incautamente lasciato all’aperto e fanno sbandare a turno e più volte i due schieramenti. Lontana, dietro i tifosi del governo, la polizia osserva senza intervenire. E’ come se ci fosse un patto sottile non scritto e la violenza piena fosse per ora trattenuta, perché le conseguenze sarebbero troppo estreme. Per ora, anche se tutti promettono altre giornate di violenza, la rivolta in Yemen impallidisce di fronte a quello che già sta succedendo in Libia, dove i morti negli scontri sono sei, e nel Bahrein. Dalla capitale Manama l’inviato del New York Times, Nicholas Kristof, scrive di un’operazione brutale dell’esercito per sgombrare la centrale piazza delle Perle trasformata in accampamento. I soldati avrebbero giustiziato a sangue freddo con colpi alla testa alcuni manifestanti, avrebbero impedito i soccorsi alle ambulanze e avrebbero bloccato tutti i giornalisti all’aeroporto, per levarsi di torno i testimoni stranieri. La relativa facilità del cambio di regime in Tunisia è stata illusoria. Durante i diciotto giorni dell’Egitto ci sono stati trecento morti, anche se la vastità delle folle in rivolta e la tenacia disarmata di piazza Tahrir hanno fatto passare in secondo piano il sangue. In altri paesi, dove la sicurezza è più aggressiva e il numero dei manifestanti è sparuto, il paradigma della rivoluzione araba sta diventando un altro. Sul contagio arabo incombe non lo spirito dell’89, quando tutti i paesi dell’area sovietica si liberarono quasi assieme del giogo di Mosca, ma piuttosto il ricordo dell’Iraq nel 1991, quando, subito dopo la sconfitta nella guerra del Golfo, gli sciiti tentarono di ribellarsi a Saddam Hussein. Credevano, ma la loro era una percezione errata, che il regime dopo la guerra disastrosa con gli americani fosse più vulnerabile, e credevano che la sollevazione popolare avesse i numeri per farcela. Ma i rapporti di forza non mentono mai e la repressione militare baathista si chiuse su di loro con tutta la spietata efficienza che non aveva mostrato davanti alle divisioni del generale Norman Schwarzkopf. Il senso di marea inevitabile, di un popolo che cresce e con solennità prevale sulle difese del regime, è potentissimo quando c’è. Ma quando non c’è, quando mancano i numeri e i regimi hanno studiato in fretta la lezione di Mubarak e si sono ripromessi di non essere così deboli, cortei di manifestanti e squadre di controrivoluzionari sono intrappolati in un’intifada micidiale.

Il FOGLIO - Carlo Panella : "  Il contagio sfiora Tripoli Ma per ora Gheddafi controlla la protesta"


Carlo Panella                       Libia

Roma. Almeno dieci persone sono morte ieri in Libia nella “Giornata della collera”, la protesta antiregime organizzata dai partiti di opposizione. Secondo quanto riferito da al Jazeera, sei hanno perso la vita a Bengasi e quattro ad Al Beida, sempre in Cirenaica, ma ci sono anche fonti che parlano di venti vittime: il centro della protesta è Bengasi. Ieri il primo corteo è partito dalla zona di al Barka, mentre il secondo da via al Fatah, nel quartiere di al Mujawir, dove i manifestanti hanno assaltato e incendiato una sede del Consiglio rivoluzionario. Le forze di sicurezza sono dovute intervenire anche ad Ajdabya e Zenten per fermare l’assalto a un posto di polizia, al tribunale, alle caserme della guardia popolare e a una sede dei comitati rivoluzionari. La sezione libica dei Fratelli musulmani ha condannato le cariche della polizia contro i manifestanti scesi in piazza a Bengasi e Al Beida. Pochi cortei si sono visti, invece, a Tripoli: uno è partito dal quartiere Suq al Hout e ha raggiunto la zona di al Darih, ma la piazza Verde continua a essere presidiata da manifestanti che inneggiano a Muammar Gheddafi, le cui immagini sono riproposte in continuazione dai telegiornali di stato. La crisi in Cirenaica è il pericolo più consistente per il regime e lo conferma la decisione di oscurare Internet e di bloccare il servizio si sms, come già fece il governo egiziano nei primi giorni della rivolta di piazza Tahrir. Per il momento, Gheddafi non pare intenzionato a far scendere in strada i suoi sostenitori – che non sono pochi – per affrontare i cortei antiregime. La mossa innescherebbe un clima da guerra civile. Questa crisi ha già aperto una spaccatura nel clan del colonnello. Secondo il quotidiano Quirina, che appartiene a un figlio di Gheddafi, Seif al Islam, lunedì ci sarà una riunione urgente del Congresso generale del popolo “per adottare riforme in tema di decentralizzazione e sostituire alcuni ufficiali del governo”. E’ un messaggio abbastanza esplicito al capo del governo, al Baghdadi Ali al Mahmoudi, che capeggia la componente più conservatrice del regime. Alcune voci danno per possibile il ritorno di Abdessalam Jallud, l’inseparabile vice di Gheddafi dal 1969 all’agosto del 1993, quando fu bruscamente allontanato da ogni responsabilità politica. Da allora non si hanno notizie certe sulla sua sorte. Alcuni, lo scorso ottobre, hanno detto che sarebbe rientrato nel governo, la notizia è stata smentita ma oggi riprende a circolare: non si comprende se questo clamoroso rientro avvenga in accordo con Seif al Islam – cosa che pare improbabile – o per dare prestigio, soprattutto nelle Forze armate, all’ala conservatrice. L’evoluzione della crisi libica ripercorre le stesse tappe di quella tunisina e di quella egiziana, con proteste sempre più forti e violente. Qui l’effetto contagio è ancora più rilevante, data la pressione delle forze di polizia e la pervasività dei servizi segreti. Un altro elemento di questa fase è l’apatia dell’Unione europea, del tutto chiara dopo che il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, non ha accolto l’invito del premier italiano, Silvio Berlusconi, che chiedeva una riunione urgente sull’emergenza immigrati. Se dopo la diga tunisina cadrà anche quella che contiene l’emigrazione clandestina in Libia, la situazione del Mediterraneo diventerà ingovernabile. Il commercio di uomini fa parte delle tradizioni dei paesi arabi del Maghreb, che per secoli sono stati l’unica struttura portante del mercato degli schiavi. A duecento anni dalla fine dello schiavismo, quelle stesse carovaniere sono percorse oggi dagli emigrati in arrivo dalle zone di carestia e di povertà, sollecitando questo nuovo “mercato” e fornendogli una nuova struttura. E’ quindi certo che in questi giorni si stiano organizzando nuove carovane dirette le spiagge tunisine, egiziane e libiche. L’Europa rifiuta di prenderne atto, così come rifiuta di elaborare un piano B a fronte del crollo della stabilità dei regimi arabi, che sono punto di forza di tutte le sue strategie per il medio oriente.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Il risveglio dei giovani berberi: Il regime di Algeri cadrà presto "


