Egitto, ancora e, soprattutto, cronache oggi 05/02/2011, sulla crisi egiziana su tutti i quotidiani. Riprendiamo l'articolo di Maurizio Molinari dalla STAMPA, che fa capire bene la confusione che inquina le analisi della politica americana. Confusione ripresa anche nel commento del FOGLIO. Nel pezzo successivo, sempre dal FOGLIO a pag.1, una cronaca accurata della giornata di ieri.
La Stampa-Maurizio Molinari: " Transizione, coinvolgere tutti "

Altri tempi
Barack Obama preme per «iniziare subito» in Egitto una «transizione reale ed efficace» attraverso un governo ad interim che includa una «vasta rappresentanza della nazione». È questa la richiesta che la Casa Bianca recapita a Hosni Mubarak, senza però spingersi fino a chiedergli esplicitamente di dimettersi.
Il presidente americano sfrutta il summit con il premier canadese per mandare due messaggi al raiss. Primo: «Le violenze contro manifestanti, attivisti dei diritti umani e giornalisti sono inaccettabili, i vecchi metodi della repressione non funzionano». Secondo: «È il momento di iniziare una transizione reale verso elezioni libere e giuste» attraverso «il coinvolgimento della vasta maggioranza degli egiziani», un’espressione che evoca l’apertura ai Fratelli Musulmani. L’ipotesi di un triumvirato
Per spingere Mubarak a farsi da parte, la Casa Bianca punta su un governo ad interim sotto l’egida di tre «uomini forti»: il vicepresidente Omar Suleiman, titolare dell’Intelligence, il capo di Stato Maggiore delle forze armate Sami Enan e il ministro della Difesa Mohamed Tantawi. L’idea è che un patto fra Intelligence e militari possa garantire la stabilità necessaria per accompagnare l’Egitto alle riforme costituzionali e quindi alle elezioni. Dovrebbero essere i tre uomini a mettere da parte Mubarak per dare inizio alla «transizione efficace», un termine che per la Casa Bianca implica l’entrata nel governo ad interim di tutte le forze politiche, inclusi i Fratelli Musulmani, che per ora sono fuorilegge. Non è tuttavia ancora evidente se Suleiman e i militari sono d’accordo nell’allontanare Mubarak. «Questa non è la Tunisia», avverte Suleiman dalla televisione Usa Abc. Quale ruolo per i Fratelli musulmani?
L’Amministrazione Obama vuole coinvolgerli nella transizione richiamandosi a quanto avviene in Algeria e Giordania, dove partiti islamici apparentati a quello egiziano sostengono i governi. Fra i personaggi di spicco dei Fratelli Musulmani si guarda a Muhammed Mehdi Akef, considerato il più «riformista», e a Mahmud Ezzat, che avrebbe un’influenza maggiore del leader Mohammed Badie. Ma l’inclusione nel governo ad interim incontra ostacoli: Suleiman li accusa di essere coinvolti nei disordini, Israele ricorda come Hamas nel suo statuto si definisca «espressione a Gaza dei Fratelli Musulmani» e il re saudita Fahd ha avvertito Obama sui rischi di far entrare gli islamici nel governo, temendo un contagio nel resto del Medio Oriente. Anche gli Emirati Arabi hanno recapitato un analogo messaggio, mentre fra i Paesi che spingono in direzione opposta vi sono Qatar e Turchia. Processo alla Cia: «Intempestivi»
È iniziata la caccia al colpevole del ritardo con cui l’America si è accorta della rivolta araba e la Cia è sul banco degli imputati. Nell’aula della commissione Intelligence del Senato la presidente Diane Feinstein, democratica della California, ha tempestato di interrogativi Stephanie O’Sullivan, l’agente della Cia in procinto di diventare vice direttore nazionale dell’Intelligence: «Avete mancato nel fornire al presidente una puntuale analisi di quanto stava maturando». O’Sullivan si è difesa affermando che «alla fine del 2010» venne consegnato al presidente un rapporto sull’instabilità «dell’Egitto e della regione», aggiungendo però che «non sapevamo quale poteva essere la miccia».
Le critiche investono il Dipartimento di Stato, perché Hillary Clinton reagì alle prime manifestazioni in Egitto affermando che Mubarak era «stabile». «Come è possibile che non vi fosse un piano pronto per la fine dell’era di Mubarak?», si chiede Andrea Mitchell della Msnbc. La sorte degli attivisti di Hrw
Il vicepresidente Joe Biden ha telefonato a Omar Suleiman per chiedere l’immediata liberazione di Dan Williams, il giornalista americano che al Cairo lavora come ricercatore per Human Rights Watch ed è stato arrestato dalle forze egiziane assieme agli altri funzionari locali dell’ufficio impegnato a documentare il rispetto dei diritti umani.
Il Foglio- " Il telefono rosso della casa Bianca"

