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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - Il Manifesto Rassegna Stampa
04.02.2011 Egitto: chi minimizza e chi vede nei Fratelli Musulmani un fattore positivo
commenti di Ian Buruma, Stephen Cohen, Rossana Rossanda

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Il Manifesto
Autore: Ian Buruma - La redazione del Foglio - Rossana Rossanda
Titolo: «Gli islamici potrebbero prevalere. La scelta è del popolo, non nostra - Non sarà un paese islamista - Non è tempo di esitare»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/02/2011, a pag. 15, l'articolo di Ian Buruma dal titolo " Gli islamici potrebbero prevalere. La scelta è del popolo, non nostra ". Dal FOGLIO, a pag. 1-3, l'articolo dal titolo " Non sarà un paese islamista ". Dal MANIFESTO, a pag. 1-6, l'articolo di Rossana Rossanda dal titolo " Non è tempo di esitare ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

CORRIERE della SERA - Ian Buruma : " Gli islamici potrebbero prevalere. La scelta è del popolo, non nostra "


Ian Buruma

Ian Buruma ha colto l'ennesima occasione per dimostrare la sua totale incomprensione in fatto di politica.
La sua 'analisi' ricorda quella pubblicato sul quotidiano di Rocca Cannuccia di ieri e criticata da IC (
http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=999920&sez=110&id=38398).
Buruma scrive : "
Forse i Fratelli musulmani potrebbero vincere le elezioni. O forse no. Ma spetta agli egiziani scegliere. Negar loro questa libertà rischia di far precipitare la situazione e di condurre proprio a quell’estremismo religioso che sono in tanti, giustamente, a temere ". Cercare di impedire ai Fratelli Musulmani di salire al potere significherebbe far piombare l'Egitto nel fondamentalismo islamico...appoggiarli, invece, a che cosa porterebbe?
Ecco il pezzo:

Negli anni Ottanta, quando il regime comunista in Polonia si vedeva costretto ad affrontare il crescente malcontento delle masse, il portavoce ufficiale del governo, Jerzy Urban, fece notare a un giornalista straniero che il Paese aveva solo due alternative, il comunismo o l'egemonia della Chiesa cattolica. «O noi» , disse, «o la Madonna Nera di Czestochowa» . Simili avvertimenti sono stati ripetuti in varie occasioni dagli autocrati del Medio Oriente, non da ultimo dallo stesso Hosni Mubarak in Egitto: l’unica alternativa allo Stato laico sono gli islamisti, vale a dire o Mubarak o la Fratellanza musulmana. Il messaggio dev'essere sembrato assai convincente ai governi occidentali, specie gli Stati Uniti, che hanno continuato a sostenere Mubarak e gli altri «alleati» arabi con aiuti finanziari e militari. Per i fautori della diffusione della democrazia nel mondo, questo atteggiamento pone uno scomodo dilemma. L'Islam, e sono in molti a pensarlo, è una minaccia alla democrazia. Si dice da più parti che l'Occidente sia «in guerra con l'Islam» , per citare l'attivista somala Ayaan Hirsi Ali. Ma davanti al rischio che i partiti islamici possano vincere le elezioni, dovremmo forse rinunciare alla democrazia? Fu questa la linea seguita dalla politica francese dopo che il Fronte di salvezza islamico vinse il primo turno delle elezioni in Algeria nel 1991. L’anno dopo, la Francia appoggiò il colpo militare. Identica la politica degli Stati Uniti quando Hamas vinse le elezioni palestinesi nel 2006. Hamas non è stato riconosciuto. Gli americani hanno appoggiato i governi autoritari in Egitto, Arabia Saudita e in Asia Centrale, perché l'alternativa è sempre parsa molto peggiore. Da questa difficile scelta spunta un altro dilemma. La repressione spietata ben di rado conduce alla moderazione. Più è brutale il giro di vite imposto ai partiti religiosi negli Stati autoritari laici, più si radicalizza la loro politica. Osama Bin Laden non avrebbe mai trovato tante reclute zelanti per i suoi massacri se i regimi in Egitto, Arabia Saudita e Algeria fossero stati meno oppressivi e meno corrotti. La politica della religione, o la politica basata su una fede religiosa, non è immancabilmente violenta, nemmeno nel mondo islamico. Né sono i musulmani gli unici a ribellarsi contro i regimi laici in nome della fede. L'affermazione di Urban contiene un nocciolo di verità: la Chiesa cattolica ha svolto un ruolo di spicco nella ribellione contro il comunismo. E lo stesso è vero dei buddhisti in Birmania contro la giunta militare. Le organizzazioni religiose sanno mobilitare il popolo, incitandolo alla sollevazione contro governi corrotti e oppressivi. Le ribellioni sono morali, oltre che politiche. È vero, tuttavia, che quando le istituzioni religiose si impadroniscono del potere politico, non sono mai democratiche. E non possono esserlo, poiché l’autorità religiosa impone l’obbedienza al potere divino, che per definizione non accetta la sfida della ragione. Quando l’ayatollah Ruhollah Khomeini e i suoi seguaci dirottarono la rivoluzione iraniana del 1979, la democrazia divenne impossibile: il mullah si era trasformato in dittatore. Ma ciò non significa