Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/02/2011, a pag. 8, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " La doppia faccia dei Fratelli Musulmani ", a pag. 9, l'intervista di Maurizio Molinari a Norman Podhoretz dal titolo " La dottrina Obama un danno per gli Usa ", a pag. 11, l'intervista di Francesca Paci a Rachid Ghannouchi dal titolo " Ghannouchi: Con me anche una donna può diventare presidente ", preceduta dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 30, l'articolo di André Glucksmann dal titolo " La democrazia può vincere nei Paesi arabi ". Da REPUBBLICA, a pag. 14, l'articolo di Federico Rampini dal titolo " Al Jazeera sempre accesa alla Casa Bianca, la rivincita della televisione odiata da Bush ", a pag. 30, l'articolo di Renzo Guolo dal titolo " Il tabù infranto in Egitto ", preceduto dal nostro commento. Da IT.DANIELPIPES.ORG l'articolo di Daniel Pipes dal titolo "Perché l'Egitto non diventerà presto democratico".
Ecco gli articoli:
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " La doppia faccia dei Fratelli Musulmani "
Accurata l'analisi di Mastrolilli dal Cairo, persino utile quando arriverà un articolo da Paola Caridi, speriamo che il desk esteri, dal pezzo di Mastrolilli, si renda conto della situazione egiziana e lo rimandi al mittente.
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La scena colpisce: una croce cristiana che si solleva in piazza Tahrir. È domenica, tredicesimo giorno della protesta contro Mubarak, e un gruppo di copti ha deciso di celebrare qui la messa. Il simbolo del sacrificio di Gesù viene alzato in cielo e la grande maggioranza dei manifestanti, che fino a pochi minuti prima si erano inginocchiati verso La Mecca, applaude.
Fuori dalla piazza le banche riaprono e la vita cerca di tornare alla normalità. Dentro è la giornata dedicata ai «martiri» della rivolta, le circa trecento persone uccise dall’inizio della protesta, le cui foto sono stampate sui giornali. I cristiani, che il primo gennaio scorso avevano pagato un tributo di sangue di oltre venti morti, per l’attentato ad Alessandria, hanno deciso di celebrare insieme ai musulmani. «Lo facciamo - spiega Michael Mounir - per dimostrare che la protesta contro il regime rappresenta tutta la società egiziana. Non è una buona intenzione che è stata dirottata dai Fratelli Musulmani per far nascere uno Stato islamico nel nostro Paese».
Ecco, nel giorno in cui il vice presidente Omar Suleiman apre il dialogo proprio ai membri del movimento sunnita, la piazza si chiede se con la sua protesta non sta aprendo la porta a un regime confessionale. Paradossale passaggio dalla dittatura dei militari a quella degli imam.
La confraternita fondata nel 1928 da Hassan al Banna si propone di restaurare il califfato, l’antica istituzione politiche che da Baghdad controllava tutto il mondo arabo. Nonostante questo, finora è stata molto prudente, almeno nelle dichiarazioni pubbliche. Per anni Mubarak l’ha usata come lo spauracchio che inquietava gli occidentali e li persuadeva ad appoggiarlo, e ora il nuovo capo, Mohammed Badie, non vuole che l’operazione si ripeta. Il suo portavoce, Essam El Ariane, ha detto senza pudore che «la tempistica della protesta ci ha presi di sorpresa, ma i temi no». Intendeva smentire il sospetto di tutte le ambasciate occidentali, che dietro la mobilitazione di piazza Tahrir vedono la mano dei Fratelli Musulmani, unico gruppo di opposizione dotato della struttura necessaria per portare in piazza migliaia di persone. Decine di ospedali e scuole, ma anche sedi di partito, che servono a soddisfare le esigenze basilari della gente e a raccogliere consenso.
Rashad al Bayumi, vice presidente dell’organizzazione, ci ha detto che «noi consideriamo l’Islam come il miglior modello di vita possibile, ma non intendiamo imporlo a nessuno. Sarà il popolo, attraverso il voto democratico, a stabilire il futuro dell’Egitto». Mohammed El Beltagi, rappresentante dei Fratelli Musulmani nel comitato che dovrebbe gestire la transizione, ha cercato di confermare questa linea promettendo che «alle prossime elezioni presidenziali non presenteremo un candidato».
La piazza, che ha bisogno di tutte le forze possibili per rovesciare il regime, vuole credere a queste rassicurazioni. Per esempio Alì Abdelkader, figlio di un ambasciatore e giovane leader della protesta, le commenta così: «I Fratelli Musulmani fanno parte della società e vanno inclusi nel dialogo, ma non sono abbastanza forti da prendere il controllo e trasformare l’Egitto in uno Stato islamico. Basta guardare la composizione dei manifestanti. Loro stessi, del resto, hanno sempre rifiutato il modello iraniano, che peraltro è sciita».
