Dal Cairo, e da Tunisi, due cronache oggi, 06/02/2011. La prima, di Davide Frattini sul CORRIERE della SERA, a pag.6, ci dà il ritratto aggiornato degli avvenimenti che cinvolgono la sorte di Mubarak. La seconda, di Francesca Paci, sulla STAMPA, da Tunisi, riflette le opinioni della giornalista più che la realtà della rivolta. Riaffiorano le sue radici ideologiche, che qui sono rappresntate dal modello turco, spacciato come la "speranza" dei giovani tunisini. Se la Paci fosse cittadina turca e avesse un impiego pubblico, sarebbe obbligata a indossare il velo. Ecco il modello turco che a lei piace tanto, al punto da prefigurarlo come una conquista di libertà.
Ecco i due articoli:
Corriere della Sera-Davide Frattini: " Egitto, cambio al vertice del partito. Mubarak resta, il figlio esce di scena"

DAL NOSTRO INVIATO IL CAIRO— I carrarmati risalgono il ponte sul Nilo e predispongono il nuovo posto di blocco. La strada verso la Liberazione diventa un po’ più lunga e va percorsa a piedi o in calesse, il servizio offerto da un accompagnatore rimasto senza lavoro con la fuga dei turisti. I controlli sono più pignoli, i militari vogliono scoraggiare chi ancora tenta di entrare nella piazza. Un ufficiale sale sulla corazza di un tank e prova a convincere i manifestanti ad andarsene. Oggi le banche riaprono e la maggior parte degli egiziani ritorna a lavorare: sul quadrato di Tahrir si affacciano uffici e palazzi dell’amministrazione, l’esercito vuole che il traffico possa di nuovo scorrere. «Non m’importa se diventa l’Hyde Park locale, ci restino quanto vogliono» , dice il neo-premier Ahmed Shafiq al servizio in arabo della Bbc. In realtà lo spazio rischia di restringersi, anche quello per la manovra politica. I vertici del partito di regime si sono dimessi, se ne sono andati Gamal Mubarak, il secondogenito del presidente che così chiude la possibilità di candidarsi alla successione, e Safwat el-Sherif, al potere dagli anni Sessanta, che lascia il posto di segretario generale a Hossam Badrawi, un medico proprietario di cliniche private, considerato un riformista. «Hanno messo in scena un gioco delle sedie— scrive Issandr el Amrani sul blog The Arabist — per installare una nuova élite. Badrawi è sempre stato un sostenitore di Gamal. Il golpe portato avanti dal vicepresidente Omar Suleiman e da altri militari ha bisogno di tenere Hosni Mubarak (proprio perché non sembri un colpo di Stato) e di una nuova classe politica)» . I Fratelli Musulmani respingono il restyling del partito: «Cercano di migliorare l’immagine, è solo un tentativo di guadagnare tempo» . Tempo che Frank Wisner, l’ex ambasciatore americano inviato al Cairo dal presidente Barack Obama, è pronto a concedere al raìs: deve restare per guidare il processo di transizione. «Ci vuole il consenso nazionale attorno alle prossime tappe e Mubarak ricopre un ruolo fondamentale» . Washington lo corregge: parla a titolo personale. Suleiman ha iniziato a incontrare i rappresentanti dell’opposizione, dice la televisione di Stato. In mattinata i Fratelli Musulmani saranno ricevuti dal vicepresidente nella sede del governo. Il tentativo è trovare un compromesso da qui alle elezioni di settembre. I gruppi anti-regime che hanno indicato Mohamed ElBaradei come leader per questa fase faticano a trovare un’intesa sulla trattativa. I manifestanti non sono disposti ad accettare cedimenti, dopo 300 morti in tutto il Paese e quasi 5.000 feriti (stime delle Nazioni Unite). L’Egitto non riesce a ritrovare la stabilità. Nel Sinai, un attentato — secondo i notiziari del regime— ha colpito il gasdotto verso la Giordania. L’attacco ha fermato anche le forniture di combustile per Israele. I manifestanti vogliono smentire con l’ordine e l’autorganizzazione le parole del presidente («senza di me il caos» ). Spazzano la sporcizia di piazza Tahrir con le foglie delle palme, si preparano a vivere qui ancora per giorni, ma temono che gli Stati Uniti abbiano ormai deciso di rassettare la rivolta.
