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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
10.02.2011 Egitto, due analisi troppo ottimiste
Thomas Friedman e Reuel Marc Gerecht sottovalutano il pericolo Fratelli Musulmani

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Thomas Friedman - La redazione del Foglio
Titolo: «La rivincita del popolo d'Egitto - Se islam e democrazia si sposano, i dittatori sono finiti»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/02/2011, a pag. 32, l'articolo di Thomas Friedman dal titolo "La rivincita del popolo d'Egitto". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Se islam e democrazia si sposano, i dittatori sono finiti ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

La REPUBBLICA - Thomas Friedman : "La rivincita del popolo d'Egitto"

Thomas Friedman descrive la piazza egiziana, ma dimentica una delle sue componenti fondamentali, i Fratelli Musulmani. Secondo Friedman sono estranei a questa situazione.
Friedman scrive che la popolazione non è ostile a Israele, ma solo a Mubarak. Sarà anche vero, ma il problema è chi prenderà il posto di Mubarak, non gli umori della massa nei riguardi di uno Stato limitrofo.
E i Fratelli Musulmani sono pro Hamas.
Per maggiori informazioni sui Fratelli Musulmani e il loro livello di consenso tra la popolazione egiziana, cliccare sul link sottostante

http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=38465
Ecco l'articolo:


Thomas Friedman

Mi trovo in piazza Tahrir, e tra i tanti spettacoli sorprendenti che si vedono qui sono soprattutto colpito da un uomo barbuto che saltella qua e là e si sgola letteralmente urlando: «Mi sento libero! Mi sento libero!». Intorno a lui si è radunata gente di ogni età - comprese alcune donne velate dalla testa ai piedi, tranne due fessure pergli occhi - che coi telefonini alzati riprendono con foto e video l'uomo determinato a catturare quest'attimo, per il caso che non si ripresenti più. Ma non è forse questo lo stato d'animo di tutti noi? Da 40 anni scrivo sul Medio Oriente, ma non ho mai visto nulla di paragonabile a ciò che accade su questa piazza. In una regione in cui la verità (insieme a chiunque abbia osato esprimerla) è stata così a lungo soffocata sotto il peso schiacciante del petrolio, dell'autocrazia e dell'oscurantismo religioso, si è aperto all'improvviso uno spazio autenticamente libero, ad opera degli stessi egiziani e non per mano di eserciti stranieri. Girovagando per questa piazza si è testimoni di tutte le speranze, aspirazioni e frustrazioni represse per mezzo secolo. So bene che secondo gli «esperti» realisti tutto questo è destinato a finire presto. Forse hanno ragione. Ma per un breve e luminoso momento dimentichiamo gli esperti e prestiamo attenzione solo a queste voci mai sentite prima. Quelle di un popolo per tanto tempo condannato al mutismo, che finalmente ritrova l'uso della parola, mette alla prova la propria voce e la celebra. Un ingegnere 50enne, Hosam IChalaf, mi ferma per dirmi: «Abbiamo ricevuto un messaggio da Tunisi che dice: "Non vi bruciate, bruciatela paura che invoi". Ecco cos'è successo qui: la nostra era una società impaurita, ma ora abbiamo bruciato la paura». Khalafmi spiega perché è venuto qui con sua moglie e sua figlia: «Quando incontreremo Dio potremo almeno dire: "Abbiamo tentato di fare qualcosa"». Ma qui non stiamo assistendo a un evento religioso, e a gestirlo non sono i Fratelli