Magari Alì ha ragione, ma basta scavare un po’ oltre l’ufficialità per trovare gli indizi di un’altra verità possibile. Per esempio il figlio del fondatore, Seif al-Islam el-Banna, ha 72 anni e ormai ricopre un ruolo soprattutto onorifico nella confraternita. Quindi ha la libertà di dire quello che i suoi amici evitano, per ragioni tattiche. Seif sostiene che i Fratelli Musulmani non presenteranno un candidato presidenziale alle prossime elezioni per non spaventare il Paese, ma intanto potrebbero conquistare la maggioranza in Parlamento. A quel punto sarebbero in condizione di avviare riforme incentrate sui principi islamici: velo non obbligatorio ma consigliato per le donne, che comunque non potrebbero salire ai vertici della scala sociale e politica. Referendum popolare per decidere il futuro del trattato di pace con Israele firmato da Sadat, che in sostanza significa usare gli strumenti democratici per abolirlo. Finanza islamica al posto di quella capitalista, vietando quindi l’uso dei soldi per generare soldi attraverso gli interessi. Tutto questo, ed altro, dovrebbe servire ad aumentare il consenso politico dei Fratelli Musulmani. A quel punto diventerebbe inevitabile presentare un candidato alle successive presidenziali, e cambiare forse per sempre il volto dell’Egitto.
IT.DANIELPIPES.ORG - Daniel Pipes : "Perchè l'Egitto non diventerà presto democratico "

Daniel Pipes
Per leggere il pezzo in lingua originale inglese: http://www.danielpipes.org/9420/democratic-egypt
Due motivi mi inducono ad asserire che nel giro di un anno la Repubblica araba d'Egitto non potrà vantarsi di avere un sistema politico democratico.
Innanzitutto, la democrazia è molto più che indire e tenere delle elezioni, essa richiede lo sviluppo di una società civile, vale a dire delle istituzioni complesse e innovatrici come pure lo stato di diritto, un sistema giudiziario indipendente, il multipartitismo, i diritti delle minoranze, delle organizzazioni di volontariato, la libertà di espressione, di circolazione e di riunione. La democrazia è un'abitudine acquisita, e non innata, che esige dei profondi cambiamenti attitudinali, al fine di stabilire una cultura di moderazione, un insieme di valori comuni, un rispetto delle differenze di opinione, il concetto di opposizione leale e un senso di responsabilità civica.
Come suggerisce il suo logo, quella dei Fratelli musulmani d'Egitto non è proprio un'organizzazione democratica.
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Inoltre, le elezioni vanno praticate per essere perfezionate. Idealmente, un paese comincia a indire delle elezioni amministrative e poi passa a quelle politiche, prima inizia con il potere legislativo e poi passa a quello esecutivo. Al contempo, la stampa dovrebbe acquisire piena libertà; i partiti politici dovrebbero maturare; il Parlamento dovrebbe acquistare potere a scapito dell'Esecutivo, e i giudici dovrebbero decidere tra di loro.
Una simile trasformazione della società non può avere luogo nel giro di pochi mesi o addirittura anni; i precedenti storici mostrano che occorreranno interi decenni per poter attuare questo processo. È impensabile che un Egitto che dispone di così poca esperienza in materia di democrazia possa mettere insieme nel giro di dodici mesi un numero sufficiente di queste componenti per riuscire a stabilire un ordine pienamente democratico.
In secondo luogo, qualunque sia lo scenario che si delineerà, la democrazia non è in vista.
- Se Hosni Mubarak rimarrà al potere, improbabile ma possibile, egli sarà più despota che mai. Come dimostrato dal comportamento da lui tenuto negli ultimi giorni, Mubarak non se ne andrà con le buone.
- Se l'esercito assumerà più direttamente il potere che ha esercitato dietro le quinte dal colpo di stato del 1952, Omar Suleiman, il vicepresidente di fresca nomina, potrebbe diventare presidente. Egli apporterebbe delle modifiche al sistema, eliminando i più evidenti abusi commessi sotto Mubarak, ma senza offrire agli egiziani la possibilità di aver voce in capitolo sul regime che li governa. L'Algeria del 1992, dove un governo che godeva dell'appoggio dell'esercito ha represso gli islamisti, fornisce un precedente.
- Se gli islamisti arriveranno al potere, essi fomenteranno una rivoluzione sulla falsariga di quella iraniana del 1979, in cui il loro credo nella sovranità divina avrà la meglio sulla partecipazione politica da parte delle masse. La natura intrinsecamente antidemocratica del movimento islamista non deve essere oscurata dalla volontà degli islamisti di utilizzare le elezioni per raggiungere il potere. Nelle parole prescienti di un funzionario americano pronunciate nel 1992, gli islamisti promuovono un programma secondo il quale "una persona può esprimere una sola volta un unico voto".
