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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
15.02.2011 Egitto, la sua trasformazione in democrazia deve essere lenta
e non è detto che significhi pace e stabilità. Commenti di Angelo Panebianco, Redazione del Foglio

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Angelo Panebianco - Redazione del Foglio
Titolo: «Problema: che cosa succede se la protesta arriva anche a Gaza? - In Egitto i generali provano di nuovo la strada del riformismo»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di ogi, 15/02/2011, a pag. 1-42, l'editoriale di Angelo Panebianco dal titolo "La loro libertà, le nostre paure". Dal FOGLIO, a pag. 3, gli articoli titolati "  In Egitto i generali provano di nuovo la strada del riformismo " e "Problema: che cosa succede se la protesta arriva anche a Gaza? ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Angelo Panebianco : " La loro libertà, le nostre paure"


Angelo Panebianco

Ha osservato giustamente Sergio Romano (Corriere, 13 febbraio) quanto sia paradossale il fatto che gli occidentali, gioendo per la cacciata di Mubarak, si siano trovati ad applaudire un colpo di Stato militare. Ma non è il solo paradosso. C’è anche una particolare circostanza, al tempo stesso ironica e tragica (e anche, in qualche misura, «scandalosa» ), che spiega l’atteggiamento ambivalente degli occidentali verso le rivoluzioni mediorientali, e che può essere così riassunta: come possiamo toglierci dalla testa il «cattivo pensiero» secondo cui, nel complicato contesto mediorientale, dittature corrotte e repressive siano state comunque una garanzia di pace, sia pure precaria, e che la (eventuale) democratizzazione di quei regimi, egiziano in testa, possa sfociare nella guerra? Da un lato, come si può non solidarizzare con le persone, per esempio con quei tanti ragazzi, scese coraggiosamente in piazza per chiedere libertà? Abbiamo fatto benissimo a solidarizzare con loro. Se non lo avessimo fatto, avremmo mostrato di non credere nei valori di libertà in cui diciamo di credere. E, inoltre, come indicano anche le notizie degli scontri in corso in Iran, il contagio democratico potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) riaprire i giochi perfino nel più pericoloso Stato teocratico. Dall’altro lato, come è possibile incanalare i processi in corso in modo che i cambiamenti di regime non siano il detonatore di nuove guerre? Tra le cose che sappiamo sulle democrazie c’è il fatto che, una volta che si siano stabilizzate, difficilmente si faranno la guerra fra loro. Non è che siano sempre più pacifiche dei regimi autoritari. Sappiamo solo che raramente le democrazie stabili si aggrediscono. Da qui l’idea, visionaria e utopica, secondo cui in un mondo composto esclusivamente di democrazie stabili, la guerra scomparirebbe. Si badi che questa idea non è rimasta relegata nel chiuso delle discussioni accademiche. Ha ispirato anche l’azione di diversi presidenti americani, da Woodrow Wilson a Ronald Reagan, da Bill Clinton a George Bush jr. Se la democrazia liberale, o qualcosa che vi si avvicini, prevarrà nel mondo islamico, pensavano, ad esempio, i neoconservatori raccolti intorno a Bush, la regione verrà pacificata, non ci saranno più attentati come quello dell’ 11 settembre, e persino la pace fra Israele, palestinesi e mondo arabo diventerà possibile. Le cose sono però più complicate. Ci sono due precisazioni da fare. La prima è che se le democrazie stabili tendono ad instaurare fra loro rapporti pacifici, la regola non vale per i regimi in transizione verso la democrazia. Anzi, esistono prove del fatto che i regimi in via di democratizzazione possano essere particolarmente aggressivi anche verso i vicini democratici. Fin quando la democrazia non si stabilizzerà, è alto il rischio che le neo-élite uscite dalle prime libere elezioni incanalino verso un nemico esterno le tensioni che sempre accompagnano i cambiamenti di regime. Croazia e Serbia erano Paesi in via di democratizzazione all’epoca delle loro guerre. La seconda precisazione è che i processi di democratizzazione non sfociano necessariamente in democrazie liberali. Spesso generano democrazie illiberali, regimi ibridi che mettono insieme istituti liberali (elezioni più o meno libere) e istituti illiberali (regole emergenziali finalizzate alla repressione degli oppositori). Una democrazia illiberale può essere estremamente aggressiva verso l’esterno, più aggressiva di certi regimi puramente autoritari. Se applichiamo al contesto egiziano queste considerazioni, possiamo constatarne la rilevanza. I militari si sono affrettati a rassicurare il mondo sul mantenimento del trattato di pace con Israele. Ma come possono garantire che questa condizione permarrà anche dopo libere elezioni, dopo l’installazione di un governo democratico in un Paese ove, come in tutte le piazze arabe, l’ostilità per Israele è radicata da decenni nel popolo? Tra l’altro, i trattati di pace, pur formalmente in vigore, possono essere abrogati di fatto: ad esempio, un governo democratico, che dovrà comunque fare i conti con una forte presenza parlamentare dei Fratelli musulmani, continuerà, come la dittatura di Mubarak, a collaborare con Israele nel contrasto alle azioni belliche di Hamas a Gaza? È lecito dubitarne. Si consideri un altro aspetto. La dittatura egiziana ha goduto per decenni dell’appoggio americano ed europeo. Nonostante Obama e gli altri occidentali si siano alla fine sganciati da Mubarak, il ricordo di quell’appoggio non può essere facilmente cancellato dalle menti degli egiziani. I leader che andranno a cercarne il voto in libere elezioni dovranno tenerne conto. È possibile, se non probabile, che la democratizzazione si accompagni, almeno all’inizio, a una forte affermazione di correnti antioccidentali e antiisraeliane. Con conseguenze geo-politiche facili da immaginare. Si deve dunque sperare nella lungimiranza dei militari egiziani? In realtà, bisogna sperare nella gradualità dei processi in corso. Ad esempio, abbiamo ormai scoperto (anche grazie alle vicende afghane e irachene) che le elezioni libere devono essere il coronamento del processo di democratizzazione, il punto di arrivo, non di partenza. Prima, bisogna consolidare le istituzioni in grado di limitare i poteri del governo (corti costituzionali e altri contrappesi) nonché togliere gli infiniti vincoli, legali e burocratici, che gravano sulle libertà personali degli individui. Solo dopo il completamento di questo laborioso percorso, si potrà ragionevolmente sperare che libere elezioni non sfocino in democrazie illiberali, minacciose per i cittadini e per la pace. Hanno ragione coloro che sostengono che la democrazia possa benissimo conciliarsi con la religione musulmana (come provano diversi regimi democratici esistenti nel mondo islamico) e che, anche in quel mondo, la democrazia, se ben consolidata, sia in grado di tenere a bada i fanatici. Ma il percorso che porta alla stabilizzazione delle democrazie, e al godimento dei loro buoni frutti, è lungo, accidentato e costellato di pericoli. La consapevolezza di ciò spiega l’ambivalenza occidentale.

Il FOGLIO - " Problema: che cosa succede se la protesta arriva anche a Gaza?"


Hamas

Gerusalemme. La protesta non si è ancora spenta in Egitto, ma le conseguenze del cambio di regime ai danni di Hosni Mubarak si fanno già sentire nei Territori palestinesi e scuotono sia la leadership dell’Autorità nazionale sia gli estremisti di Hamas. Ieri il premier Salam Fayyad ha rimesso il mandato nelle mani del presidente Abu Mazen, il quale l’ha subito incaricato di formare un nuovo governo. Da Ramallah, il portavoce dell’esecutivo nega che il rimpasto sia collegato alle proteste egiziane, ma i dubbi in proposito sono molti. Spesso accusata di corruzione e scarsa legittimità popolare, al pari del regime di Hosni Mubarak, l’Anp è stata tra le prime leadership arabe, assieme a quella giordana, a reagire alle richieste di riforme. Abu Mazen ha indetto le elezioni locali ancor prima delle dimissioni del rais egiziano, poi ha annunciato che i palestinesi andranno al voto “entro settembre” per scegliere i membri del Parlamento e il nuovo presidente. Le elezioni sono state rimandate un anno fa per la situazione nella Striscia di Gaza, dove Hamas governa con la forza dal 2007. La decisione di andare alle urne ha spiazzato gli islamisti, che hanno già rifiutato di partecipare al voto. Sulla carta, Hamas ha tutto da guadagnare dalla sollevazione egiziana. Difficilmente sarà mantenuta l’intransigenza di Mubarak, che dava la caccia agli uomini del movimento nel Sinai e, assieme a Israele, imponeva l’embargo su Gaza: chiunque prenda il potere al Cairo nei prossimi mesi dovrà fare i conti con le simpatie popolari per i palestinesi e con l’ascesa dei Fratelli musulmani, salutata con favore a Gaza. Hamas ha già beneficiato dell’anarchia che ha accompagnato la caduta del regime egiziano. Diversi terroristi sono fuggiti dalle carceri del Cairo e sono tornati nella Striscia; nei giorni della rivolta, i tunnel usati da Hamas per rifornire la Striscia di armi e provviste hanno ripreso a funzionare a pieno regime. Hamas deve però guardarsi dal pericolo di un contagio interno della voglia di libertà e democrazia: i giovani di Gaza hanno già cominciato a organizzarsi su Facebook, creando pagine che inneggiano al “cambiamento” e invitano la popolazione a scendere in piazza. Tuttavia è improbabile che i festeggiamenti per la caduta di Mubarak, che hanno coinvolto migliaia di palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania governata da Abu Mazen, si trasformino in un movimento di rivolta. Ma, preparandosi alle elezioni, l’Anp ha saputo comunque giocare d’anticipo e ha rivelato quanto Hamas sia debole e impopolare, spiega Hillel Frisch, ricercatore del centro di studi strategici dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv. “L’Anp ha mostrato di essere democratica e vitale – dice al Foglio l’analista – Hamas ha una sola ragione per rifiutare le elezioni: ha paura di perdere”. Ma l’ipotesi di nuove elezioni è importante per un altro motivo. Se Hamas rifiuterà di allargare le consultazioni a Gaza, a votare saranno soltanto i cittadini della Cisgiordania. Agli occhi dell’opinione pubblica, a quel punto, Ramallah rappresenterebbe il nuovo stato palestinese. L’operazione isolerebbe ancora di più la Striscia: potrebbe scattare così una caccia all’uomo, come già avvenne durante il golpe di Hamas e più di recente durante l’operazione Piombo fuso dell’esercito israeliano. Lo stallo nelle trattative con Gerusalemme è l’altro grande motore dei cambiamenti nelle gerarchie palestinesi. La scorsa settimana si è dimesso il capo negoziatore, Saeb Erekat, travolto dalle rivelazioni di Jazeera: secondo il network arabo, gli uomini di Abu Mazen erano vicini al compromesso sulla divisione di Gerusalemme e sul problema dei profughi.

