Tre commenti, oggi, 06/02/2011. Il primo, di Stefano Magni, sull' OPINIONE, mette in evidenza i pericoli nei quali può cadere l'Occidente. Sul SOLE24ORE, Christian Rocca ci ricorda come si combattono le battaglie di libertà, nel ricordo di Ronald Reagan a cent'anni dalla nascita. Sempre sul SOLE24ORE, Moisés Naìm analizza come anche nell'Egitto di Mubarak, come nell'Iran dello Scià, siano state le riforme a far crollare i regimi. Quelli che noi identifichiamo come portatori di cambiamenti anti-autoritari, sono in realtà i rappresentanti dell'integralismo fanatico religioso, toccati nei loro interessi economici. I mullah iraniani, colpiti dalla riforma del latifondo, voluta dallo Scià, i Fratelli musulmani, impediti da Mubarak a conquistare il potere.
Ecco gli articoli:
L'Opinione-Stefano Magni: " La rivolta vista dall'Europa"

Stefano Magni
Visto dall’Europa, il moto di ribellione egiziano è inspiegabile. Se il Paese mediorientale, 83 milioni di abitanti, primo partner commerciale dell’Italia, era considerato come una delle punte di diamante della crescita nella regione, ora abbiamo visto che la gente scende in piazza a milioni (letteralmente milioni) e rischia la vita. Perché non ha niente da perdere. Dietro alla facciata di stabilità fornita dalla dittatura si nascondeva una pura anarchia del potere. Le prime proteste, scoppiate sull’onda della “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia, hanno visto come protagonisti ristoratori e negozianti taglieggiati dai poliziotti, studenti che stanno per affrontare la disoccupazione, cristiani copti esposti al terrorismo islamico da un regime che non li protegge. In Egitto, come in tutte le rivoluzioni mediorientali contemporanee (Libano, Iran, Tunisia), il moto di protesta è “acefalo”: non ha un leader o un partito, né una gerarchia di militanti rivoluzionari. I partiti arrivano, ma si uniscono solo in un second momento. Un qualcosa di molto simile lo si è visto (in un contesto molto meno drammatico) anche negli Usa, con il movimento Tea Party: i partiti e politici mettono il cappello su un movimento che c’è già. Ciò che rende possibile la nascita di un movimento non organizzato da un partito è Internet. L’osservatore libanese (trapiantato negli Usa) Walid Phares spiega su National Review che, in Egitto: “Inizialmente questo movimento, che non era ancora ben conosciuto dall’opinione pubblica internazionale, è stato innescato da una rete di bloggers, chiamata Al Mudawinun (bloggers, in arabo, ndr). I Mudawinun sono stati in grado di generare un movimento giovanile, battezzatosi Movimento 6 Aprile”. Il movimento di cui parla Phares è nato il 6 aprile 2008, su iniziativa del blogger Ahmed Maher, per sostenere uno sciopero degli operai di El Mahalla El Kubra, una città industriale sul delta del Nilo. I suoi principali bersagli erano: il nepotismo, la corruzione della burocrazia, la repressione e le censura imposte dal regime. Maher, negli ultimi due anni, è stato arrestato per ben due volte. I blog del suo network hanno subito molti attacchi di hacker (molto probabilmente pagati dal regime), ma sotterraneamente il movimento ha continuato a crescere. “Nelle settimane scorse, emulando la ribellione tunisina, il Movimento 6 Aprile ha organizzato marce al Cairo e in altre città” – spiega Phares – “Secondo le nostre fonti locali, i giovani egiziani erano influenzati inizialmente dalla Rivoluzione dei Cedri in Libano del 2005 e dalla Rivoluzione Verde in Iran del 2009. Alcuni dicono che sono rimasti impressionati soprattutto dalle dimensioni delle manifestazioni dei copti dopo l’attacco alla chiesa di Alessandria del 31 dicembre. Le dimostrazioni giovanili copte e le attività online che le hanno generate hanno dato l’esempio al più vasto Movimento 6 Aprile”. Parallelamente a questo movimento giovanile, prevalentemente democratico e laico nei suoi ideali, non è mai cessata una campagna di discredito del regime di Mubarak da parte dei Fratelli Musulmani (integralisti islamici). La cui cassa di risonanza è niente meno che Al Jazeera, la grande Tv satellitare del Qatar che raggiunge i musulmani