che i partiti politici, i cui programmi si ispirano a precetti religiosi, non possano essere democratici. I cristiano democratici non mettono a rischio le democrazie europee. Il «Partito turco della giustizia e dello sviluppo» , fondato dai riformatori islamici, non è contrario ai principi democratici (c'è da chiedersi, piuttosto, se sia liberale). Anzi, uno degli aspetti più interessanti delle sollevazioni in Tunisia e in Egitto è il ruolo defilato svolto dagli islamisti. In Tunisia, il partito islamico fuorilegge Ennahda (Rinascita) era assente. In Egitto, i Fratelli musulmani, che sebbene messi al bando rappresentano una forza non indifferente in termini di sostegno popolare, sono rimasti per lo più sullo sfondo. Non esiste un protagonista, in nessuno dei due Paesi, lontanamente paragonabile a Khomeini. Non si è levata una sola parola della truce retorica jihadista. Ciò che sembra aver spinto milioni di persone nelle strade è un senso comune di frustrazione economica, di indignazione per la corruzione statale, e di umiliazione per l’oppressione subita. Tali sentimenti possono accentuare lo zelo religioso, o addirittura spingere ad azioni di spaventosa violenza in nome della fede. Un simile esito appare ancora possibile, specie se la rivolta fallisce e innesca una repressione ancor più aspra. Ma anche nel migliore dei casi, se fossero indette libere elezioni, forse dopo un governo ad interim guidato da figure quali Mohammed ElBaradei, i partiti islamici potrebbero assumere un ruolo di spicco. La Fratellanza musulmana in Egitto, seppur fuorilegge, costituisce una formidabile organizzazione. Ci sono buone ragioni per sentirsi preoccupati, non tanto per le scarse propensioni democratiche degli islamisti, quanto piuttosto per le loro tendenze illiberali. Alcune forme di governo autoritario possono lasciar spazio a una certa misura di liberalismo, e risultano sicuramente più vivibili del populismo democratico illiberale. Ma sembra poco probabile che l'attuale rivoluzione partorisca un autoritarismo liberale, e pertanto le conseguenze di una mancata elezione, o di una repressione violenta, oppure dell'instaurarsi di un nuovo regime dittatoriale sono tutte opzioni peggiori dell'idea di tentare la strada della democrazia. L'Egitto non è l'Iran né l'Algeria. E abbiamo visto cosa succede quando le aspirazioni democratiche vengono frustrate per paura dell’estremismo religioso. Nel 1992 il colpo di Stato militare annientò gli islamisti in Algeria, molti dei quali— è vero — non erano né liberali, né convinti democratici, ma la guerra civile che ne è seguita ha fatto oltre duecentomila vittime. I manifestanti al Cairo, Alessandria e Suez non sembrano essersi abbandonati né alla violenza, né al fanatismo religioso. Gli scontri peggiori si sono avuti solo quando i sostenitori di Mubarak hanno attaccato la folla. È impossibile valutare con certezza l'esito della situazione. Forse i Fratelli musulmani potrebbero vincere le elezioni. O forse no. Ma spetta agli egiziani scegliere. Negar loro questa libertà rischia di far precipitare la situazione e di condurre proprio a quell’estremismo religioso che sono in tanti, giustamente, a temere.