Comunque si consideri la questione – in modo teorico o pragmatico – gli egiziani si sono imbarcati in un'impresa difficile, senza la prospettiva imminente di poter scegliere i loro governanti.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " La dottrina Obama un danno per gli Usa"


Norman Podhoretz Maurizio Molinari
Gli errori di Barack Obama rischiano di far perdere all’America non solo l’Egitto ma l’intero Medio Oriente».
È severo, il giudizio di Norman Podhoretz, teorico dei neoconservatori in forza all’Hudson Institute e animatore della rivista «Commentary», sulla gestione della crisi egiziana da parte della Casa Bianca. Quali errori contesta al presidente Obama?
«Sono di due tipi. Il primo è un errore di metodo: il presidente cambia idea in continuazione sulla gestione della crisi egiziana, dimostrando quell’incompetenza che Hillary Clinton gli rimproverava durante la primarie democratiche del 2008. Il secondo è un errore strategico: ritiene che il fondamentalismo islamico sia diviso fra estremisti e moderati e che con questi ultimi sia possibile parlare».
Iniziamo dal metodo. Che cosa c’è che non va?
«Obama cambia ogni giorno interlocutore al Cairo, così come esprime in rapida successione posizioni opposte su Hosni Mubarak. Evidenzia carenza di competenza. L’unico con una qualche esperienza che lo affianca alla Casa Bianca è il vicepresidente Joe Biden.Ma negli ultimi 30 anni non ha mai indovinato nulla».
Che cosa c’è di sbagliato nel dialogare con gli islamicimoderati?
«La divisione dei fondamentalisti islamici fra estremisti emoderati è una finzione ad uso e consumo dell’opinione pubblica occidentale. Basta andare a leggere che cosa dicono i presunti moderati quando parlano in arabo: odiano l’America e tutto ciò che essa rappresenta. I FratelliMusulmani si fingono moderati per guadagnare terreno politico in Egitto. Legittimandoli, Obama pone le premesse che potrebbero consentire loro entro un anno di avere in mano l’Egitto, e dunque il Canale di Suez».
Come si fa a promuovere la transizione escludendo i Fratelli Musulmani, che rappresentano il 30 per cento degli elettori?
«Il punto è che i Fratelli Musulmani sono l’unico partito di opposizione esistente. Serve una transizione gestita con tempi e modi tali da far emergere altre forze. L’errore di Obama è quello di accelerare i tempi, favorendo l’avvento dei Fratelli Musulmani ».
Quali sono i rischi che questo scenario comporta?
«Gli Stati Uniti rischiano di perdere non solo l’Egitto come alleatoma l’interoMedioOriente ».
Perché tutto ilMedio Oriente?
«Basta guardare lamappa. Gli islamici governano in Turchia,Hamas ha in mano Gaza, gli Hezbollah hanno appena conquistato il potere in Libano e adesso i Fratelli Musulmani hanno le mani sull’Egitto. Senza contare il regime degli ayatollah in Iran. Il fondamentalismo si sta affermando ovunque. Il prossimo Paese a cedere potrebbe essere la Giordania di re Abdullah. L’America ne esce perdente, espulsa, indebolita, emarginata».
Chi ne viene rafforzato?
«L’Iran».
La Casa Bianca ritiene invece che i moti riformatori in Egitto e Tunisia premino le posizioni pro-riforme esposte daObama nel discorso pronunciato al Cairo nel giugno 2009...
«Quel discorso fu segnato non dall’appello alle riforme ma dall’abbraccio all’Islam. Obama sta seguendo quello stesso approccio, con le conseguenze negative cui stiamo assistendo. Se Obama fosse stato davvero a favore delle riforme, avrebbe sostenuto le proteste in Iran nel 2009, dopo la contestata rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, invece scelse il basso profilo. Facendo prevalere la volontà di dialogo con un regime nostro nemico».
Come spiega la differenzadi comportamentodiObama sulle proteste in Iran e in Egitto? «Con il fatto che è un presidente incline ad essere più duro con gli amici che non con i nemici dell’America. Questo approccio ricordamolto quello del presidente Jimmy Carter, che nel 1979 liquidò lo Scià di Persia, con le conseguenze che ben conosciamo».
Che cosa c’è dietro l’essere più duri con gli amici che con i nemici?
«C’è un’idea negativa dell’America. La convinzione che gli Stati Uniti, i precedenti Presidenti, si siano comportanti male, abbiano sbagliato sempre tutto. C’è una sorta di odio di sé, di tutto ciò che l’America ha rappresentato in passato. L’ “appeasement” con i nemici, il tentativo di pacificazione, ha queste radici ».