di tutto il mondo. All’inizio della protesta non c’erano partiti. Nei primi giorni, al movimento giovanile e della società civile si sono aggregate formazioni minori che non avevano mai organizzato proteste di massa. Gli ultimi ad aggregarsi sono stati i Fratelli Musulmani. Solo alla fine, Mohammed el Baradei, con il suo volto ben noto in tutto il mondo, si è posto, simbolicamente, alla testa della ribellione. E’ lui, a Giza, il venerdì scorso, che ha guidato la marcia di protesta finita in scontro con la polizia, l’atto di inizio della fase più turbolenta della rivolta. Sono molte le possibilità che un movimento di protesta, nato da sincere aspirazioni democratiche dei giovani, possa essere dirottato dagli integralisti islamici. Vuoi per coprire la fragilità del proprio sistema, vuoi per puntare la carta islamica nel principale alleato degli Usa, l’Iran sta investendo molto nella rivoluzione del Cairo per portarla dalla propria parte. Si tratta, per ora, di un investimento politico, reso esplicito da numerose dichiarazioni di sostegno dei suoi leader. Nell’immediato futuro potrebbe tradursi in qualcosa di più concreto: Teheran non ha mai esitato a fornire armi e fondi a rivoluzionari suoi alleati in tutto il mondo (fino all’America Latina). Se i Fratelli Musulmani dovessero riuscire a prevalere sulle altre formazioni rivoluzionarie, el Baradei potrebbe essere di nuovo (come nelle ultime elezioni) il loro candidato di riferimento per un governo di transizione. Nonché il loro contatto con l’Iran: è l’ex direttore dell’Aiea che, con la sua partigianeria, ha chiuso uno o due occhi sul programma nucleare di Ahmadinejad. Il regime di Teheran non lo dimentica. I Fratelli Musulmani stanno iniziando ad accreditarsi come forza democratica e non pochi analisti occidentali credono in loro. Ma il loro leader, Mohammed Badie, non nasconde le sue intenzioni: “Continueremo nel cammino di Sayyid Qutb” aveva dichiarato al momento della sua elezione alla guida del movimento. Sayyid Qutb, teorizzatore di un ritorno all’Islam delle origini, non ha mai concepito la democrazia pluralista. Tantomeno laica. Ha semmai predicato il “governo dei virtuosi”, che può tradursi, nella pratica, in un regime come quello iraniano, dove è una guida suprema religiosa a detenere il potere reale ed è un consiglio di religiosi a selezionare i candidati. Se dovessero vincere loro, alla testa della rivoluzione, vi sarebbero ben poche speranze per una democrazia in Egitto.
IlSole24Ore-Christian Rocca: " Medio Oriente e libertà, la 'profezia' di Reagan "

Christian Rocca
Ogni volta è la stessa cosa. Il giorno prima le rivoluzioni sembrano impossibili. Il giorno dopo diventano inevitabili. Il presidente Reagan, che oggi avrebbe compiuto cento anni, l'8 giugno del 1982 aveva inquadrato con anticipo la questione dibattuta in questi giorni. La rivolta popolare in Egitto appassiona per la grande energia antiautoritaria, ma fa temere una deriva islamista. La cautela di Obama rasserena ma conferma che nessuno ha la soluzione.
L'unica chiave di orientamento è quella indicata da Reagan 19 anni fa. Quella mattina pronunciò a Londra uno dei più epici discorsi della Guerra Fredda, passato alla storia perché, citando indirettamente Lev Trotzky, spiegava come la marcia della libertà e della democrazia avrebbe portato il marxismo e il leninismo nella «pattumiera della storia». Quel discorso codificò il principio della globalizzazione della democrazia come pilastro dell'interesse nazionale americano e garanzia di libertà della moderna società occidentale. «Dobbiamo essere fermi – disse – nella nostra convinzione che la libertà non è prerogativa di pochi fortunati, ma diritto universale e inalienabile di tutti». Il compito del mondo libero, continuò Reagan, è «incoraggiare l'infrastruttura della democrazia, la libera stampa, i sindacati, i partiti, le università, in modo da consentire ai popoli di scegliere la propria via. Questo non è imperialismo culturale (...) Sarebbe un atto di superiorità culturale, se non peggio, sostenere che qualche popolo preferisce la dittatura alla democrazia».
