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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Corriere della Sera - Il Giornale - La Repubblica Rassegna Stampa
04.02.2011 Egitto, il rischio che cada nelle mani dei Fratelli Musulmani è concreto
commenti di Maria Giovanna Maglie, Ayaah Hirsi Ali, Souad Sbai, Andrea Morigi. Intervista a Mubarak di Christiane Amanpour

Testata:Libero - Corriere della Sera - Il Giornale - La Repubblica
Autore: Maria Giovanna Maglie - Ayaan Hirsi Ali - Souad Sbai - Andrea Morigi - Christiane Amanpour
Titolo: «L’America aiuti i laici alle elezioni per arginare i Fratelli musulmani - Guai a chi sottovaluta il pericolo del fondamentalismo - Nel palazzo del raìs: Penso solo al mio paese basta scontri fra fratelli»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 04/02/2011, a pag. 1-17, l'articolo di Maria Giovanna Maglie dal titolo "Comunque finisca l’Occidente ha perso ", a pag. 17, l'articolo di Andrea Morigi dal titolo "  adesso Abu Omar detta la linea alla rivolta". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Ayaan Hirsi Ali dal titolo " L’America aiuti i laici alle elezioni per arginare i Fratelli musulmani ", preceduto dal nostro commento. Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Souad Sbai dal titolo " Guai a chi sottovaluta il pericolo del fondamentalismo ". Da REPUBBLICA, a pag. 13, l'intervista di Christiane Amanpour a Hosni Mubarak dal titolo " Nel palazzo del raìs: Penso solo al mio paese basta scontri fra fratelli ".
Ecco i pezzi:

LIBERO - Maria Giovanna Maglie : " Comunque finisca l’Occidente ha perso "