È d’accordo con chi sostiene che le rivolte egiziana e tunisina premino a posteriori l’impegno diGeorgeW. Bush per le riforme?
«Sono d’accordo solo fino a un certo punto. Sono stato un sostenitore della “Freedom Agenda” di Bush, l’Agenda della Libertà colonna portante della sua presidenza, ma negli ultimi tre anni della sua Amministrazione questo impegno si indebolì molto per ragioni che non sono state del tutto chiarite. È vero però che Bush allentò la pressione per le riforme in Egitto per timore dei FratelliMusulmani. Le innovazioni democratiche, per prendere piede, hanno bisogno di tempo. Per questo il presidenteMubarak ha pesanti responsabilità per quanto sta avvenendo: avrebbe potuto iniziare le riforme sei-otto anni fa e se ciò fosse avvenuto oggi saremmo in una situazione differente».
CORRIERE della SERA - André Glucksmann : " La democrazia può vincere nei Paesi arabi "

André Glucksmann
Una rivoluzione sorprende il mondo: i vertici sono assaliti dal panico, la base non riesce a capacitarsi di vincere minuto dopo minuto la propria paura, gli stranieri— esperti, governi, telespettatori, io stesso — si sentono colpevoli di non aver previsto l’imprevedibile. Di qui, la lite che agita la Francia profonda: la destra ha fallito, strombazza la sinistra, dimenticando di spiegare perché Ben Ali (e il suo partito unico) continuava a essere membro dell’Internazionale socialista, così come Mubarak (e il suo partito monocratico). Il primo è stato radiato il 18 gennaio 2011, tre giorni dopo la fuga. Il secondo, a gran velocità, il 31. Nessuno aveva sollevato il problema: né la stampa negligente, né la destra gemellata con l’onnipotente Russia Unita di Putin; una destra che corteggia il Partito comunista cinese. Ma piuttosto che interrogarsi su questa inclinazione assai condivisa per gli autocrati, è più facile denunciare insistentemente il «silenzio degli intellettuali» . Riflettere non significa scattare per raggiungere e superare un evento che mozza il fiato. Oltre ad ammirare le folle che sormontano l’angoscia, chiediamoci perché la sorpresa prende alla sprovvista le prevenzioni. Il primo pregiudizio è che alla vecchia polarizzazione tra due blocchi succeda lo scontro tra «civiltà» . Il secondo pregiudizio, alternativo, è che alla guerra fredda succeda la pace dell’economia razionale e la fine della storia sanguinosa. Questo è un duplice abbaglio, come illustrano le implosioni dell’ «eccezione araba» , che lacerano brutalmente la pseudocoerenza dei blocchi etnici e religiosi: «mondo arabo» , «civiltà dell’Islam» . Quante volte è stato ripetuto fino alla noia che libertà e democrazia non interessano la «piazza araba» finché dura il conflitto israelo-palestinese? Il rifiuto di rimandare alle calende greche o a Gerusalemme la questione della sottomissione alle dittature passava, nei salotti o nelle università, per il colmo dell’indecenza eurocentrica: o si è per i diritti dell’uomo o si è sionisti. Dal gennaio 2011 non esiste più fatalità nel Maghreb e nel Medio Oriente. Qualunque cosa avvenga, salutiamo gli sconvolgimenti in atto con «una partecipazione e aspirazione che rasentano l’entusiasmo» : così parlava Kant della Rivoluzione francese, di cui però disapprovava molte peripezie. La mondializzazione, che da trent’anni sommerge il pianeta, non si limita alla finanza e all’economia. Veicola un virus senza frontiere di libertà, che talvolta ha la meglio (rivoluzioni di velluto) e talvolta inciampa nella brutalità di apparati politico-militari, profani a Tien an Men (1989) o «celesti» in Iran (2009). Nonostante questo, una gioventù mondializzata continua a reclamare col corpo (talora sacrificato) e con la voce (spesso digitalizzata): «Vattene!» . La passione tunisina scuote con grande rapidità la fortezza egiziana. Una sorta di bomba atomica spirituale fa vacillare schiavitù ancestrali che si rivelano volontarie, dunque volontariamente distruttibili. Non si tratta di deplorare la caduta di un tiranno. Provai grande sollievo per la fine dei satrapi comunisti dell’Est, ma anche per quella di Salazar e di Franco, e per quella di Saddam Hussein: perché ora dovrei affliggermi per la caduta di Ben Ali e presto, spero, di Mubarak? Dicono che il seguito non è scritto, che dopo lo Shah venne Khomeini. E allora? Dovrei rimproverare al Re dei re di non aver versato più sangue al momento dello shock finale, o piuttosto di averne versato troppo negli anni che lo precedettero? Un’insurrezione popolare che abolisce un regime dispotico si chiama rivoluzione. Ogni grande democrazia occidentale vi riconosce le proprie origini violente, e la Francia di Saint-Just in particolare: «Le circostanze sono difficili solo per chi indietreggia davanti alla tomba» . L’assassinio di Khaled Said, giovane aficionado di Internet colpito a morte dalla polizia di Alessandria, invece di intimidire, ha galvanizzato gli animi; Facebook come il samizdat, e l’esigua frangia degli internauti è diventata la fiaccola di una dissidenza. Accesa da chi non esita a sacrificarsi, come Mohamed Bouazizi nella città di Sidi Bouzid. La Atene del V secolo prima di Cristo, quella dei filosofi, onorava i propri tirannicidi leggendari: Armodio e Aristogitone. Secondo la legge dei contrari, la libertà ospita «l’abisso più profondo e il cielo più sublime» (Schelling). L’itinerario dell’Europa ci insegna che una rivoluzione porta a tutto: al bene comune di una repubblica, come al terrore, alle conquiste e alle guerre. Mentre il potere vacilla al Cairo, Teheran celebra il 32 ° anniversario della propria rivoluzione in un festival di impiccagioni. L’Egitto — Dio non voglia— non è l’Iran di Khomeini, né la Russia di Lenin, né la Germania della rivoluzione nazional-socialista. Sarà quello che vorranno che sia i suoi giovani, avidi di respirare e di comunicare, i suoi Fratelli Musulmani, il suo esercito ambiguo e dissimulato, i suoi poveri e i suoi ricchi che anni luce separano. In Egitto, gli indigenti sono il 40%e gli analfabeti il 30. Il che rende la democrazia difficile e fragile, ma per nulla impossibile, altrimenti i parigini non avrebbero mai preso la Bastiglia. A ciò si aggiunga che l’ 82%degli egiziani musulmani (sondaggi giugno del 2010, centro di ricerca Pew) auspica l’applicazione della Sharia e la lapidazione degli adulteri; il 77%trova normale che si tagli la mano ai ladri e l’ 84%la pena di morte per chi cambia religione. Questo vieta di abbandonarsi a ingenuità futurologiche troppo rosee. Dalla rivoluzione più volte ripetuta fino alla repubblica democratica e laica, in Francia passarono due secoli. In Russia e in Cina, i tempi non si annunciano più brevi... se il periplo si compirà. Anche gli Stati Uniti, che credono di aver raggiunto l’empireo in dieci anni, si illudono: dovettero subire la terribile guerra di secessione, la lotta di classe e la battaglia per i diritti civili. Fu una «lunga durata» bicentenaria in cui fiorirono le ragioni e i frutti della collera. Chi dice Rivoluzione e Libertà non dice subito democrazia, rispetto delle minoranze, uguaglianza dei sessi, rapporti di buon vicinato con i popoli. Tutto questo resta da conquistare. Rendiamo omaggio alle rivoluzioni «arabe» , perché infrangono la pseudofatalità. Ma, di grazia, non le incoraggiamo: i rischi, tutti, anche i pericoli peggiori, sono davanti a loro. Basta rivisitare la nostra storia: l’avvenire è senza garanzie.
La REPUBBLICA - Federico Rampini : " Al Jazeera sempre accesa alla Casa Bianca, la rivincita della televisione odiata da Bush "
Federico Rampini sostiene che Obama, per comprendere che cosa sta succdendo in Egitto, stia incollato davanti ad al Jazeera. Sarà per questo che la situazione precipita ?
Non manca una critica per il fatto che, in Usa, non sia possibile vedere al Jazeera se non su internet a Washington.
Rampini sarà anche esperto di estreo Oriente, ma non si può scrivere altrettanto per quanto riguarda il Medio Oriente. Pensare di comprendere la situazione in Egitto attraverso il filro di al Jazeera è incredibile, ma lo è ancora di più lodare Obama perchè lo fa e criticarlo perchè non permette ai suoi cittadini di fare altrettanto.
Ecco l'articolo:


Al Jazeera Federico Rampini
NEW YORK - La seguono minuto per minuto alla Casa Bianca per capire cosa succede davvero in Egitto e in tutto il mondo arabo; la cita regolarmente come una fonte attendibile il portavoce del Dipartimento di Stato. E ieri Al Jazeera ha comprato un´intera pagina di pubblicità sul New York Times per celebrare questo trionfo: sullo sfondo c´è una grande foto della Piazza Tahrir al Cairo invasa dalla folla, in sovraimpressione gli elogi virgolettati dei più celebri anchorman e opinionisti d´America: "Grande giornalismo", dice Rachel Maddow di Msnbc. Ma in fondo alla pagina Al Jazeera ha dovuto indirizzare i potenziali spettatori verso il suo sito online, o YouTube, o le applicazioni dell´iPhone. Perché sulla tv via cavo o satellitare è invisibile in quasi tutti gli Stati Uniti: colpita da un ostracismo di fatto che dura dai tempi dell´11 settembre, quando l´Amministrazione Bush la considerava come un´emittente pericolosa, fiancheggiatrice di Al Qaeda.