Reagan non era un fanatico. Non pretendeva di applicare la sua dottrina sempre e comunque, specie nel pieno di una guerra. Sapeva bene, come scrisse Jeane Kirkpatrick in un saggio su Commentary del 1979 che le valse il ruolo di ambasciatrice americana all'Onu, che la stabilità internazionale sarebbe stata garantita meglio da un'autocrazia alleata piuttosto che da un regime totalitario nemico. Ma con quel discorso pose le basi perché la liberazione dei popoli oppressi e la rimozione degli ostacoli alla democrazia diventasse dovere morale dell'occidente. Sconfitto l'impero comunista, avviata l'apertura delle società ex sovietiche, c'è stato un solo luogo dove questo principio democratico non è mai stato attuato: il Medio Oriente. In teoria per garantire la stabilità. Ma continuare a mantenere la stabilità a danno della libertà esclude sia l'una sia l'altra, come disse nel 2005 Condoleezza Rice in un discorso anti Mubarak al Cairo. Il Medio Oriente, infatti, è la regione meno stabile, più illiberale e più pericolosa del mondo.
Dopo l'11 settembre 2001, sono stati il socialista Tony Blair e il conservatore George W. Bush a sollecitare il cambiamento dello status quo mediorientale e a non voler più barattare stabilità con democrazia. Non sono stati sempre coerenti e hanno commesso molti errori. Obama è stato eletto con l'obiettivo di cambiare rotta, di tornare indietro, di riavviare una politica estera meno irresponsabile, meno idealista, più pragmatica. Una volta alla Casa Bianca, ha offerto agli ayatollah iraniani la mano del dialogo ed è andato al Cairo per rassicurare che la nuova America non avrebbe più tramato per cambiare i regimi del mondo islamico. Non erano chiacchiere, Obama ha anche dimezzato gli aiuti alle opposizioni democratiche in Iran e in Egitto. Il risultato è stato nullo. L'Iran non ha rinunciato al nucleare e i regimi arabi hanno continuato a reprimere.
La ribellione iraniana dell'estate 2009 ha spiazzato Obama, ancora più della piazza del Cairo. Ma ora la dottrina di Reagan di 19 anni fa, aggiornata in funzione anti-jihadista da Blair e Bush, è tornata d'attualità. Newsweek ha ospitato un editoriale dal titolo: «L'Egitto dimostra che Bush aveva ragione». L'Economist ha aggiunto un punto di domanda, ma ha riconosciuto che la semplice e meravigliosa idea di Bush secondo cui anche gli arabi vogliono, meritano e bramano democrazia, sembra improvvisamente molto saggia.
Il Sole24Ore-Moisés Naìm: " Mubarak tradito dalle sue riforme "

Moisés Naìm
«L'economia dell'Egitto ha resistito bene alla crisi….Le profonde riforme adottate fin dal 2004 hanno ridotto la vulnerabilità fiscale e monetaria. Lo sviluppo economico è stato superiore alle attese… La fiducia degli investitori è aumentata, la Borsa si è ripresa, così come i flussi di capitale, e le riserve internazionali appaiono in crescita…». Si tratta di alcune delle conclusioni contenute nel rapporto di valutazione del Fondo monetario internazionale sull'Egitto, presentate a marzo dello scorso anno. Ancor prima, la Banca mondiale aveva collocato l'Egitto al primo posto tra i paesi che stavano riformando le proprie economie. È evidente che le riforme non sono servite molto a Hosni Mubarak. Al contrario, hanno contribuito alla sua caduta. Com'è possibile? Tra le tante, due ragioni sono particolarmente rilevanti: la crisi mondiale e la corruzione. La crisi ha frenato la crescita dell'Egitto, riducendo i vantaggi che la popolazione, seppur lentamente, iniziava a percepire grazie a questi cambiamenti.