Maria Giovanna Maglie

Si fa presto a dire la piazza, si fa presto a dire il popolo, magari ignorando che al Cairo a manifestare non si vedono le donne, che nessuno si sente in dovere di interrogare gli intellettuali moderati, che i cristiano copti sono una realtà forte e negletta, che l’ondata antioccidentale cresce ogni giorno, che l’obiettivo sono diventati i giornalisti stranieri e le troupe delle tv. Di quale transizione stanno parlando a Bruxelles e a Washington? Davvero credono che El Baradei sia l’alternativa forte? Hanno mai sentito il nome di Tareq Heggy, un personaggio sul quale la diplomazia mondiale avrebbe dovuto puntare gli occhi e l’attenzione già da molto tempo? L’insipienza di Barak Obama, la sua mano tesa senza costrutto ai terroristi iraniani, la fuga dall’Iraq e il passo fino a ieri rinunciatario in Afghanistan, la tiepida solidarietà a Israele, insomma tutti gli errori micidiali degli Stati Uniti inMedio Oriente degli ultimi due anni, si incontrano in amorosi sensi con l’Europa imbelle, fascinata dai Fratelli Musulmani, daHamas,da Hezbollah, un’Europa che cristiana si rifiuta di essere, ma antisemita e amica degli integralisti musulmani riesce ad essere a perfezione. Guardate come questo micidiale cocktail si riverberi sugli eventi del Cairo e capirete che non può finire bene. Adesso tutti contro Hosni Mubarak, tutti a dichiarare su quanto sia bella la piazza, a enfatizzare il diritto del popolo egiziano a manifestare pacificamente, a dare per scontato che il popolo, quello vero, sia tutto insorto contro il faraone, e che le manifestazioni a favore del presidente siano false, strumentali, pagate, roba da poliziotti e servizi segreti. Pure, Mubarak non è Saddam Hussein, e fino a ieri la sua permanenza al potere è stata utile per l’intero scacchiere, così come la sua possibile cacciata cruenta potrà essere nociva e dannosa per l’equilibrio dell’area. Con una nota in più di pericolo, del quale le cancellerie europee ossequienti di un intellettuale pericoloso come Tariq Ramadan, e una ineffabile Casa Bianca degna dell’epoca di Jimmy Carter, tutt’e due troppo facilmente convinte che El Baradei sia qualcosa di più di un fantoccio al servizio di chi si rivelerà il più forte,non sembrano avere cognizione, ovvero che da domani qualsiasi capo di stato o di governo moderato non si fiderà più dell’Occidente. Quel che vale per l’Egitto varrà per la Giordania e per il Marocco, e le riforme, il tentativo di forgiare società più laiche, sono state sacrificate alla necessità di far fronte alla “colle - ra” della piazza prevenendola e lisciando il pelo agli integralisti che aizzano sul pane ma ad altro potere mirano. Dice Souad Sbai, deputato del Pdl che in questi giorni cerca di mantenere lucidità di analisi che Baradei, vista la sua lontananza dal mondo arabo ed evidente debolezza politica, spianerebbe la via all’avanzata dell’estremismo. Tariq Heggy invece potrebbe essere un valido ponte fra Occidente e Oriente, fra Islam, Ebraismo e Cristianesimo, insomma quella transizione davvero democratica che servirebbe ora all’Egitto. Heggy parte da un presupposto molto semplice ma allo stesso tempo fondamentale: in Egitto non può esistere stabilità senza coinvolgere nella partecipazione il 65% della popolazione, ovvero donne e copti. La brutta situazione attuale deriva dalla prepotente ascesa, incontrastata da parte dell’Occi - dente, dell’Islam wahabita, dottrinariamente onnipotente e finanziato dal petroldollaro. Ne è conseguito, come ampiamente prevedibile, lo schiacciamento dell’Islam moderno, improntato alla tolleranza e allo sviluppo. L’Islam wahabita ha tagliato i rapporti con la scienza, lo sviluppo e la civiltà, andando ad incontrare perfettamente le tre «prigioni della mente araba»: dogmatismo regressivo, rifiuto xenofobo dei valori del progresso, scissione dall’epoca moderna. Il tutto nella noncuranza dell’Occidente. Nessuno qui stadifendendo un autocrate come Mubarak, ma chi si accorge oggi, dopo trent’anni, che esercitava un potere assoluto è naturalmente un ipocrita. Oggi si tratta di non lasciare il Paese in mano a chi non ha altro interesse che spaccarlo; oggi modificarne drammaticamente gli assetti istituzionali potrebbe significare la destabilizzazione dell’intero quadrante mediorientale. Nel momento in cui si affacciano all’orizzonte i Fratelli Musulmani e si capisce quale sia la loro via per risolvere la crisi, occorre ragionare e agire con intelligenza e rapidità. Quella piazza, la figura di Baradei subito imposta e troppi altri elementi fanno pensare che ci sia un quadro disegnato a tavolino per orientare la questione Egitto. Oggi i Ministri degli Esteri dell’Unione Europea si riuniranno per discutere della situazione, è un’occasione unica e irripetibile per l’Ue di mostrarsi come organismo sovranazionale unito e politicamente rilevante. Forse si fa ancora in tempo ad evitare che al governo egiziano arrivi qualcuno che poi , con straordinaria facilità, farebbe partire un ribaltamento delle condizioni di stabilità e di pace dell’intero quadrante. La Persia che fu dello Scià dovrebbe averci insegnato qualcosa. Non dimentichiamo infine che Russia e Cina sono alleati alternativi forti quanto infidi per chi in Medio oriente volesse evitare di fare la stessa fine.

CORRIERE della SERA - Ayaan Hirsi Ali : " L’America aiuti i laici alle elezioni per arginare i Fratelli musulmani "


Ayaan Hirsi Ali

Nella sua analisi, Ayaan Hirsi Ali spiega grazie a quali meccanismi i Fratelli Musulmani hanno altissime probabilità di salire al potere dopo Mubarak.
A stupire è il nome della persona che lei individua come possibile leader da appoggiare, quello di el Baradei. El Baradei non è un moderato, il suo titolo di Premio Nobel per la pace, sempre ricordato dai giornalisti, non ha nessun significato. Anche il terrorista Yasser Arafat aveva il Nobel per la Pace.
El Baradei gode dell'appoggio dei Fratelli Musulmani e, soprattutto, dell'Iran, riconoscente del suo silenzio sul programma nucleare ai tempi della sua presidenza dell' AIEA.
Ecco il pezzo:

Nel 1985, quando ero adolescente e vivevo in Kenya, ero anch’io una fervente seguace della Fratellanza musulmana. Diciassette anni dopo, nel 2002, ho partecipato a una campagna elettorale a favore del partito conservatore in Olanda. Grazie a entrambe queste esperienze, nel valutare l’attuale crisi egiziana, sono portata a supporre sia altamente probabile, ma non inevitabile, che la Fratellanza musulmana vincerà le elezioni indette in Egitto per settembre. Nel lavoro svolto in campagna elettorale, ho imparato alcune lezioni fondamentali. 1. Il partito deve adottare un programma politico, sottoscritto dai membri, per delineare la linea di governo del Paese fino alle successive elezioni. Il dissenso in seno al partito è il modo più sicuro per perdere le elezioni. 2. I candidati devono dichiarare esplicitamente non solo ciò che intendono fare per il Paese, ma anche perché ritengono che il programma degli avversari sarà catastrofico per la nazione. 3. Il partito deve penetrare nel tessuto della popolazione, a prescindere da classe sociale, religione e opinioni politiche. 4. I candidati devono ricordare incessantemente agli elettori i passati successi del partito e i fallimenti dei rivali. I gruppi democratici laici e i sostenitori dei diritti umani in Egitto e nel resto del mondo arabo mostrano scarsa comprensione di questi meccanismi basilari. La Fratellanza musulmana, invece, ha già adottato tre dei quattro punti sopraindicati. Non è mai stata al potere, ma ha un programma politico e una visione di lungo raggio che si spinge ben oltre le prossime votazioni, puntando fino all’Aldilà. E’ bravissima nel ricordare agli egiziani in che modo le politiche degli avversari non rispettano i dettami della fede e pertanto si riveleranno catastrofiche per l’Egitto. Ma soprattutto, è riuscita a penetrare fin nelle pieghe più nascoste della società egiziana, e questo potrebbe rivelarsi cruciale. Quando avevo 15 anni e mi consideravo seguace del movimento dei Fratelli musulmani a Nairobi (...) i Fratelli musulmani, con l’appoggio finanziario dell’Arabia Saudita e di altri Paesi petroliferi, avevano fondato cellule nelle scuole e in tutte le istituzioni del mio quartiere. Grazie a loro, i ragazzi svolgevano varie attività dopo l’orario scolastico. C’erano incontri di canto e di preghiera, la lettura del Corano. Ci incoraggiavano ad aiutare i bisognosi, fondavano società di beneficienza alle quali potevamo versare la Zakat (la decima destinata ai poveri), per mettere in piedi strutture sanitarie e centri formativi. La Fratellanza forniva l’unica rete bancaria davvero funzionante, fondata sulla fiducia. Recuperavano gli adolescenti da una vita di tossicodipendenza. A ciascuno di noi si chiedeva di trovare nuovi adepti. Le moschee e i centri islamici erano le sedi principali di incontro, ma ci venivano a trovare anche a casa. Il loro messaggio andava al di là dell’appartenenza etnica, della classe sociale e persino del livello di istruzione. È vero che il movimento predicava metodi violenti, ma in Occidente tendiamo a sottovalutare la capacità della Fratellanza di adattarsi alla realtà. Esistono oggi due scuole di pensiero nel movimento, ma entrambe si ispirano ai precetti del Profeta Maometto. I fautori della Jihad immediata prendono spunto dall’epoca in cui il Profeta disponeva di piccoli eserciti che riuscirono a sconfiggere armate ben più possenti. Il ramo non violento mette l’accento sulla perseveranza e la pazienza del Profeta. Costoro ribadiscono la necessità di far ricorso alla Da’wa (la persuasione tramite la predicazione e l'esempio), ma soprattutto invocano un processo graduale e multi-generazionale per raggiungere le posizioni di potere e mantenerle. La strategia in questo caso è la Taqiyyah, che suggerisce di collaborare con i nemici finché i tempi non saranno maturi per annientarli o convertirli all’Islam. Perché le forze democratiche laiche in Egitto sono talmente più deboli della Fratellanza musulmana? Le ragioni sono molteplici. Si tratta di amalgami di elementi disparati: capi tribali, esponenti liberali a favore del libero mercato, socialisti, marxisti, e attivisti dei diritti umani. Manca il collante ideologico che costituisce la spinta dietro la Fratellanza. Ed esiste il timore radicato che ogni opposizione alla Fratellanza, il cui fine ultimo è di instaurare la Sharia, sarebbe vista dalle masse come un rifiuto dell’Islam. I gruppi laici non sono ancora riusciti a lanciare un messaggio che dica «sì» all'Islam, ma «no» alla Sharia — che ribadisca la separazione tra religione e Stato. Se l’Egitto e le altre nazioni arabe vorranno sfuggire alla tragedia tanto della dittatura che della Sharia, ci dev’essere una terza via in grado di separare la religione dalla politica, e di stabilire un governo di rappresentanza popolare, che tuteli la legalità e promuova le condizioni favorevoli al commercio, agli investimenti e all'occupazione. (...) La prossima sfida dei democratici laici è la Fratellanza. Non dovranno perder tempo per convincere l’elettorato che un governo fondato sulla Sharia sarebbe una catastrofe. A differenza degli iraniani nel 1979, gli egiziani hanno davanti agli occhi l'esempio di una nazione che ha accettato la Sharia e che da allora rimpiange quella decisione. ElBaradei e i suoi dovranno spiegare al popolo che un regime basato sulla Sharia sarà repressivo in patria e aggressivo all'estero, e che se le masse lamentano disoccupazione, aumento dei prezzi e corruzione, un governo basato sulla Sharia aggraverebbe quelle difficoltà. La Fratellanza musulmana ribadisce che il voto a suo favore è un voto per la legge di Allah. Ma gli incarichi di governo non saranno ricoperti da Dio e dai suoi angeli, bensì da uomini tanto arroganti da voler usurpare il posto di Dio. E come gli iraniani hanno appreso a loro spese nel 2009, quel voto che è servito a eleggerli si rivela impotente per sbarazzarsi di loro. Il governo Obama può aiutare i gruppi laici fornendo risorse operative per fare la campagna elettorale e presentare istituzioni economiche e civili concorrenziali, in grado di battere la Fratellanza nell’urna elettorale. Sono poche le cose inevitabili in democrazia. Ma senza un’efficace organizzazione, le forze laiche e democratiche che hanno spazzato via questa tirannide rischiano di lasciarsi sottomettere dalla prossima.

