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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-IlSole24Ore Rassegna Stampa
12.02.2011 Egitto: Obama, più che 'intelligence' si direbbe 'stupidity'
gli articoli di Maurizio Molinari, Christian Rocca

Testata:La Stampa-IlSole24Ore
Autore: Maurizio Molinari, Christian Rocca
Titolo: «Gaffes e troppi fiaschi, l'intelligence americana finisce sulla graticola-Al Cairo ha trionfato lo spirito di Luther King- Obama e il nuovo rebus d'Egitto»

Egitto-America, sulla STAMPA di oggi, 12/02/2011, a pag.5, due articoli di Maurizio Molinari sulla diplomazia americana, sul SOLE24ORE l'analisi di Christian Rocca a pag.14.
Ma se Obama, quindi gli Usa, sono sul punto di perdere l'Egitto, se già non l'hanno perduto, si può chiamare successo una sconfitta ? L'Iran non ha insegnato niente ?

La Stampa-Maurizio Molinari: " Gaffes e troppi fiaschi, l'intelligence americana finisce sulla graticola "


James Clapper,                      Leon Panetta

L’ amministrazione Obama smentisce il direttore nazionale dell’intelligence, il capo della Cia fa previsioni errate e il Congresso contesta agli 007 di aver compreso tardi e male quanto stava maturando in Nordafrica: la crisi egiziana fa vacillare la fiducia del pubblico nei capi dei servizi segreti americani.

L’episodio che fotografa le fibrillazioni in atto ha come protagonista James Clapper, direttore nazionale dell’intelligence ovvero il capo delle 16 agenzie di 007 degli Stati Uniti. Chiamato a deporre a Capitol Hill durante un’audizione sulla sicurezza nazionale viene bersagliato dalle domande sull’identità dei Fratelli Musulmani egiziani. E lui risponde: «Il termine Fratelli Musulmani indica una sigla-ombrello che racchiude più movimenti e nel caso dell’Egitto si tratta di un gruppo molto eterogeneo, in gran parte laico, che rifugge dalla violenza ed ha definito Al Qaeda una perversione dell’Islam».

Molti senatori lo incalzano. «Sono parole che contrastano con recenti dichiarazioni dei leader dei Fratelli Musulmani che invocano il dominio dell’Islam sul mondo, odiano l’America e preannunciano guerra a Israele» ribatte Mark Kirk, repubblicano dell’Illinois. L’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee irride il capo degli 007: «I Fratelli Musulmani sono laici quanto il Papa».

I maggiori network, blogger e siti di quotidiani rilanciano la frase di Clapper creando un imbarazzo che spinge l’amministrazione Obama a intervenire. È un comunicato della direzione dell’intelligence a smentire il suo capo: «Intendeva dire che i Fratelli Musulmani hanno fatto sforzi per operare nel sistema politico creato da Mubarak, che è in gran parte laico, ma il direttore è ben conscio che i Fratelli Musulmani non sono laici».

Allo scivolone di Clapper bisogna aggiungere il passo falso di Leon Panetta, capo della Cia, che intervenendo alla stessa audizione aveva detto che Mubarak si sarebbe dimesso giovedì sera - cosa non avvenuta - citando «fonti di stampa».

Il risultato è stato di confermare il sospetto che l’intelligence abbia avuto una gestione insufficiente della crisi ma quando è stato chiesto a Clapper quale voto dava alle analisi fornite al presidente per formulare le sue scelte, la risposta è stata «B+ o forse A-» in una scala dove A e B sono i voti più alti.

Leon Panetta, il 21˚ direttore della Cia, ha tentato di dargli manforte spiegando che «nell’ultimo anno abbiamo confezionato oltre 400 rapporti sull’instabilità della regione» ma ciò ha offerto a più senatori la possibilità di chiedere se era «su questi rapporti che Hillary Clinton due settimane fa si è basata per affermare che il governo di Mubarak era stabile».

A suggerire una chiave di lettura della debolezza dell’intelligence sui Paesi arabi è David Ignatius - un veterano di Medio Oriente - dalle colonne del «Washington Post» spiegando che «si tratta di nazioni dove il capostazione della Cia in genere si limita a raccogliere le informazioni che gli danno i pari grado locali, che non hanno interesse a fargli conoscere i malumori popolari preferendo parlargli di lotta al terrorismo».

La Stampa-Maurizio Molinari: " Al Cairo ha trionfato lo spirito di Luther King"

«In Egitto ha vinto la forza morale della non violenza»: Barack Obama parla dal Grand Foyer della Casa Bianca per tendere la mano da «partner e alleato» alle «nuove generazioni» e all’«esercito patriottico» protagonisti di una rivoluzione che evoca in America i valori di Martin Luther King.