La Stampa-Francesca Paci: "La generazione Facebook sogna il modello Turchia"

Nessuna domanda è assurda nella Tunisia incredula d’aver ottenuto la fine della dittatura. Il ragazzo scende dal tank e ci aiuta scavalcare i cavalli di frisia. La scena si ripete in portineria: una telefonata, un controllo lampo al passaporto e «ahlan ua sahlan», benvenuta nel cuore del nuovo governo tunisino senza neppure passare la borsa al metal detector.
«Il prezzo che abbiamo pagato per la democrazia è di 219 morti, il lavoro vero comincia adesso», spiega il portavoce del ministro Néji Zanii, scrivendo il suo numero di cellulare sul post-it. Non c’è stato tempo per i biglietti da visita. Tranne il mangianastri d’antan tutto è nuovo, a cominciare dall’accessibilità alle stanze del potere, inimmaginabile in qualsiasi Paese arabo e anche occidentale. Su due piedi mister Rajhi non ha spazio nell’agenda ma attraversa il corridoio che odora di vernice fresca e sorride strizzando gli occhi intensi con cui martedì sera ha conquistato i connazionali denunciando su Hannibal Tv, la prima tv privata della Tunisia, d’essere stato assaltato da duemila nostalgici del deposto presidente. Quando il giorno dopo ha prepensionato una trentina di poliziotti e altrettanti funzionari, la sua popolarità ha scavalcato il generale Ammar, l’eroe della rivoluzione che non sparò sulla folla.
La tv di Stato I tunisini non hanno distrutto i simboli del passato come gli iracheni le statue di Saddam, forse perché nessuno li rivendica. La tv di Stato T7 si trova sulla collina del Belvedere, un edificio avveniristico che avrebbe dovuto ospitare la Lega Araba se non fosse tornata in Egitto nel 1989. Il carrarmato davanti all’ingresso testimonia l’identificazione popolare tra il benalismo e i mille dipendenti, 175 dei quali sono giornalisti. Non tutto cambia alla stessa velocità. Il 15 gennaio però, il megafono del regime ha commissariato la direzione, azzerato il palinsento e si è ribattezzata National One. Al Jazeera è avvertita.
«Fino al 14 gennaio trasmettevamo le immagini di Ben Ali in visita all’ospedale come se nulla stesse accadendo e alimentavamo la nostra frustrazione con le dirette di Al Jazeera e France24», racconta Souad Ghannouchi. L’ultimo discorso del presidente diffuso da T7 è oggi il tormentone del rapper Mohammed Ali Ben Jamé che, imitandone la voce, ripete «Ghaltouni», mi hanno ingannato. Domani è un altro giorno e mentre Souad si è iscritta a un master in giornalismo, i colleghi hanno invaso la città armati di taccuini. Qualcuno si vanta d’aver già infranto due tabù mandando in onda l’intervista del leader dei Fratelli Musulmani locali che critica l’attuale governo.
Nei caffè Il desiderio represso di parlare si è liberato nei caffè della capitale, in quelli tradizionali frequentati solo da uomini e nei locali alla moda dove la clientela è mista e anche le ragazze velate indossano jeans e pullover velati. Basta sedere al Grand Café du Théâtre, a metà del viale della rivoluzione, e domandare al tavolo vicino come evolverà la Tunisia perché intorno si raduni una piccola folla. «Tutto purché gli islamisti non mettano il cappello sulla nostra libertà», inizia Nisrine, 26 anni, impiegata, bocca vermiglia come le unghie lunghe. «Solo la legge islamica garantisce l’eguaglianza sociale e ci può proteggere dall’anarchia», replica il coetaneo Said, tecnico tramviario. Le due amiche col capo coperto devono tornare al negozio dove sono commesse ma non rinunciano a dire la loro: «Valori islamici senza dittatura, modello turco, insomma».