Il GIORNALE - Souad Sbai : " Guai a chi sottovaluta il pericolo del fondamentalismo "


Souad Sbai

Molto spesso, davanti alle manifestazioni di piazza che in questi giorni infiammano il Cairo, sale una strana sensazione. Contemporaneamente alla riflessione, costante e preoccupata, sul futuro egiziano, spontaneamente, ci si rivolge alla memoria passata e rivedo i prodromi di quello che è già successo in Iran e in Afghanistan. Si, perché non posso fare a meno di osservare, con spirito fortemente negativo, l’atteggiamento della Clinton e di Obama rispetto alle vicende egiziane.
L’interesse obamiano per il futuro dell'Egitto è ossessivo, costante, quasi morboso. Ma tardivo, evidentemente, visto che le riforme e la democrazia sono attese da decenni e non da oggi. È singolare come l'amministrazione americana sia però straordinariamente attenta alla voce di chi vuol rovesciare Mubarak con la forza della piazza e invece colpevolmente sorda verso chi teme l'ascesa dei Fratelli Musulmani. Nessuno ha sostenuto Mubarak nel momento più difficile, per lui e per il paese. L'analogia con l'Iran e l'Afghanistan è evidente, soprattutto quando si pensi ai mujaheddin utilizzati per cacciare i sovietici e poi abbandonati ad un drammatico destino contro i talebani, piuttosto che alle manifestazioni contro Ahmadinejad represse nel sangue. Risiede proprio in questo squilibrio fra le voci in campo il rischio più grave che corrono l'Egitto e tutto il quadrante mediorientale: spianare la strada al fondamentalismo, di cui i Fratelli Musulmani sono la più fervida espressione moderna.
Ciò cui stiamo assistendo, si badi bene, non è solo un fenomeno a macchia di leopardo, ma qualcosa di più serio e pericoloso. Ormai è evidente che trattasi di una rivoluzione «forzata», «manovrata dall'esterno» e non naturale e di carattere culturale come in Tunisia. I Fratelli Musulmani non hanno interesse alla Presidenza dell'Egitto, ma al cuore del Paese, al Parlamento, con tutta la sua forza creatrice. Vogliono agguantare la capacità di modificare tutto senza stare davanti ai riflettori, così da eroderne le radici con maggiore tranquillità.
E poi El Baradei. Come può, un uomo che manca dalla sua terra da oltre venticinque anni, pensare di tornare e mettersi a capo di una piazza che vuole destituire Mubarak? Più è evidente la sua debolezza politica, più si materializza il suo accordo con i Fratelli Musulmani. Un accordo che sa di pericolo anche solo a parlarne sottovoce.
Gli americani non hanno mai nemmeno guardato alla classe dirigente interna, ad esempio alla figura di Tarek Heggy e altri, che hanno sempre lavorato contro il fondamentalismo islamico e per la crescita dell'Egitto. Heggy da tempo denuncia il fatto che in Egitto non si può avere stabilità senza la partecipazione del 65% della popolazione (donne e copti)e che il Paese debba voltare pagina, ma che non può farlo con un Islam dogmaticamente regressivo e xenofobo contro i valori del progresso.
I Fratelli Musulmani, che incarnano questi due principi nefasti, non possono garantire al Paese un avvenire democratico, improntato alla crescita e allo sviluppo e occorre combattere con tutte le forze possibili per strappar loro di mano la possibilità di utilizzare l'Egitto come base per la conquista fondamentalista del quadrante mediorientale.

LIBERO - Andrea Morigi : " Adesso Abu Omar detta la linea alla rivolta "


Abu Omar               Andrea Morigi