Reduce dalla difficile giornata precedente, quando aveva atteso invano le dimissioni del Raiss, il Presidente americano ha reagito nella notte fra giovedì e venerdì con un consiglio di sicurezza nazionale concluso con un brusco messaggio a Mubarak: un comunicato di 467 parole che non nominandolo mai attestava l’aperto sostegno ai manifestanti svelando l’impazienza per le dimissioni. Il brusco messaggio era diretto anzitutto ai militari egiziani, sui quali sin dall’inizio della crisi Obama ha puntato per innescare la transizione. Quando la conferma delle dimissioni è arrivata Obama era nello Studio Ovale a discutere proprio di Egitto; è uscito per vedere in tv le immagini di Piazza Tahrir in festa e ha quindi iniziato a redigere il testo del messaggio di sette minuti al popolo egiziano. Scegliendo di pronunciarlo in maniera solenne, dall’entrata della Casa Bianca, per suggellare il fatto di essere «testimoni della storia». «Il popolo egiziano ha parlato, la sua voce è stata ascoltata e l’Egitto non sarà più lo stesso» esordisce, definendo le dimissioni di Mubarak «la risposta alla fame di cambiamento del suo popolo» per precisare: «Non è la fine della transizione ma l’inizio» e «vi saranno difficoltà perché molte domande aspettano risposte».

L’intento è rivolgersi ai protagonisti della rivoluzione: «Gli egiziani ci ispirano perché hanno fatto la storia rinunciando all’idea che la giustizia si può ottenere meglio attraverso la violenza» facendo prevalere la «forza morale della non violenza, e non quella del terrorismo». Se ciò è potuto avvenire per Obama il merito è «dei giovani sulla piazza Tahrir che gridavano “Salmia”, siamo pacifici» come delle forze armate «che non hanno sparato pallottole contro il popolo». Riferimenti, plauso e omaggi ai militari confermano che Obama vede nei generali gli artefici della svolta e i garanti di una «transizione credibile». È il patto non violento fra esercito e militari la ricetta nella quale Obama identifica la vittoria della rivoluzione, paragonandola per questo ai precedenti della caduta del Muro di Berlino nel 1989, della fine delle dittatura di Suharto in Indonesia nel 1998 e soprattutto dell’eredità di Martin Luther King, il protagonista della lotta alla segregazione convinto che «la storia tende verso la giustizia».

Guardando alla transizione che incomincia, Obama chiede ai militari al comando dell’Egitto di «continuare a farsi garanti» del rispetto dei diritti umani, suggerendo la necessità di «porre fine alle leggi di emergenza» in vigore da tre decadi e di varare le «riforme della Costituzione» necessarie per far svolgere «elezioni libere e giuste» per la presidenza «con il più ampio coinvolgimento» di tutte le forze in campo, inclusi i Fratelli Musulmani. In questo cammino, ancora tutto da definire, Obama promette che l’America continuerà a essere «amico e alleato» dell’Egitto e a conferma di questo il Dipartimento di Stato è all’opera per varare un consistente pacchetto di aiuti economici alla transizione. Ma c’è dell’altro e a dirlo è Robert Gibbs, il portavoce giunto all’ultimo briefing prima di lasciare la Casa Bianca: «Mi chiedo come reagiranno i leader iraniani alle immagini del Cairo, guidano una nazione dove le dimostrazioni sono proibite e Internet è ostacolato». La scommessa dunque è sull’effetto-domino per la democrazia in Medio Oriente.

IlSole24Ore-Christian Rocca:" Obama e il nuovo rebus d'Egitto"


Usa, una alleanza pericolosa

Il presidente Barack Obama è travolto da critiche internazionali per la gestione della crisi egiziana, nonostante sia riuscito a ottenere, sia pure con un giorno di ritardo, le dimissioni di Hosni Mubarak da capo dello Stato. Non è poco. Quella del Cairo è una rivolta “made in Egypt”. Una rivoluzione, come la chiama al Jazeera, che ha colto di sorpresa non solo la sempre più improbabile Cia, ma anche l'esercito egiziano e i Fratelli musulmani. Nell'era dell'informazione istantanea però non basta. Obama è chiamato a risolvere la questione alla velocità di un sms. C'è chi lo accusa di non spingere abbastanza per il cambiamento e chi invece di manovrare in modo irresponsabile per la rapida dissoluzione del regime. Il punto di domanda è sul dopo. I militari riusciranno ad amministrare una transizione verso la democrazia? La piazza si accontenterà dell'uscita di scena di Mubarak? I Fratelli musulmani conquisteranno la società, le istituzioni e il futuro degli egiziani?