Il FOGLIO - " Non sarà un paese islamista "


Stephen Cohen

Nel pezzo vengono riportate le dichiarazioni di Stephen Cohen, il quale nega la possibilità che l'Egitto possa diventare una teocrazia simile all'Iran, questo perchè : " Sebbene siano generalmente buoni musulmani o buoni cristiani, gli egiziani hanno l’orgoglio di definirsi ‘il primo stato arabo moderno’ e non vogliono certo mettere a rischio i possibili benefici delle loro azioni rivoluzionarie consegnandoli nelle mani di persone che non condividono buona parte dei loro obiettivi. ". Come se ai Fratelli Musulmani non riuscisse un colpo di mano del genere e come se fossero estranei a quanto sta avvenendo. 
Secondo Cohen, Israele non dovrebbe preoccuparsi per il futuro, perchè "
molto difficilmente la nuova leadership del Cairo, sostenuta dalle nuove generazioni, metterà in discussione i trattati di pace con Israele ". Peccato che le dichiarazioni dei Fratelli Musulmani siano in disaccoro con l'analisi di Cohen. Anzi, solidarizzano con Hamas, associazione terroristica al governo a Gaza che, nel suo statuto, ha come punto fondamentale la distruzione di Israele.
Ecco l'articolo:

New York. “Né l’esercito, né Mubarak accetteranno che l’Egitto finisca nelle mani del suo nemico più implacabile, l’islamismo radicale”. Lo dice al Foglio Stephen Cohen, presidente dell’Institute for Middle East Peace & Development e consigliere della Casa Bianca sul medio oriente. Negli ultimi trent’anni, Cohen ha lavorato per facilitare i negoziati nell’area mediorientale, da consulente del National Intelligence Council. Ha contribuito anche al celebre discorso che il presidente americano, Barack Obama, ha tenuto nel viaggio al Cairo del 2009. Cohen è in costante contatto con i vertici militari del Cairo: la scorsa settimana è stato fra i primi stranieri a sapere che il rais egiziano, Hosni Mubarak, avrebbe annunciato presto l’intenzione di lasciare la guida del paese. “In almeno venti dei suoi trent’anni al potere – dice l’analista – Mubarak ha usato la sua leadership per condurre una battaglia brutale contro l’islamizzazione dell’Egitto. Quando il suo vice, Omar Suleiman, sarà in grado di spingere i negoziati con i manifestanti sino a un accordo di transizione politica, avremo la data delle prossime elezioni, che si potrebbero tenere già prima di settembre. La composizione del Parlamento cambierà, la Costituzione sarà modificata, la legge marziale sarà rimossa e il presidente avrà meno poteri”. Cohen nota che, con il discorso di martedì sera, il presidente Hosni Mubarak “ha fatto l’ultimo tentativo di proteggere la propria dignità politica e quella della sua Amministrazione.
Questo tentativo, tuttavia, non è servito a ottenere il rispetto della piazza. Mubarak vuole salvare le apparenze, vuole dare l’idea che non è stato cacciato ma che se ne andrà alla fine del suo mandato, come lui stesso ha annunciato la scorsa settimana”. Per portare a termine il suo piano, osserva Cohen, il rais si sta servendo anche dell’esercito: “Il fatto che i militari abbiano rifiutato di usare la forza contro la folla rappresenta un successo per i leader dei manifestanti. La scelta dell’esercito ha un ruolo importante del piano di Mubarak per portare i rivoltosi allo sfinimento. La mancanza di riserve alimentari, il declino drammatico dell’economia, la chiusura delle banche e i limiti di comunicazione stanno iniziando a produrre una crisi che potrebbe obbligare la classe media a mobilitarsi contro i manifestanti”.
Le velleità di Mubarak, però, sono state presto smontate dalla scelta del presidente americano, Barack Obama, che ha chiesto una transizione a partire da subito. “Le parole di Obama hanno fatto capire ai generali che stanno rischiando di alienarsi il favore americano tanto da vedersi negare gli aiuti economici, l’invio di nuove forniture militari e l’addestramento che le loro truppe ricevono durante le esercitazioni congiunte con gli Stati Uniti – dice Cohen – Io credo che Mubarak abbia capito la paura dell’esercito ed è per questo che ha riattivato la polizia segreta, cercando di produrre un nuovo esempio di manifestanti a noleggio, un classico egiziano per garantire supporto al governo”. “Le violenze di questi giorni in Egitto avranno effetti contraddittori – sostiene Stephen Cohen – Da una parte rafforzeranno Mubarak, che potrà dimostrare che le manifestazioni possono portare al caos; dall’altra costringeranno la Casa Bianca a essere più insistente con il presidente egiziano, forzandolo a lasciare il potere”.