Oggi i dirigenti Usa si arrendono all´evidenza: più ancora di Facebook e Twitter (il cui ruolo è importante ma circoscritto alle giovani generazioni istruite e urbane), è Al Jazeera a far soffiare il vento della libertà in tante nazioni islamiche. La tv finanziata dall´emiro del Qatar è la voce d´informazione indipendente che "unifica" il mondo arabo, a lei si rivolgono le opinioni pubbliche che diffidano delle tv di Stato censurate dai dittatori. Lo sa anche Mubarak: la sua polizia si scatena da giorni contro i reporter, ma con un accanimento particolare contro Al Jazeera. Ieri hanno arrestato Ayman Mohyeldin scatenando la protesta su Twitter: è diventato il terzo argomento più citato nel mondo. Mohyeldin, rilasciato dopo 9 ore, è il 13esimo giornalista di Al Jazeera finito nelle mani di poliziotti o militari, incluso il capo della redazione del Cairo. L´ufficio è stato preso d´assalto dalle bande pro-Mubarak. I satelliti di Stato fanno di tutto per "crittare" i suoi programmi.
In modo più soft, anche l´America pratica il suo blackout. L´eccellente edizione inglese dei notiziari Al Jazeera si può vedere solo a Washington e in piccole enclave d´immigrazione egiziana come Toledo nell´Ohio. Sul resto del territorio Usa non c´è, fra le centinaia di canali offerti agli abbonati via cavo o satellitari. Nessuna censura, per carità, nel paese del Primo Emendamento. Ufficialmente gli operatori di cable-tv come Comcast e TimeWarner spiegano che «non c´è posto» per Al Jazeera nei loro "bouquet" già sovraffollati di programmi. Strano, perché in questi giorni la tv araba col notiziario inglese è balzata a 1,6 milioni di spettatori, pur essendo visibile quasi solo su Internet: sul sito l´aumento del traffico è del 2.500%. L´appeal commerciale dunque c´è. «Speriamo che sia il momento della svolta», ha dichiarato il suo direttore Al Anstey da Doha, nel Qatar. Gli elogi dei colleghi-concorrenti americani sono una pubblicità fantastica. Sam Donaldson su Abc si è rivolto in diretta a un reporter di Al Jazeera per dirgli: «Grazie per il lavoro che state facendo». Malgrado la ricchezza dei mezzi, né Cnn né le altre hanno potuto organizzare in poco tempo una copertura delle rivolte paragonabile a quella di Al Jazeera, impareggiabile per la dimensione e la qualità dei suoi uffici di corrispondenza in tutta l´area. Ma nonostante i riconoscimenti di gran parte delle tv e della stampa Usa, sulla diffusione di Al Jazeera l´anatema di Bush non si è spento. A destra, Bill O´Reilly di Fox News l´ha bollata di nuovo come "antiamericana". Per Mohamed Nanabhay, che dirige il notiziario di Al Jazeera in lingua inglese, il boom degli accessi online dagli Stati Uniti «è la prova che anche gli americani s´interessano di politica estera». Dopo la sfuriata di Obama alla Cia, che fino all´ultimo non ha visto arrivare neppure la caduta di Ben Ali in Tunisia, ai vertici della superpotenza mondiale qualcuno si pente di non aver guardato un po´ prima i notiziari giusti.
La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " Il tabù infranto in Egitto "

Renzo Guolo
Il dialogo coi Fratelli Musulmani non è un'alternativa valida a Mubarak. Guolo quando scrive che non condividono la Jihad globale è consapevole del suo errore? I Fratelli Musulmani sono ben ramificati nei vari Stati del Maghreb e appoggiano Hamas. Si battono per la sharia negli Stati in cui si trovano. Questo è sufficiente a rendere impossibile ogni dialogo con loro. I Fratelli Musulmani non hanno nulla a che vedere con la democrazia.