Tuttavia, a rivelarsi cruciale è stata la corruzione dilagante, ampiamente tollerata da Mubarak, che ha fatto sì che il popolo percepisse le riforme economiche come l'ulteriore trappola messa in atto da un governo che aveva cura dei ricchi e ignorava i poveri.
Da tutto ciò si può trarre un importante insegnamento per l'Egitto del futuro. Se le riforme del 2004 non verranno approfondite e ampliate, l'economia del paese non avrà alcuna speranza di creare i posti di lavoro necessari per offrire un'occupazione alla sua crescente popolazione giovanile. Ma parlare di riforme («come quelle di Mubarak!»), e soprattutto metterle in pratica, saranno pillole difficili da inghiottire per i leader che verranno. E sarà proprio la tensione tra impopolari riforme economiche e l'impazienza della gente a plasmare il futuro del grande paese arabo.
I prossimi giorni e mesi saranno sicuramente molto importanti. Ma altrettanto importanti, seppure molto più incerti, saranno i primi anni del post-Mubarak. Il governo provvisorio ormai imminente, che sicuramente riceverà l'appoggio dei militari e sarà composto da rappresentanti di diverse forze politiche, dovrà ripristinare la sicurezza dei cittadini, restituire la calma nelle strade e organizzare le elezioni.
Con molta probabilità, nei prossimi mesi gli egiziani entreranno in contatto con libertà e diritti fino ad ora sconosciuti. Nel corso di questa "luna di miele democratica" si assisterà al proliferare di nuovi leader, gruppi politici, mezzi di comunicazione e proposte alternative. E ci saranno sorprese: i Fratelli Musulmani, ad esempio, scopriranno che reclutare simpatizzanti pronti a competere con attraenti rivali politici che rifiutano il loro modello teocratico è paradossalmente molto più difficile che reclutare oppositori contro l'opprimente regime di Mubarak.
La speranza è che, terminata questa fase di transizione, salga al potere un presidente scelto grazie alle elezioni più libere e corrette mai tenutesi in Egitto. Il nuovo governo si troverà ad affrontare non soltanto una complicata matassa di restrizioni (economiche, politiche, istituzionali, internazionali), ma anche numerosi gruppi capaci di rifiutare od ostacolare le sue iniziative. Questo scenario, che contempla la possibilità di una stagnazione economica, mi porta nuovamente alla tematica delle riforme economiche, della corruzione e delle aspettative popolari.
In quelle dittature dove la corruzione delle più alte sfere è così oscena e tangibile come lo è la povertà della gran parte della popolazione, la supposizione generale è che l'uscita di scena delle élite corrotte porti quasi automaticamente a migliorare la situazione dei più poveri. È comune supporre che "il paese è ricco" e che, se soltanto i potenti e il loro seguito smettessero di rubare, quasi automaticamente ci sarebbe più benessere per tutti. Ovviamente ciò non corrisponde alla realtà, e gli sforzi per ridurre la povertà e attenuare le diseguaglianze tardano nel produrre quei risultati che la società spera ed esige una volta rovesciato il tiranno. Di fatto, la convinzione che i governi che succederanno a quello attuale possano ridurre i mali ereditati da Mubarak in tempi rapidi costituirà un'importantissima fonte di instabilità politica. Una nazione che scopre dopo trent'anni di poter essere la protagonista di grandi cambiamenti è una popolazione che non aspetterà più pazientemente nelle proprie case i risultati delle politiche governative. Piuttosto, uscirà nelle piazze a esigerli.
Non è detto che questa impazienza popolare debba crescere fino a minacciare la nascente democrazia egiziana. Per evitare che la frustrazione dei cittadini fomenti le ideologie di populisti, demagoghi e fondamentalisti, il governo dovrà dimostrare con i fatti che le riforme economiche hanno l'obiettivo di favorire la popolazione e non di arricchire i soliti corrotti. Ciò richiede che le riforme siano accompagnate da una lotta diretta alla corruzione. Si tratta di una lotta che non soltanto è giusta, ma rappresenta il requisito indispensabile per disporre del tempo necessario per ottenere i primi risultati.
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