Al caffé della kasba, a pochi passi dalla moschea Zaytuna, il più importante centro di studi islamici tunisino, cambia lo scenario ma non il tipo dibattito. Tra i divanetti in legno tarlato addossati alle maioliche bianche e azzurre, una quarantina di padri di famiglia fumano narghilé e bevono tè seguendo in tv la rivolta del Cairo. «Siamo diversi anche in questo, noi lo chiamamo tei e gli egiziani chai, i nostri figli hanno cacciato il dittatore in due settimane, in Tunisia siamo immunizzati dagli islamisti, abbiamo bandito la poligamia nel 1957» sentenzia Fauzi, 63, ex pilota. Zoppicando arriva dalla preghiera del venerdì Amdoun Fauzi, 41 anni, 15 dei quali passati in prigione perchè membro del Nahada, il partito di Rachid Ghannouchi: «Ora torno in politica, non ci interessa l’Iran ma vogliamo partecipare alla democrazia come in Turchia».
Paura di volare Che sia la minaccia islamista o l’anarchia, il futuro conquistato eccita ma crea anche ansia. «Sono nato il 15 gennaio 2011 e adesso inizio a lavorare» afferma Rashid Ben Othman, 50 anni, titolare dell’Instiute Tunisiana Sondage d’Opinion. Un suo studio del 2001 rivelava come oltre il 90% della popolazione fosse saturo ma non ha mai potuto pubblicarlo. Ora che le opinioni sono libere, però, si preoccupa che lo restino: «C’è il rischio di una deriva islamista, la gente non distingue tra laicismo e ateismo e gli estremisti ne approfittano. Per questo ho fondato la Lega per la difesa della laicità, la mia nuova battaglia».
Due incognite gravano sulla Tunisia: la paura del fanatismo, arrivata con il ritorno degli esiliati accolti all’aeroporto da eroi, e la ripresa economica, che tarda al mercato di rue Ettoumi, dove la carne continua a costare 14 dinari al chilo, circa 7 euro, meta più irraggiungibile della rivoluzione per chi ne guadagna 300 al mese. La generazione Facebook ha fatto la sua parte, sperando che basti. Ma nella El Kef ancora in piazza la polizia ha sparato uccidendo tre manifestanti e a Sidi Bouzid, nel Sud povero del Paese, dove Mohamed Bou Azizi ha iniziato la protesta, poter esprimere liberamente la propria rabbia fa poca differenza.
Prospettive «Non siamo mai tornati indietro, abbiamo abolito la schiavitù prima degli Stati Uniti, abbiamo liberato l’energia delle donne e siamo arrivati al 95% d’alfabetizzazione», osserva Walid Soliman, 35 anni, fior fiore della nuova leva di scrittori. Sta ultimando il dizionario della rivoluzione dei gelsomini e tra le parole chiave non ha intenzione diinserire «delusione». Nel suo studio, a ridosso della kasba, sono appesi i ritratti di Umberto Eco, Hemingway, Kafka: «Una volta un poliziotto mi chiese perché non c’era Ben Ali e io gli risposi che non pensavo fosse uno scrittore».
Gli ingredienti del successo ci sono. Ironia, coraggio, ingenuità e una diffidenza verso l’Occidente che se sfiora l’antipatia non ha nulla a che vedere con il fondamentalismo islamico.
«Speriamo bene, mi sono rifugiata qui nel 2003 per fuggire dal caos della Costa d’Avorio», confida la camerunense Julie Biapott, consulente della Africa Development Bank, rilassandosi tra i vapori dell’hammam. «Siamo pronti a prenderci la responsabilità della democrazia, lasciateci lavorare senza interferenze», chiosa il regista Murad Ben Shaik. L’Algeria che si prepara a scendere in piazza il 12 febbraio li guarda e li guardano i fratelli arabi, l’Occidente, il mondo. La Tunisia ce la farà? Oggi, qui, nessuna domanda è assurda.
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