Il timore è che Obama sia sul punto di perdere l'Egitto, uno dei paesi chiave dell'equilibrio invero instabile del Medio Oriente. Analisti ed editorialisti di qua e di là dell'Oceano hanno la soluzione a portata di mano, ma i polsi tremerebbero anche a loro se in questo momento si trovassero alla Casa Bianca.

I dubbi, i passi falsi, le contraddizioni della linea americana espressa in queste due settimane di rivolta mediorientale sono fisiologici, prevedibili, forse anche inevitabili, ma confermano l'impreparazione e le divisioni del team di sicurezza nazionale obamiano. Gli uomini della Casa Bianca spingono per la democratizzazione. Il Dipartimento di Stato di Hillary Clinton è più cauto. Il Pentagono ha un rapporto privilegiato con i militari. La sintesi non si è ancora trovata, ma non è una situazione molto diversa da quella vissuta negli anni delle battaglie intestine dell'Amministrazione Bush.

Obama prova a soddisfare la richiesta di libertà proveniente dalla piazza e a sostenere l'unica istituzione credibile del paese, quell'esercito che da 40 anni è il pilastro della società egiziana. Il rischio è di scontentare sia l'opposizione sia il regime. Se l'America si schiera con lo status quo si gioca il futuro nella regione; se abbandona il suo «son of a bitch», come Franklin Delano Roosevelt definiva i dittatori amici degli Stati Uniti, resta con un «son of a bitch» ma non più «suo».

Nel giro di pochi giorni Obama, Hillary Clinton, Joe Biden, l'inviato speciale in Egitto e i vertici dei servizi segreti hanno detto che il regime era stabile, che Mubarak non era un dittatore, che il raìs doveva andarsene subito, che l'esercito avrebbe dovuto gestire la transizione, che i militari avrebbero dovuto coinvolgere le opposizioni, che i Fratelli musulmani sono un'organizzazione laica, che le dimissioni di Mubarak sono un passo importante verso la democrazia, in una girandola surreale di dichiarazioni.
Secondo l'editorialista David Ignatius del Washington Post, questa è la parodia di una politica realista e pragmatica. I più autorevoli centri studi di Washington – Brookings e Carnegie – consigliano al presidente di scaricare il regime (che tale resta anche senza la famiglia Mubarak) e di scommettere sulle opposizioni. I fronti politici si sono ribaltati. Chi negli anni di Bush si riempiva la bocca di “freedom agenda”, di promozione della democrazia, oggi invoca cautela e Realpolitik. Chi considerava quella politica sciagurata, ora spiega che la libertà e la democrazia sono l'aspirazione più alta di ogni popolo.

Tuttavia Obama ha molti strumenti a disposizione per contare in Egitto, a cominciare dal rapporto stretto con l'esercito e dal versamento di quasi un miliardo e mezzo di dollari l'anno tra aiuti militari ed economici. Si dovrà occupare di scongiurare la deriva islamista e di promuovere una transizione democratica ordinata, magari applicando all'Egitto l'antica dottrina Truman che nel secondo dopoguerra impegnò l'America a difendere le nuove nazioni democratiche. Sul Washington Post, Charles Krauthammer ha ricordato che per decenni gli Stati Uniti hanno usato ogni strumento a loro disposizione, coperto o palese, finanziario o diplomatico, legale e a volte perfino illegale, per aiutare i partiti democratici a tenere i comunisti lontani dal potere. Sarebbe perfettamente coerente e liberale replicare quel modello nei confronti di quei nuovi partiti totalitari, dai Fratelli musulmani ad Hamas a Hezbollah, che minacciano di seguire il principio antidemocratico di «una testa, un voto, una sola volta».

Chi legge banalmente i fatti egiziani come la prova del declino americano fa male i conti. Obama affronta le crisi internazionali sempre allo stesso modo. Per formazione personale e politica comincia da amministratore del declino americano, salvo poi ricredersi, cambiare rotta e tornare a guidare il mondo come spetta al presidente dell'unica superpotenza mondiale. Siamo entrati nell'era del G-Zero, scrivono gli economisti Nouriel Roubini e Ian Bremmer, ma quando il gioco si fa duro la mancanza di leadership internazionale costringe anche il più riluttante dei presidenti americani a riesumare il G-1 e a ripristinare l'ordine.

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