C’è sete di democrazia in Egitto. Chi sentire per un parere? Ma Abu Omar, ovviamente. Da una decina di giorni, il simbolo delle extraordinary rendition concede interviste al New York Times e alla Stampa, rilascia dichiarazioni alle agenzie e spiega che non se ne può più. Dunque «chiedo al premier italiano, Silvio Berlusconi, di convincere il presidente egiziano, Hosni Mubarak, a dimettersi ». Se lo dice il 47enne Nasr Osama Mostafa Hassan, accusato in Italia di far parte della Jama’a Al Islamiya, non c’è testimone più equidistante. Si tratta di un appartenente a «un’organizzazione che costituiva un diretto segmento di Al Qaeda e non aveva rinunziato a tale adesione nemmeno in tempi recenti quando il progetto terroristico a livello mondiale si era dispiegato in più continenti e con la massima violenza », scriveva il gip Guido Salvini spiccando un’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti nel 2005. Ma, in fondo, i governi di Berlusconi e di Mubarak (insieme alla Cia americana) sono stati chiamati in causa per il suo rapimento, avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003. Ora, libero cittadino, tanto da aver fondato un proprio partito politico, dalla sua abitazione di Alessandria d’Egitto indica la linea per uscire dalla crisi: «l’avvio di una fase di transizione di 6 mesi durante la quale l'esercito possa ristabilire l’ordine e andare ad elezioni ». Non prende posizione per esponenti dell’opposizione, anzi il 27 gennaio aveva già espresso al Nyt il proprio scetticismo su Mohammed «El Baradei e gli altri» perché «non hanno legami con la religione». Ma si rivolge confidenzialmente al Cavaliere: «Tu sei il suo alleato più vicino in Europa, cerca di convincerlo a dimettersi per evitare ulteriori spargimenti di sangue». Ormai è stato scavalcato anche Ed Husayn, senior fellow del Council of Foreign Relations, che il primo febbraio sul Financial Times suggeriva al governo americano di coinvolgere i Fratelli Musulmani fin da subito, per non doverli affrontare in futuro come forza di governo dopo averli ignorati. Proprio lui, che ne ha fatto parte e, nel 2005, dopo le bombe di Londra, aveva scritto un libro sul fallimento della loro «ideologia distruttiva», afferma ora che gli islamisti forniscono l’acqua in cui nuotano i jihadisti. E allora? Propone di sfidarli sul terreno delle riforme democratiche, del pluralismo e dei diritti umani. Troppo poco e troppo tardi. Ormai la stampa internazionale va a lezione dall’ex imam della moschea milanese di via Quaranta, dove si inneggiava al fondatore egiziano, il terrorista di Al Qaeda Anwar Shaaban, morto in un conflitto a fuoco in Croazia nel 1995. È vero che erano sorti contrasti fra Abu Omar e il successore di Shaaban, Abu Imad, che sta scontando in Italia una pena di 3 anni e 8 mesi di reclusione per terrorismo internazionale. Ma non si erano divisi sull’opportunità di scatenare la guerra santa. Erano semplicemente rivali. Abu Omar infatti, rimaneva «il riferimento dei più accesi estremisti islamici coinvolti con vari ruoli nelle inchieste milanesi per terrorismo di matrice fondamentalista», scriveva il giudice Salvini. La sua attività consisteva «nell’invio di volontari mujaheddin nei campi di addestramento in Afghanistan prima, in Iraq poi». Da un po’ di tempo a questa parte ha scelto di fare l’opinionista. Si vede che i rapimenti non fanno poi così male, almeno nel lungo periodo.