L’esercito, secondo Cohen, è l’attore fondamentale nella mediazione del vicepresidente egiziano, Omar Suleiman: “Il sostegno dei militari a un piano per la transizione è essenziale. Bisogna prevenire uno scontro tra le forze armate e i giovani che manifestano. Lo stratagemma di Mubarak, che cerca di usare sostenitori fatti in casa per aizzare lo scontro con i manifestanti, non ha avuto successo perché i rivoltosi hanno di gran lunga superato gli uomini del presidente in numero e in energie”. Stando alle fonti egiziane di Cohen, “c’è ragione di credere che Suleiman abbia fatto un accordo con il nuovo ministro del Tesoro per cambiare drasticamente le politiche del suo predecessore. I resoconti di persone bene informate dicono che presto saranno cancellati tutti i dazi sulle importazioni di cibo. Questa misura ridurrebbe gli effetti della crisi economica, rafforzando la posizione dei manifestanti e quella del vicepresidente Suleiman”. Riguardo alle perplessità di molti osservatori sul ruolo dei Fratelli musulmani, Cohen ripete che “in Egitto non finirà come in Iran, quella che vediamo in piazza non è una società che sogna di diventare uno stato islamico. Sebbene siano generalmente buoni musulmani o buoni cristiani, gli egiziani hanno l’orgoglio di definirsi ‘il primo stato arabo moderno’ e non vogliono certo mettere a rischio i possibili benefici delle loro azioni rivoluzionarie consegnandoli nelle mani di persone che non condividono buona parte dei loro obiettivi. I giovani, in particolare, non hanno alcun interesse a perdere la loro chance per un futuro decente, che potrebbe essere messo in pericolo con l’islamizzazione della società e della cultura. O, ancora peggio, con il ritorno dell’era dell’intensa rivalità militare con Israele. Sanno che le due cose sono state un disastro per i loro fratelli e per i loro padri, molti dei quali hanno perso la vita nelle inutili battaglie o hanno sprecato i loro anni giovanili combattendo attorno al Canale di Suez, in carri armati che rischiavano di saltare sotto i colpi dell’aviazione israeliana o dell’artiglieria”. Secondo Cohen, neanche i vicini israeliani dovrebbero essere troppo preoccupati delle rivolte di questi giorni in Egitto, perché “molto difficilmente la nuova leadership del Cairo, sostenuta dalle nuove generazioni, metterà in discussione i trattati di pace con Israele. Gli israeliani non sono gli unici a volere la fine dei conflitti in medio oriente: ci sono anche gli egiziani. Certo – osserva l’analista – il governo di Netanyahu avrebbe voluto Mubarak presidente fino a centovent’anni, perché gli israeliani non sono abbastanza sicuri che il successore del rais rispetti gli accordi tra Gerusalemme e il Cairo”. Come si costruisce una democrazia Secondo Cohen, questa sfiducia ha iniziato a generarsi durante la visita a Gerusalemme dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat, nel 1977, quando “gli israeliani credevano che le decisioni fossero prese esclusivamente da lui e che il popolo non le condividesse. Quando Sadat disse ‘mai più guerra’, gli israeliani credevano che Sadat stesse parlando a loro, per convincerli. In realtà, il presidente egiziano stava cercando di mandare questo messaggio alla propria gente, agli egiziani: non voleva altre guerre contro Israele. La classe media del Cairo non chiedeva certo che i giovani passassero tutta la loro vita a imparare come attraversare il Canale di Suez, e il presidente Sadat doveva rispondere a questo malcontento. Gli israeliani hanno trascurato l’eco interna della decisione di Sadat, hanno sempre pensato che fosse semplicemente una rottura da tutta quella che era stata la tradizione del mondo arabo fino a quel momento”. Il pericolo del contagio innescato dalle rivolte di gennaio a Tunisi potrebbe mettere in pericolo altri regimi nella regione. Cohen ritiene che, questa volta, “gli effetti delle proteste egiziane si faranno sentire maggiormente nelle società che hanno una politica simile a quella del Cairo nei confronti degli Stati Uniti, che danno spazio al libero mercato e promuovono un’educazione secolarizzata. Per questo, credo che il pericolo maggiore sia in Giordania, dove il re ha sfiduciato il governo nella speranza di prevenire manifestazioni di piazza ad Amman. La Siria è troppo incline a usare la forza bruta contro qualunque minaccia al regime, e i siriani non possono dimenticare quando il padre dell’attuale presidente, Bashar el Assad, decise di usare l’artiglieria e i carri armati per il massacro nella città di Hama, centro delle trame sunnite contro la sua autorità”. Cohen sostiene che le richieste americane di una transizione rapida e democratica siano legittime. “Mi preoccupa, però, il modo in cui confondiamo la democrazia con elezioni il più presto possibile – avverte Cohen – L’abbiamo fatto una volta con i palestinesi e stiamo ancora cercando di gestire i risultati di quelle elezioni, che hanno portato al potere Hamas. Dobbiamo arrivare a una struttura che renda possibile un voto in cui ci siano forze non fondamentaliste, organizzate a sufficienza per condurre una campagna elettorale decente. Ci deve essere un processo che porti una serie di candidati credibili a emergere e a contendersi la presidenza. Se rinunciassimo a fare questo, ci prenderemmo un grosso rischio. Abbiamo visto già abbastanza volte che una scommessa di questo tipo è spesso destinata a fallire”.