Il FOGLIO - "  In Egitto i generali provano di nuovo la strada del riformismo"


Hussein Tantawi

Roma. Soltanto in un paese arabo poteva accadere che un movimento popolare rovesciasse un regime e affidasse il successo al feldmaresciallo Hussein Tantawi (75 anni) e al tenente generale Sami Hafez Enan (65). L’anomalia egiziana rimanda al ruolo che i militari hanno avuto nelle società islamiche a partire dall’Ottocento, quando tentarono di frenare il declino dell’Impero ottomano e di portare la modernità nelle capitali del medio oriente. Il motivo di questa spinta riformista ha radici profonde. Nel mondo islamico, lo sviluppo scientifico si è fermato nel XIII secolo, rendendo impossibile la competizione militare con le potenze europee. I militari si resero conto di dovere “importare occidente”, a partire dalla tecnologia, per arrivare poi alle riforme sociali e politiche. Il primo modernizzatore dell’Egitto fu il generale albanese Mehemet Ali (1805-1849), mentre i Giovani turchi, alla fine dell’Ottocento, riuscirono a trasformare l’esercito grazie alla scienza prussiana (e alla massoneria europea). Fu un generale, Mustafa Kemal Atatürk, a salvare la Turchia occupata dall’esercito greco nel 1920: la sua ideologia modernista e laica gettò le basi per lo sviluppo economico che caratterizza ancora oggi il paese. Sulla scia di Atatürk, molti generali hanno tentato di replicare il modello turco in ogni paese arabo e islamico, senza mai riuscirvi. Il più grande fallimento fu proprio quello di Gamal Abdel Nasser, che salì al potere nel ’52 con un putsch. Nasser fu il rais delle adunate oceaniche, della piazza araba infiammata grazia ai discorsi trasmessi via radio, della distruzione di Israele e del panarabismo. Già allora, i militari erano la classe dirigente, come spiegò Anouar Abdel Malek nel 1962 nel suo libro “La societé militaire”. Con Nasser, diceva Malek, “lo stato, padrone delle acque, si piazza al centro della vita economica di cui possiede l’essenziale: l’esercito, struttura centrale dell’apparato statale, clava e scudo, fa parte integrante della struttura e dell’attività economica e sociale ed è anche elemento costitutivo dell’avanguardia nazionale”. I generali egiziani divennero il fulcro di un’ideologia panaraba che aveva connotati socialisti: dopo che Nasser ruppe con gli Stati Uniti per stringere un’alleanza con l’Unione sovietica, i cadetti furono inviati nelle accademie militari russe. Il risultato fu disastroso: dalle guerre perse contro Israele nel ’56 e nel ’67 all’economia semidistrutta, passando per il fallimento del panarabismo. I successori di Nasser, Anwar el Sadat e Hosni Mubarak, hanno tentato per 41 anni di riparare quei disastri, mantenendo i generali alla guida delle riforme economiche, ma mai politiche. Nel luglio del ’71, Sadat espulse i consiglieri militari sovietici per impedire che la successiva guerra con Israele fosse eterodiretta da Mosca. Da allora, gli ufficiali egiziani si formano a West Point, sui principi democratici dell’esercito americano, e i generali sono soci delle principali imprese economiche. Eppure, piazza Tharir dimostra di avere ancora fiducia nei militari. Perché? La risposta più credibile è nell’assenza di partiti affidabili, che dipende anche della desertificazione culturale operata negli anni di Nasser e proseguita da Mubarak. Ma non bisogna sottovalutare il ruolo che i generali sono riusciti a garantirsi. Nonostante abbiano permesso a lungo la sopravvivenza del regime, nelle ultime settimane hanno rifiutato di sparare contro i manifestanti. Il rispetto che Tantawi e Enan devono a piazza Tharir e l’apertura alla democrazia degli ufficiali addestrati in America sono le uniche speranze per un rapporto di forza virtuoso che trasformi la fase di transizione in una vera democrazia.

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