La REPUBBLICA - Christiane Amanpour : " Nel palazzo del raìs: Penso solo al mio paese basta scontri fra fratelli "


Hosni Mubarak, Christiane Amanpour

Ho appena lasciato il palazzo presidenziale del Cairo, dove ho incontrato il presidente Hosni Mubarak per un´intervista esclusiva di mezz´ora.
Mi ha detto di essere turbato dalle violenze a cui abbiamo assistito a piazza Tahrir negli ultimi giorni, ma che il suo governo non ne è il responsabile. Al contrario, ha incolpato i Fratelli Musulmani, un partito che qui in Egitto è fuorilegge.
Ha detto che è stufo di essere presidente e che gli piacerebbe lasciare ora l´incarico. Ma non può farlo - sostiene - perché ha paura che il paese sprofonderebbe nel caos.
Ho chiesto al presidente Mubarak di parlarmi della violenza scatenata dai suoi sostenitori a piazza Tahrir contro gli oppositori del governo. «Sono molto dispiaciuto - mi ha detto - di quel che è successo ieri (mercoledì, ndt). Non voglio vedere gli egiziani che si combattono a vicenda».
Quando gli ho domandato cosa pensi nel vedere la gente che urla insulti al suo indirizzo e vuole vederlo andare via, ha risposto: «Non m´interessa quel che la gente dice sul mio conto. In questo momento m´importa del mio paese, m´importa dell´Egitto».
Gli ho chiesto come si sia sentito dopo aver pronunciato il suo discorso di lunedì sera, nel quale ha detto che non si sarebbe ricandidato alla presidenza. Mi ha detto di essersi sentito sollevato.
Per il momento Mubarak resta insieme alla sua famiglia al palazzo presidenziale, protetto da militari, carri armati e filo spinato. Ci ha raggiunti suo figlio, Gamal, che un tempo era considerato da molti come il suo successore. Mubarak mi ha detto che non è mai stata sua intenzione insediarlo al suo posto.
E ha giurato fedeltà all´Egitto. «Non fuggirei mai», ha ribadito, «morirò su questa terra». Ha anche difeso la sua eredità storica, rammentando i molti anni spesi alla guida del paese.
Mentre descriveva il presidente Obama come una bravissima persona, ha esitato quando gli ho chiesto se riteneva che gli Stati Uniti lo abbiano tradito. E quando gli ho chiesto come intendesse rispondere agli inviti americani di farsi da parte al più presto, mi ha rivelato di aver detto a Obama: «Tu non capisci la cultura egiziana, né cosa succederebbe se mi dimettessi ora».
Poi mi ha detto: «Non ho mai avuto intenzione di ripresentarmi. E non ho mai pensato che Gamal diventasse presidente dopo di me». Mentre lo diceva, Gamal era seduto nella stanza insieme a noi.

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