Lorenzo Cremonesi

I rappresentanti degli studenti si riuniscono di pomeriggio alla facoltà di Agraria per discutere i piani di viaggio. «La scelta di partecipare alla prossima grande manifestazione contro il governo prevista per sabato nel centro di Algeri è stata presa. Il punto è però come arrivarci» , spiega uno di loro, Mourad Lourdani, 27enne quasi laureato che cerca di organizzare gli aspetti logistici. Non è semplice. Sabato scorso l’imponente dispiegamento messo in atto da militari e polizia ha bloccato tutti gli accessi alla capitale per 24 ore e de facto paralizzato la rivolta sul nascere. E adesso, cosa capiterà domani? Riuscirà il cuore forte, fiero, rivoluzionario della Cabilia in lotta a scatenare la sommossa nazionale contro il regime del presidente Abdelaziz Bouteflika? Per capirlo è utile visitare Tizi Ouzou, la capitale della Cabilia berbera, la regione che per storia e tradizione si presenta come la componente più radicale e indipendentista dell’Algeria. «Senza la Cabilia nessun movimento rivoluzionario ha possibilità di successo. I suoi abitanti sono meno di 4 milioni, pochi rispetto agli oltre 36 milioni di algerini. Ma hanno un ruolo fondamentale nell’agenda politica nazionale» , sostengono praticamente all’unisono i giornalisti e intellettuali locali. La questione si pone mentre l’ «effetto domino» scatenato dalle rivolte in Tunisia ed Egitto si sta via via allargando in Medio Oriente. Un mese e mezzo fa sembrava che proprio l’Algeria dovesse restare tra gli apripista. Il 5 gennaio la regione di Tizi Ouzou era in fiamme, scioperi, scontri, coprifuoco e appelli alla rivoluzione. Ma poi la situazione è sembrata in qualche modo congelarsi nello stallo. «Ci vuole tempo. Questo è un Paese diviso, frazionato, fratturato, profondamente ferito dal terrorismo degli anni Novanta, per natura violento e timoroso di ricadere nell’inferno degli orrori di due decenni fa» , sostiene Daho Djerbal, professore di storia contemporanea all’università della capitale e autore di numerosi libri sulle vicende della guerra anti-coloniale. Secondo Omar Belhouchet, ventennale direttore del più importante quotidiano critico del regime, Al Watan, «comunque il vento della rivolta sta soffiando più forte anche da noi. Magari passeranno ancora due o tre mesi, però alla fine il regime di Bouteflika sostenuto dai militari dovrà lasciare il posto a una democrazia aperta» . Tizi Ouzou dista un’ottantina di chilometri dalla capitale. Dieci anni fa era ancora una destinazione tabù. Attentati, rapimenti, sgozzamenti. La campagna, verde, rigogliosa, era stata completamente abbandonata dai contadini. Le squadre di tagliagole del Fronte islamico (Fis) imperversavano. Ieri, nonostante il resto del Paese sia per il momento abbastanza tranquillo, proprio i villaggi di Tadmait, Nassiria, Bordj Mneil, posti tra i 20 e 5 chilometri prima del capoluogo, erano in piena battaglia. Centinaia di poliziotti in tenuta anti-sommossa ne presidiavano gli accessi, dopo che i manifestanti avevano cercato di bloccare la provinciale con pietre e copertoni in fiamme. I vicoli di Tadmait erano invasi dal fumo dei lacrimogeni. Scontri d’intensità minore avvengono quotidianamente anche nel quartiere della facoltà di Agraria. La polizia interviene di tanto in tanto per rimuovere le barricate. Dai megafoni gli studenti diffondono le note di Matoub Lounes, un noto cantautore popolare che metteva in lirica la rabbia contro il governo e ucciso nel 1998. Da chi? I portavoce della polizia sostengono dai «terroristi islamici» . Ma per i manifestanti e gli studenti «eliminato dagli agenti dei servizi segreti» . Una strofa sembra composta ieri: «Non possiamo aspettare. Questo sistema non ci lascia speranze» . Ai lati delle strade, un po’ dovunque, decine, centinaia, migliaia di giovani ascoltano. Quasi tutti fumano, appoggiati ai muri. Li chiamano gli «hittisti» , letteralmente i «sostenitori di muri» . Sono i disoccupati permanenti. Su di loro sono stati scritti poesie, romanzi, articoli sui giornali. «Nel 1962, al tempo dell’indipendenza dalla Francia, eravamo meno di sei milioni. In mezzo secolo ci siamo più che quintuplicati. Il 75%degli algerini ha meno di 25 anni, in maggioranza disoccupati, privi d’identità collettiva: una massa di manovra facile preda dei totalitarismi di ogni tipo, come insegna la storia europea della prima metà del Novecento» , avverte Djerbal. Anche Idir Benyounes, direttore del quotidiano locale La Depeche de Kabylie, considera i giovani l’elemento chiave, specie quelli della Cabilia. «Qui abbiamo resistito contro l’Impero romano, sconfitto gli arabi, gli ottomani, non ci siamo lasciati islamizzare, abbiamo mantenuto la nostra lingua, siamo stati al cuore della lotta anti-francese. Nelle rivolte del 1980 abbiamo avuto quasi 600 morti, 126 in quelle del 2001. Se Bouteflika vuole salvare il regime è a loro che deve parlare, subito. Ma forse è già troppo tardi».