Ecco l'articolo:
Suleiman incontra le opposizioni e tra esse anche i Fratelli Musulmani. È un fatto storico: cade un doppio, tabù politico. La Fratellanza, che pure ha costituito nel 1952 la base di massa del colpo di stato degli "Ufficiali liberi", era fuorigioco dai tempi della repressione del 1954. Da allora, passando per il "complotto del ‘65" che portò all´impiccagione di Qutb, l´ideologo radicalizzatosi nelle carceri nasseriane, sino alla presa di distanza nel 1969 della Fratellanza dallo stesso Qutb divenuto nel tempo mito politico dei gruppi radicali, ogni attività politica era stata interdetta agli islamisti neotradizionalisti. Sadat, consapevole che la forza dei Fratelli, fautori di uno Stato islamico prodotto di un consensuale processo di «reislamizzazione dal basso», non si poteva estirpare con la sola repressione, aveva concesso loro una certa libertà d´azione nelle università per contrastare la sinistra nasseriana. Quanto a Mubarak aveva perfezionato questo silenzioso patto consentendo agli Ikwhan di occuparsi di welfare religioso e, quando le condizioni lo permettevano, di partecipare, confusi in altre liste, a elezioni che non avrebbero mai potuto vincere essendo obbligatoriamente candidati a un limitato numero di seggi. Inclusione parziale che non evitava, comunque, cicliche repressioni.
La Fratellanza si è così spesso trovata tra due fuochi: quello spietato del regime, che non ha esitato a gettare periodicamente nelle galere i loro dirigenti; quella, assai insidiosa, dei gruppi islamisti radicali che ritenevano "traditori" i Fratelli perché rifiutavano la loro strategia fondata sulla logica azione-repressione-insurrezione, destinata, nelle intenzioni del «lenismo religioso» radicale, a sfociare in quella conquista del potere necessaria per reislamizzare "dall´alto", coericitivamente, una società ritenuta ormai " corrotta e secolarizzata". Le continue scissioni subite dalla Fratellanza, tra esse quella dei militanti che daranno vita a Al Jihad, gruppo autore dell´attentato a Sadat in cui militava un giovane Zawahiri, hanno rivelato conflittualità tra le diverse anime dell´islam politico che solo un interessato occultamento analitico poteva oscurare.
Una lettura che l´11 settembre ha permesso di riprodurre. Lo stesso Suleiman, nei suoi contatti con le intelligence occidentali metteva in guardia dal pericolo Fratellanza, spingendo anche sul pedale dello storico legame con la sua branca palestinese, Hamas. Nel tentativo di ottenere, come è accaduto, il consenso a una politica repressiva che, in nome della lotta a Al Qaeda e della stabilità dei regimi, collocava indistintamente sullo stesso piano islamsiti neotradizionalisti e jihadisti. Realizzato che la Fratellanza è un interlocutore scomodo ma non è Al Qaeda, che essa non condivide la jihad globale, gli Usa, che da tempo hanno contatti informali con i Fratelli, hanno premuto su Suleiman perché fossero parte attiva nel negoziato. Quanto agli Ikwhan non hanno avuto esitazioni nel trattare con quello che i radicali chiamano il "regime empio". Pur ritenendo "insufficienti" le proposte dell´uomo forte del Cairo e pur mantenendo la richiesta di dimissioni di Mubarak, irrigidimento mirato a tenere insieme le loro diverse correnti, sono entrati nel comitato congiunto governo-opposizione che cogestisce la transizione, incassando la promessa della fine dello stato di emergenza in vigore dal 1981, della riforma della Costituzione e della legge elettorale, oltre che il processo per i "corrotti". Un dialogo obbligato che, comunque vada, pare simbolicamente chiudere il cerchio del breve ma cruento Novecento arabo.
La STAMPA - Francesca Paci : " Ghannouchi: Con me anche una donna può diventare presidente "
I giornalisi iniziato a diventare curiosi e pongono domande.
Tutta l'ipocrisia di Rashid Gannouchi, un Khomeini solo più presentabile, risalta nelle sue risposte a Francesca Paci.
Ecco l'intervista:

Rashid Ghannouchi
Intervista Fino a un mese fa Rashid Ghannouchi, il fondatore del Nahda, i Fratelli Musulmani tunisini, era uno tra migliaia d’immigrati tunisini nella capitale britannica. Ora, due settimane dopo la fuga di Ben Ali, è tornato nel Paese lasciato nel 1991 con la condanna all’ergastolo e la messa al bando del Nahda. Ha poco tempo, spiega, seduto sul divano di pelle che la numerosissima famiglia ha riempito di fiori. C’è la preghiera nella moschea davanti a casa, al primo piano nel quartiere periferico Menzah 6. E c’è un’agenda lunga così: ad accoglierlo all’aeroporto c’erano un migliaio di persone ma, tra chi lo venera e chi gli attribuisce la responsabilità degli attentati del 1986, è l’uomo più nominato del momento. E il più intervistato. Mentre in completo grigio e pullover nero risponde alle domande, l’addetto stampa lo filma. Ogni parola pesa, ogni gesto. E prima di congedarsi ci tiene a stringerci la mano. Rashid Ghannouchi, che Tunisia trova dopo vent’anni d’esilio? «Ho trovato un popolo felice, orgoglioso d’aver cacciato il dittatore, un popolo che per la prima volta nella sua storia sperimenta la libertà». È soddisfatto dell’accoglienza ricevuta? Qualcuno aveva paragonato il suo rientro a quello di Khomeini nella Teheran del 1979 ma, a onor del vero, non c’è stato il bagno di folla. È così? Sorride, divertito: «Non sono Khomeini, sono sunnita e non sciita, la Tunisia è assai più piccola dell’Iran, non ho alcuna ambizione a diventare presidente del Paese e neppure ministro o deputato. Detto questo, sono felice d’essere stato accolto da diecimila tunisini, molti dei quali giovani. Tra le ragazze ce n’erano anche diverse senza velo». Il partito al Nahda, bandito dal Paese nel 1991, è tornato in pista e si prepara alla sfida elettorale. Parteciperà? «Sono il presidente del partito, tre giorni fa abbiamo chiesto la regolarizzazione al ministero degli Interni e stamattina presenteremo il nostro programma alla stampa».