Joe Biden, Hilary Clinton
Washington. Negli ultimi giorni la Casa Bianca ha messo in campo tutti gli strumenti di pressione di cui dispone per una transizione immediata del potere in Egitto. Ieri il New York Times raccontava gli scambi di telefonate ad alto livello fra gli uomini dell’Amministrazione Obama e il governo di Hosni Mubarak per ottenere l’obiettivo che Washington dichiara apertamente, almeno in linea di principio: assecondare la piazza “buona” del Cairo e favorire un governo di transizione guidato dall’attuale vicepresidente, Omar Suleiman. Dopo che l’inviato di Obama, Frank Wisner, è stato respinto da Mubarak per un secondo colloquio, il vicepresidente americano, Joe Biden, ha parlato con Suleiman, ripetendo la richiesta di una “transizione immediata a un governo democratico”; la chiamata di Biden ha innescato l’effetto domino dei contatti, che sono proseguiti fino alla tarda serata di giovedì. E’ a quel punto che il New York Times ha dato conto del clima febbrile delle trattative, cosa che la Casa Bianca non ha gradito per niente. Gli uomini di Obama hanno chiamato le redazioni più importanti di Washington per invitarle a non diffondere racconti troppo sbilanciati sulla versione del regime change immediato. Così ieri, dopo la bufera, è arrivato il momento dello stallo. Hillary Clinton e il consigliere per la sicurezza nazionale, Tom Donilon, sono andati a Monaco per il forum Wehrkunde sulla sicurezza, mentre Obama ha incontrato alla Casa Bianca il primo ministro canadese, Stephen Harper. Appuntamenti strategici importanti, certo, ma secondo John Barry di Newsweek il vero motivo delle divagazioni dal dossier egiziano è che “non c’è più molto che Washington possa fare sulla crisi egiziana”. I prossimi passi, scrive il navigato corrispondente al Pentagono, sono legati alle scelte degli egiziani. Fonti dell’Amministrazione dicono al Foglio che “il cambio di governo è più lontano di quanto molta gente creda”, perché la dipartita di Mubarak è un fattore di destabilizzazione dell’intera regione. In più, al Pentagono si lavora molto per mitigare le iniziative del dipartimento di stato, che a sua volta lavora per mitigare quelle della Casa Bianca. Da una parte, c’è il popolo egiziano e le sue richieste di diritti universali che l’America ha il compito morale di assecondare; dall’altra, c’è lo schema instabile della regione e il timore che la cura sia peggiore della malattia. “C’è un dibattito all’interno dell’Amministrazione, ma non direi una divisione netta”, dice la stessa fonte, che illustra qualche dettaglio: “Bisogna tenere insieme esigenze che hanno punti di attrito. Ad esempio i rapporti con Israele e Arabia Saudita, che stranamente sul destino dell’Egitto sono d’accordo fra di loro ma non con Washington”. Il premier italiano, Silvio Berlusconi, ha auspicato ieri “che avvenga una transizione democratica, senza rotture con il presidente Mubarak, che tutto l’occidente, Stati Uniti in testa, considerano un uomo saggio”. Mubarak, ha proseguito Berlusconi, “ha già annunciato che né lui né i suoi figli si presenteranno alle elezioni”.
Il Foglio- " Il canto del Cairo "

Il Cairo
Il Cairo. “La vittoria si avvicina”, canta da un palco nel mezzo della piazza Tahrir Azza Balbaa, celebre voce della musica egiziana. Attorno ci sono migliaia di persone che battono le mani e danzano. Nel cuore delle manifestazioni antiregime, è tornata la tranquillità. Si canta, si gridano slogan contro Hosni Mubarak, si mostrano cartelli in arabo e in inglese: “Once and for all, Mubarak must fall”, Mubarak deve cadere una volta per tutte. Ma poche ore prima il centro del Cairo era stato il teatro di una battaglia tra i manifestanti e i sostenitori del regime. Ieri, nel “giorno della cacciata”, chi voleva entrare nella piazza doveva superare tre o quattro file di controlli su documenti, borse e zaini. Sul palco, vicino agli amplificatori, c’erano i ragazzi del movimento di Mohammed ElBaradei, il portavoce dell’opposizione. Il loro leader, invece, ha preferito rimanere nella sua casa del Cairo. Da lì ha chiesto al presidente Mubarak di “andarsene con dignità” e di evitare al paese il caos e la paralisi. Il premio Nobel per la Pace, tornato qualche mese fa al Cairo dopo aver vissuto per anni all’estero, è stato scelto dai movimenti della piazza come leader. Sinora, tuttavia, è stato visto in strada soltanto una volta. Non è mai salito su un palco, non ha arringato la folla. E il suo ultimatum di qualche giorno fa (“Mubarak deve andarsene entro venerdì o marceremo sul Palazzo presidenziale”) non è stato reiterato con forza. ElBaradei è assente anche agli incontri dell’opposizione che dovrebbe rappresentare. I movimenti della piazza hanno creato un comitato di dieci membri per i negoziati con il regime. ElBaradei dovrebbe essere il responsabile del gruppo, ma diverse fonti dell’opposizione hanno rivelato che il Nobel mantiene i contatti via telefono, senza partecipare ai meeting. C’è chi sostiene che sia troppo anziano per andare in piazza. Bassam Kamel, un architetto di 41 anni dell’Associazione nazionale per il cambiamento, spiega che ElBaradei sarebbe circondato dalla folla se partecipasse alle proteste, e la sicurezza diventerebbe difficile. Ma la sua assenza mette in dubbio la sua leadership. “E’ un brav’uomo, ma politicamente è un disastro – spiega l’editore Hisham Kassem – Se le elezioni fossero domani, 75 milioni di egiziani voterebbero per Omar Suleiman e cinque milioni per ElBaradei. E se chiedesse ai manifestanti di tornare a casa, gli direbbero di andarsene”. ElBaradei ha detto che è pronto a candidarsi alle elezioni presidenziali, “se il popolo lo chiede”. Lo stesso ha annunciato il segretario della Lega araba, Amr Moussa, che ieri era in piazza Tahrir, mentre i Fratelli musulmani hanno fatto sapere di non essere interessati a incarichi di governo. Per il vicepresidente Suleiman, Mubarak resta in carica “ma il suo ruolo è formale”. Ieri la polizia ha arrestato altri giornalisti stranieri: cinque sono stati fermati poco lontano dalla grande piazza delle proteste, fra loro anche due italiani, che sono stati subito rilasciati.
Per inviare la propria opinione alla Stampa e al Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti.