Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Egitto, una transizione veloce porterà a una teocrazia Obama se ne accorgerà per tempo ?
Testata:Libero - Il Foglio Autore: Davide Giacalone - La redazione del Foglio Titolo: «Obama deve scegliere tra la piazza e Israele - Andamento lento»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 08/02/2011, a pag. 20, l'articolo di Davide Giacalone dal titolo " Obama deve scegliere tra la piazza e Israele". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Andamento lento ".
LIBERO - Davide Giacalone : " Obama deve scegliere tra la piazza e Israele "
Davide Giacalone
Le cancellerie democratiche e occidentali annaspano nella crisi egiziana e gli Stati Uniti vi si giocano il loro ruolo globale. Ancora non è stata detta la cosa decisiva: non è accettabile alcun indebolimento della già precaria sicurezza d’Israele. Meglio essere ruvidi e diretti, segnalando che un ritorno dell’Egitto al nazionalismo nasseriano, per non dire del progressivo scivolamento verso il fondamentalismo islamico, sarebbe una tragedia. Per la pace nel mondo e per i nostri interessi. I nostri mezzi d’informazione s’innamora - no subito delle piazze, del popolo in rivolta. Le piazze egiziane non sono colmate dai Fratelli Mussulmani, ma neanche quelle iraniane erano riempite dai seguaci del fondamentalismo. L’Egitto non è l’Iran, ma ci si ricordi che il primo governo succeduto alla rivoluzione era moderato ed equilibrato, nonché lestamente liquidato. Quello dello Scià era un regime, certamente, anche sanguinario, ma mollarlo fu, per gli Stati Uniti e per l’occiden - te, un errore. Fu il popolo a volerlo? Sta di fatto che oggi ci tocca solidarizzare con quello stesso popolo, contro il suo governo dispotico, medioevale e guerrafondaio. Attacchiamo le foto di una donna che rischia la lapidazione, decorando i palazzi governativi d’Europa, nel mentre altri vengono impiccati e sgozzati, nel silenzio. Quello di Hosni Mubarak è un regime, certo, ma è anche il sistema politico che ha allentato la presa sulla libertà politica, consentendo ai fondamentalisti di candidarsi e raccogliere voti assieme all’opposizione, e sulla libertà economica. Mubarak, del resto, giunse al potere perché il predecessore, Anwar al-Sadat, fu ucciso dai nemici della pace con Israele. Se si perde la sicurezza della posizione egiziana il medio oriente esplode. Probabilmente è vero, non sono i Fratelli Mussulmani ad avere innescato la rivolta, ma possono essere loro a giovarsene. George W. Bush ha lasciato una situazione nella quale la Siria doveva seriamente considerare l’ipotesi di trovare un accordo con l’occidente (in tal senso Bashar al-Asad è stato ricevuto anche in Italia, erede di una dittatura terrorista) e in Iran potevano immaginare di vincere i moderati che dissentono dalla linea aggressiva di Mahmud Ahmadinejad. Barak Obama ha da tempo esaurito il tempo del collaudo, se perde ruolo in quest’area porta a casa una sconfitta storica, destinata a pesare sul futuro del mondo. Senza contare che priva di un Egitto sicuro alle spalle l’Autorità Nazionale Palestinese tornerà ad essere occupata dagli estremisti di Hamas, rendendo non solo vana qualsiasi ipotesi di pace, ma aprendo la possibilità all’immedia - to ritorno alle armi. L’attentato al gasdotto del Sinai, del resto, è solo un assaggio. Non metto in dubbio che fra chi protesta, oggi, ci siano molti egiziani desiderosi di maggiore ricchezza e libertà, ma non sarebbe la prima volta che la piazza propizia un risultato esattamente opposto. Il regime di Mubarak (esponente dell’Internazionale socialista, per chi avesse la memoria guasta) non ha futuro, ma il punto è: con chi negozia la transizione? Con le democrazie occidentali, garanti dell’equilibrio complessivo, o con i Fratelli Mussulmani, garanti di un diverso equilibrio interno? La Casa Bianca sembra a corto d’idee e desiderosa di risparmiare risorse, mentre l’Europa, ancora una volta, è assente. Posta la debolezza istituzionale del continente più ricco e con la storia più antica, siano i governi nazionali che contano (Francia, Germania, Inghilterra, con l’Italia che è stata capace di una posizione netta e giusta) a porsi il problema. La politica estera è un terreno ove le forze si confrontano e scontrano senza condividere comuni finalità, è, al tempo stesso, l’arena dei grandi principi e degli interessi concreti. Per questo è bene non perdere di vista la disciplina più utile: la storia.
Il FOGLIO - " Andamento lento "
Barack Obama
Roma. Dopo l’euforia del “regime change”, le botte in piazza, i tentativi di dialogo, la ricerca di un leader per l’opposizione, le immagini dei generali per strada che dicono ai ragazzi di comportarsi bene, al quattordicesimo giorno di protesta tutti si chiedono: e adesso dove si va? La Casa Bianca, che prima ha tentennato, poi richiesto con insistenza una resa di Hosni Mubarak, ora invita alla cautela: la transizione deve essere ordinata, e se ci vuole qualche tempo, è bene prenderselo. “Non vogliamo arrivare a settembre e veder fallire le elezioni e avere poi la gente che chiede: ‘Per che cosa abbiamo fatto tutto questo?’ – ha detto Hillary Clinton, segretario di stato americano – Vogliamo aiutare a preparare elezioni credibili e legittime, che siano vinte da persone che il popolo egiziano potrà ritenere, a prescindere che le abbiano votate o no, rappresentanti dell’Egitto”. Il ricordo del 2006, quando Hamas vinse le elezioni palestinesi, è molto vivo a Washington. Gaza oggi è un territorio ingestibile e quella vittoria rivelò una banalità, ancora più dolorosa proprio perché tanto prevedibile: una volta che hai insistito tanto per avere elezioni libere, devi accettarne il risultato (corollario: non puoi far vincere il tuo candidato preferito). Come spiegava ieri il Wall Street Journal, la vittoria di Hamas portò a un ridimensionamento della “freedom agenda” bushiana, ma la verità è che Hamas non avrebbe dovuto partecipare a quel voto, così come alle elezioni egiziane dovranno partecipare soltanto i partiti che rispettino criteri di pluralismo e di tolleranza. La società deve essere pronta al voto: quella egiziana lo è? Per non rischiare, meglio prendere tempo.
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