Ci anticipi qualcosa. «Al Nahda riconosce il sistema multipartitico, la libertà d’espressione e le elezioni democratiche». Lo statuto dei Fratelli Musulmani egiziani prevede che a donne e cristiani copti sia preclusa la presidenza del Paese. E il vostro? «Non è che siamo d’accordo su tutto. Per noi può diventare presidente tanto una donna che un copto. La condizione è che vinca le elezioni». Che Tunisia sarà quella democratica che si sta preparando? Molti dei suoi connazionali temono che il Nahda minerà la laicità dello Stato. Il vostro programma prevede un Paese islamico? «Lo Stato tunisino non è laico. L’articolo 1 della Costituzione dichiara che si tratta di uno Stato islamico. Non c’è alcun bisogno di stabilirlo, perché lo è già». Stime non ufficiali dicono che potete contare su un consenso elettorale tra l’8 e il 10%. Lei che ne dice? La sua pagina Facebook ha raggiunto in pochi giorni 55 mila iscritti. Sorride, ancora: «Non si può prevedere il peso di un partito che non ha mai concorso alle elezioni, magari ottiene il 10% o il 20% o il 30%».
Che rapporto avete con i Fratelli Musulmani egiziani? «Siamo in contatto con gruppi e movimenti che si collocano nel solco dell’Islam politico e moderno, come il Justice and Development Party marocchino e l’Akp turco. In particolare siamo molto vicini ai turchi». A quale Paese islamico vorreste assomigliasse la Tunisia: Turchia, Iran, Indonesia? «La Turchia, ovviamente. Ma anche l’Indonesia, la Malesia, i Paesi islamici con sistemi democratici». C’è chi non si fida delle vostre promesse democratiche e teme la radicalizzazione della Tunisia. Cosa potete dire al mondo che vi guarda e deve decidere se investire economicamente sulla stabilità del Paese? «Bisogna uscire dalla logica dell’islamofobia. L’Occidente deve capire che ci sono tanti movimenti islamici e tante differenze, il premier turco Erdogan e Bin Laden sono islamici ma non sono la stessa cosa. E noi, personalmente, ci sentiamo più vicini al primo che al secondo. Metterci tutti nella stessa barca è pericoloso e comunque manca il punto vero, ossia che l’Islam politico rappresenta oggi la principale tendenza politica in Marocco, in Egitto, in Tunisia, in Algeria, dovunque. Rasserenatevi perché non c’è alcuna contraddizione tra Islam, democrazia e modernità». Quale sarà il primo Paese arabo a seguire la strada della Tunisia? «L’Egitto, che alla fine vincerà perché, come la Tunisia, porta avanti una rivoluzione fatta dalla gente e non dai partiti. Poi lo Yemen. Forse l’Algeria». Pensa che la crisi egiziana metterà in crisi la pace di parte della regione con Israele? «Non necessariamente. Forse la relazione con Israele può essere riorganizzata, ma non vedo per forza una guerra». In Tunisia si dice che su di lei gravi il sospetto degli attentati degli Anni 80. Per questo non vuole candidarsi? «Il nostro coinvolgimento con il terrorismo è propaganda del vecchio regime, passato. Il Nahda è pacifico. Non mi candido perché c’è una nuova generazione nel nostro movimento che può correre. Ho un altro obiettivo, studiare, insegnare l’Islam attraverso l’International Union of Muslim Scholars». Come le sembra il governo nazionale di transizione? «Illegittimo, costituito senza consultare gli altri. L’ho detto anche alla tv di Stato National One che mi ha invitato per la prima volta». Che Tunisia immagina fra due anni? «Un Paese democratico e islamico».
Ossia? «Donne al potere, copti presidenti, libertà d’informazione». Se è così, che differenza c’è con la Gran Bretagna in cui ha vissuto? «L’Islam attinge i suoi valori da testi sacri. Ciò non toglie che qualsiasi legge debba passare attraverso il Parlamento».
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