La STAMPA - Marina Verna : "Bahrein, 4 morti nel blitz in piazza "


Marina Verna            Bahrein

Assalto all’alba delle forze di sicurezza del Bahrein contro un accampamento di fortuna, allestito nel centro della capitale Manama dai dimostranti che da martedì protestano contro il regime assolutistico del piccolo emirato del Golfo e contro la concentrazione del potere nelle mani dell’élite sunnita a danno della maggioranza sciita. Bilancio: tre morti, 195 feriti e una sessantina di persone disperse, forse arrestate, forse scappate. I manifestanti, sciiti che rappresentano il 70 per cento della popolazione del Bahrein, chiedevano una «nuova costituzione» che garantisse loro una maggiore rappresentanza sulla scena politica, dominata dalla minoranza sunnita legata alla casa regnante dei Khalifa, al potere da oltre due secoli.

Il tentativo di trasformare la Piazza della Perla in una nuova piazza Tahir è dunque fallito dopo tre giorni: le ruspe hanno spazzato via le tende, i camion hanno portato via le auto con cui erano state formate barricate difensive e cinquanta blindati si sono piazzati agli accessi, mentre gli elicotteri dell’esercito incrociavano in cielo.

Secondo testimoni oculari, confermati da Mohammed alMasqati, presidente dell’Associazione della Gioventù per i Diritti Umani, gli agenti, in assetto anti-sommossa, hanno cominciato il blitz lanciando gas lacrimogeni, poi sono passati ai proiettili in gomma e infine hanno esploso pallottole vere. E quando i contestatori si sono dati alla fuga, hanno chiuso tutti gli accessi alla piazza, mentre il resto delle truppe venivano dispiegate in tutta la città e unità speciali delle forze dell’ordine erigevano posti di blocco lungo le strade principali.

Dopo questo durissimo intervento, l’esercito ha annunciato che adotterà «tutte le misure rigorose e i deterrenti necessari» per «garantire la sicurezza dei cittadini e degli abitanti, la stabilità e l’ordine pubblico», «vigilare sul mantenimento della libertà» e «difendere le proprietà».

La tv del Bahrein ha accusato i manifestanti di violenza, dipingendoli come sostenitori di Hezbollah. Il partito al-Wefaq, la coalizione sciita all’opposizione che occupa 18 dei 40 seggi dell'assemblea, ha chiesto le dimissioni del governo e annunciato che in segno di protesta abbandonerà il parlamento. In serata a Manama c’è stata una riunione di emergenza tra i ministri degli Esteri dei Paesi del Golfo Persico.

Da Washignton il presidente Obama ha fatto sapere che «gli Stati Uniti si oppongono all'uso della violenza da parte del governo del Bahrein» e sono contrari a «qualsiasi misura di repressione nei confronti dei manifestanti pacifici». Hillary Clinton ha invece esortato le autorità del Bahrein ad «assicurare alla giustizia» i responsabili delle violenze contro i manifestanti.

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