Il MANIFESTO - Rossana Rossanda : " Non è tempo di esitare "


Rossana Rossanda

Rossanda scrive dei Fratelli Musulmani : " Chi di noi ha conosciuto qualcuno dei Fratelli Musulmani sfuggito alla forca o alla galera, sa che non sono affatto simili ai talibani, anche se certamente simpatizzano per Hamas, che neanch’essa è talibana. Ma detesta Israele, e chi sarebbe diverso a Gaza?". Hamas vuole cancellare Israele, vogliamo metterla al bando per questo peccatuccio da poco ? In fondo non potrebbe essere diverso a Gaza, odiare gli israeliani, forse perchè non ne è rimasto nemmeno uno. E vogliamo condannare i Fratelli Musulmani perchè solidarizzano con Hamas ?
Rossanda continua : "
Più paradossale di ogni altro è l’appoggio che a Mubarak danno unitamente Netanyahu e Abbas. La famosa democrazia israeliana e il popolo che essa stoltamente opprime. ". Paradossale che Israele appoggi Mubarak ? E perchè ? Mubarak è un dittatore, ma ha l'enorme pregio di aver continuato la linea di Sadat per quanto riguarda i rapporti con Israele, una pace fredda ma comunque una pace.
I Fratelli Musulmani hanno dichiarato di non essere interessati a continuarla. Anche Abu Mazen appoggia Mubarak ? Si sarà reso conto che è meglio di Hamas e dei Fratelli Musulmani, uno spiraglio di realismo che non potrà mai aprirsi nella mente di Rossanda.
"
Una transizione in Egitto guidata da un uomo come El Baradei, che non è un rivoluzionario ma semplicemente un giusto, non interessa il governo israeliano, perché non consentirebbe a Israele proprio tutto, e neanche all’Autorità palestinese perché non si schiererebbe per principio contro Hamas.". 
El Baradei è un giusto? Rossanda, evidentemente, ritiene che il suo appoggio al nucleare iraniano sia una cosa giusta. E il fatto che el Baradei sia sostenuto anche dai Fratelli Musulmani dovrebbe essere un fattore positivo, per Rossanda, che continua :
Ma, si obietta, se non si fa barriera all’islam Israele sarà distrutta. Non è vero. Quasi tutto il mondo, compresi molti musulmani, è per l’esistenza dello stato di Israele. ". Il mondo è per Israele? Ci fa proprio piacere, ma la cosa che rende più felici è che anche 'molti musulmani' lo sono, in silenzio. La maggioranza, invece, esprime a chiare lettere e con guerre, razzi, terrorismo e antisemitismo la sua volontà di cancellarlo.
Ma Rossanda, evidentemente, deve essere un po'distratta.
Rossanda continua esponendo la sua teoria al riguardo, una tesi che rasenta il complottismo : "
Chi ha creato l’islamismo radicale? È stato lo Scià a costruire il carisma di Khomeini. Sono gli Stati Uniti ad armare talebani contro l’Urss, ed è Bush che ha incastrato contro di loro il suo paese in Afghanistan. E ha distrutto Saddam Hussein dopo averlo spedito a dissanguarsi contro l’Iran. È la destra israeliana, oggi Netanyahu e Avigdor, a costruire Hamas.". Non è mai l'aggressore ad essere colpevole, ma la vittima. Lo scià di Persia è stata cacciato da Khomeini? Ma è colpa sua, mica dell'islam radicale. C'è Hamas? Colpa di Netanyahu e Lieberman (che Rossanda chiama solo per nome, Avigdor, confondendolo con il cognome), non dell'antisemitismo islamico. Ovvio, no?
Ecco l'articolo:

Mubarak lascia sparare la sua polizia sulla folla e l’Onu avvia il ritiro dei suoi funzionari.Non è più tempo di esitare fra le incertezze di Obama spiegate sul manifesto di ieri da Marco d’Eramo e l’«avanti con il popolo egiziano » di Slavoj Zizek. Sto con Zizek. Senza sottovalutare affatto le ragioni di d’Eramo. Non siamo di fronte a scelte tranquille e felici. Da un pezzo una cosiddetta laicità nel Maghreb e nel MedioOriente è garantita soltanto da regimi dittatoriali. Da un pezzo lasciare libertà di voto può condurre a un’affermazione non solo islamica,ma islamista. Una democrazia in senso proprio, che non è soltanto fare le elezioni ma stabilire un’effettiva divisione dei poteri - esecutivo, legislativo e giudiziario - cioè una sicurezza di uguali diritti di fronte alla legge, non è garantita da nessuno. E tuttavia non è possibile opporre alla rivolta popolare contro l’autocrazia il pericolo rappresentato da una sua libera espressione. Anche nel voto. Anni fa le elezioni hanno portato in Algeria a una vittoria schiacciante del fronte islamico. Il governo e l’esercito hanno annullato quelle elezioni. Risultato: in Algeria non c’è democrazia, né partiti, né sindacati, né una vera libertà di stampa, né diritti uguali per le donne - tutto devastato. E non basta: le forze del governo hanno sgozzato centinaia di infedeli - infedeli a chi? - nei villaggi. Come regime laico è bizzarro, come democrazia non ve n’è traccia. In Tunisia è tutt’ora decisivo l’esercito. Conosco un solo esercito che ha portato a una democrazia, quello portoghese del 1974. Speriamo che questo sia il secondo. In Egitto, senza pari più grande, più affamato, più strategico, Mubarak non se ne vuole andare e l’esercito sembrava fino a ieri diviso. La polizia spara per uccidere. Obama, che aveva ammonito Mubarak a non reprimere, che farà adesso? L’Europa si è resa ridicola invitando alla moderazione, «non esagerare, popolo», «non esagerare, Mubarak » come se si trattasse d’un gioco fra ragazzini.Nessuno ha sostenuto sul serio El Baradei, col pretesto che non era abbastanza forte, e tutti temono come la peste i Fratelli Musulmani, quasi che fossero Al Qaeda travestita. Gratta gratta, dove c’è l’islam c’è il terrorismo. Chi di noi ha conosciuto qualcuno dei Fratelli Musulmani sfuggito alla forca o alla galera, sa che non sono affatto simili ai talibani, anche se certamente simpatizzano per Hamas, che neanch’essa è talibana. Ma detesta Israele, e chi sarebbe diverso a Gaza? E qui veniamo al vero dunque. Più paradossale di ogni altro è l’appoggio che a Mubarak danno unitamente Netanyahu e Abbas. La famosa democrazia israeliana e il popolo che essa stoltamente opprime. Per Israele, Mubarak è l’alleato storico degli Stati Uniti e quindi un amico, del resto ne ha formalmente riconosciuto l’esistenza come stato. Per l’Autorità palestinese è Mubarak che fa da barriera ad Hamas. La debolezza degli oppressori raggiunge quella degli oppressi. Una transizione in Egitto guidata da un uomo come El Baradei, che non è un rivoluzionario ma semplicemente un giusto, non interessa il governo israeliano, perché non consentirebbe a Israele proprio tutto, e neanche all’Autorità palestinese perché non si schiererebbe per principio contro Hamas. Ma, si obietta, se non si fa barriera all’islam Israele sarà distrutta. Non è vero. Quasi tutto il mondo, compresi molti musulmani, è per l’esistenza dello stato di Israele. La sua vera difesa sta nella nostra storia accanto a quella degli ebrei - sta, avrebbe scritto Giaime Pintor, nel sangue d’Europa. E non sbagliamo di bersaglio. Chi ha creato l’islamismo radicale? È stato lo Scià a costruire il carisma di Khomeini. Sono gli Stati Uniti ad armare talebani contro l’Urss, ed è Bush che ha incastrato contro di loro il suo paese in Afghanistan. E ha distrutto Saddam Hussein dopo averlo spedito a dissanguarsi contro l’Iran. È la destra israeliana, oggi Netanyahu e Avigdor, a costruire Hamas. È stata l’inerzia dell‘Unione europea. Errori di questo calibro si scontano. Non aggiungiamo adesso quello di opporci a un sussulto di popolo. È stupefacente che i funzionari dell’Onu lascino l’Egitto in fiamme invece che condannare senza indugio Mubarak e interporsi contro le sue fucilate. E noi finiamola di prendere per unamassa di deficienti coloro che non hanno potere e tentano di ribellarsi. Prima riusciranno a farcela, prima si assumeranno le loro responsabilità. È loro il destino, che lo prendano in mano.

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