Musulmani. Quello che è in atto è un evento egiziano: qui sta la sua forza, ma anche la sua debolezza. Nessuno ha un incarico preciso, e su questa piazza è presente la società intera: si vedono ragazze emancipate vestite all'ultima moda, sedute accanto a donne velate; genitori con bimbi in carrozzina e in mano cartelli conia scritta: «Mubarak se ne deve andare»; studenti in jeans e contadini con lunghe vesti. A unirli è il desiderio indomabile di riprendersi il futuro. «Per la prima volta nella mia vita riesco a dire in pubblico quello che penso», dice Remon Shenoda, ingegnere informatico. «Qui siamo tutti accomunati dal desiderio di dire qualcosa». È diffusa e palpabile anche la forte sensazione di essere stati defraudati da questo regime e dai suoi sodali, che oltre a sottrarre ricchezza a questo popolo lo hanno privato di qualcosa di molto più prezioso: il futuro di un'intera generazione, alla quale il potere non ha saputo dare né gli strumenti per crescere e affermarsi, né una visione ispiratrice degna della grande civiltà egiziana. «Noi tutti crediamo nella grandezza di questo Paese, che ha profonde radici nella Storia; ma il regime di Mubarak ha distrutto la nostra dignità di egiziani nel mondo arabo e ovunque» dice Mohamed Serag, docente all'università del Cairo. Qui tutti tengono a presentarsi indicando il proprio nome, e si assicurano che sia scritto correttamente. Sì, la paura è davvero svanita. Ovunque si esprime il malcontento. Un'anziana velata parla delle tre figlie diplomate presso un istituto commerciale, tutte disoccupate. Molti cartelli fanno riferimento al passato di Mubarak, già ufficiale delle forze aeree, con domande del tipo: «Signor pilota, dove li hai presi quei 17 miliardi di dollari?» Non si fa quasi cenno a Israele, e le foto dei «martiri» esposte tutt'intorno alla piazza — cosa davvero inconsueta nel mondo arabo - sono quelle degli egiziani morti lottando per la libertà, e non contro lo Stato ebraico. Si accede alla piazza dopo una serie di controlli: un gruppo di volontari verifica le carte d'identità, un altro gruppo si accerta che i nuovi venuti non siano armati; si passa poi tra una doppia fila di uomini che applaudono intonando un canto di benvenuto egiziano. Devo confessare che in quel momento ero in preda a due stati d'animo opposti. Il mio cervello mi diceva: «Stai calmo e ricordati che da queste parti non c'è aria da lieto fine: qui sono sempre i cattivi a vincere»; ma i miei occhi volevano solo guardare e prendere nota di una realtà mai vista prima. È una lotta titanica, un braccio di ferro tra un potere ormai stanco ma tuttora forte, nato da una rivoluzione calata dall'alto (guidata nel 1952 dall'esercito egiziano) ela nuova rivoluzione del 2011, sorta dalla base, vibrante anche se caotica, priva di armi ma forte di una legittimazione a tutta prova. Mi auguro che i contestatori di piazza Tahrir riescano ad organizzarsi almeno quanto occorre per negoziare con l'esercito una nuova costituzione. Le difficoltà e gli insuccessi non mancheranno. Ma qualunque cosa accada, l'Egitto non sarà più come prima. Una volta lasciata la piazza Tahrir e attraversato il ponte sul Nilo, il professor Mamoun Fandy mi ha citato un'antica poesia egiziana che dice: «Il Nilo muta tante volte il suo corso, ma mai si potrà prosciugare». E questo è vero anche per il fiume di libertà che scorre oggi in questo Paese. Sarà forse deviato per qualche tempo, ma non potrà inaridirsi.

Il FOGLIO - " Se islam e democrazia si sposano, i dittatori sono finiti "

Un connubio tra islam e democrazia, questo è il futuro dell'Egitto.
Più che un'analisi è una descrizione di un'utopia, quella di vedere un Paese islamico e moderato. Non ne esiste uno sulla faccia della Terra. La presenza dei Fratelli Musulmani, poi, non favorisce una visione ottimistica e moderata. Gerecht sostiene che : " 
Anche i fondamentalisti saranno costretti ad adattarsi, non potranno più porsi in guerra contro la comunità cercando di imporsi con la forza sull’intera popolazione. ". Ma è mai successo qualcosa di simile in un Paese islamico ?
Ecco l'articolo:


Reuel Marc Gerecht

Roma. Reuel Marc Gerecht è convinto che ci sia “un matrimonio tra le idee dell’islam e le idee democratiche”. L’ex uomo della Cia in medio oriente, ora senior fellow presso la Foundation for Defense of Democracies, parla con il Foglio di quel che sta succedendo in Egitto e del suo libro che uscirà a giorni, dal titolo “The Wave: Man, God, and the Ballot Box in the Middle East”, nel quale sostiene che “la promessa della democrazia per i musulmani offre qualcosa senza predecenti: l’inizio di una travolgente onda democratica i cui rivolgimenti potrebbero diventare il tema dominante della presidenza Obama”. Secondo Gerecht “i più importanti gruppi islamici oggi considerano le elezioni, e non la rivoluzione, lo strumento fondamentale di cui dispone la società per mantenere e preservare i cosiddetti ‘akhlaq’, gli usi e costumi che definiscono un bravo musulmano”. Anche i fondamentalisti saranno costretti ad adattarsi, non potranno più porsi in guerra contro la comunità cercando di imporsi con la forza sull’intera popolazione. Sono obbligati a cercare una forma legittima di governo, che possa essere considerata compatibile con gli insegnamenti di Maometto. “Se la democrazia è destinata ad affermarsi nei paesi arabi – continua Gerecht, che ha di recente scritto questa tesi sul New York Times – questo avverrà perché gli arabi più devoti avranno deciso che la loro fede e il governo rappresentativo possono coesistere in armonia”. Il pensiero corre subito ai Fratelli musulmani, che in Egitto sono forti e spaventano Israele. “Non si può ignorare o negare il fatto che la Fratellanza potrebbe riportare un grande successo alle elezioni, ben più del 15 per cento che molti le accreditano. Ma l’Egitto non diventerà un paese islamista”, dice Gerecht, e anzi l’ondata democratica arriverà anche in altri paesi. “L’Egitto è in piena trasformazione e deve confrontarsi non soltanto con l’idea generica di hurriya (libertà) ma anche con quella ben più concreta di elezioni libere aperte a tutti, donne comprese. E non credo che nessuno darà il suo voto a una nuova dittatura”. Molti in questi ultimi giorni hanno riabilitato la “freedom agenda” dell’ex presidente americano George W. Bush e la sua retorica sulla promozione della democrazia. “Bush ha dato un fortissimo impulso al dibattito sulla democrazia e i diritti in medio oriente – spiega Gerecht – In Europa però erano tutti convinti che quella politica estera producesse soltanto risultati negativi. Ma più passa il tempo più diventa difficile sostenere questa tesi. Se si considera l’evoluzione della regione dall’11 settembre 2001 a oggi, non si può fare a meno di osservare un costante approfondimento del dibattito sulla democrazia”. E oggi che cosa può fare Barack Obama? Secondo le ultime indiscrezioni, rivelate ieri dal Los Angeles Times, l’Amministrazione non sospenderà gli aiuti all’Egitto, come si era in alcune fasi ipotizzato, e continuerà a fare caute pressioni per una transizione ordinata del potere. “Bisogna impedire che l’esercito egiziano boicotti e ostacoli ogni cosa – dice Gerecht – Appare evidente che la leadership militare egiziana ha permesso gli attacchi contro i manifestanti in piazza Tahrir. Questi attacchi non sarebbero avvenuti se i militari non li avessero autorizzati. Queste cose vanno bloccate sul nascere. L’Amministrazione Obama deve ribadire che gli Stati Uniti si attendono una transizione e che se qualcuno inizia a sabotare il processo, gli aiuti saranno tagliati. In passato, le ingenti somme date dagli Stati Uniti all’Egitto sono state poste in correlazione con il processo di pace con Israele; ora gli Stati Uniti devono confermare che d’ora in poi gli aiuti saranno messi in correlazione diretta con la promozione della democrazia”. Il ruolo della comunità occidentale è fondamentale, ma non si potranno risolvere i problemi del medio oriente fino a quando non si sarà formata una cittadinanza capace di assumersi la responsabilità del proprio destino. “E’ questo il punto decisivo – sottolinea Gerecht – L’idea che attraverso la dittatura si possa in qualche modo realizzare una sana evoluzione politica è stata smentita. Molte persone in Europa e negli Stati Uniti sono vittime di quella che io definisco ‘l’illusione di Ataturk'. La Turchia, infatti, è stato un caso particolare e unico; ma anche in questo paese si è dovuto pagare un prezzo per il laicismo autoritario. E comunque i fattori essenziali presenti nel regime di Ataturk non sono presenti nel mondo arabo”. Mentre l’Arabia Saudita fa pressioni su Washington perché l’Egitto non cada nel caos, l’Iran sta con la piazza, cercando così di allargare la sua influenza e creare un nuovo fronte contro Israele. “Il regime di Teheran ha dimostrato di essere pronto a usare metodi brutali per reprimere l’Onda verde. Ma non credo che la leadership iraniana possa farla franca”. Secondo Gerecht, gli ayatollah dovrebbero stare attenti a schierarsi troppo con la piazza, perché anche in Iran “le pressioni democratiche si stanno facendo sempre più forti, il regime non potrà contare sulla proprià stabilità. Certo, finché avrà la capacità di eliminare o brutalizzare larghe fasce della popolazione, un regime come questo è in grado di mantenersi al potere”. Gerecht menziona a questo proposito anche il caso della Siria, dove il “nefasto governo della minoranza degli alawiti si oppone a qualsiasi forma di evoluzione politica perché questi ultimi sanno benissimo che ci rimetterebbero la pelle – i sunniti li ucciderebbero tutti”. I leader dell’Onda verde in Iran hanno presentato richiesta per una manifestazione di solidarietà (da tenersi il 14 febbraio) a favore di tutti i movimenti popolari della regione. “Se il regime farà ancora una volta ricorso alla forza e soprattutto alla lotta di classe, raccoglierà l’appoggio delle classi più basse. Ma ha un altro problema: è considerato corrotto da tutti, compresi i poveri. Si spiega così la stranissima situazione di un uomo come Ahmadinejad che si schiera contro il regime insieme ai poveri. Ma, anche qui, il movimento più potente è quello in favore della libertà e della democrazia. Nessuno in Iran è seriamente a favore dell’autocrazia”.

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