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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
02.02.2011 Egitto, Usa: la situazione è precipitata grazie all'inettitudine di Obama
Cronaca di Maurizio Molinari, analisi di Leon Wieseltier

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Leon Wieseltier
Titolo: «Obama incassa e lo incalza: Subito dialogo e transizione - Niente liberal a iazza Talhir»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/02/2011, a pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama incassa e lo incalza: Subito dialogo e transizione ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Leon Wieseltier dal titolo "Niente liberal a piazza Talhir".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama incassa e lo incalza: Subito dialogo e transizione "


Maurizio Molinari

La scelta di Hosni Mubarak di non ricandidarsi premia gli sforzi della Casa Bianca e Barack Obama lo spinge a compiere il prossimo passo: «Dare inizio subito alla transizione verso elezioni libere». È stato l’ex diplomatico Frank Wisner a consegnare a Mubarak la richiesta di Obama di non ricandidarsi alle presidenziali di settembre. Wisner, ex ambasciatore nelle Filippine, Egitto e India, è volato al Cairo su mandato del capo della Casa Bianca. Trattandosi di un ex diplomatico la missione ha avuto veste informale per garantire rispetto al Raiss e scongiurare il rischio di accuse di intromissione nella crisi.

Wiesner ha fatto presente al Rais che Obama non gli chiedeva le dimissioni ma gli trasmetteva «il consiglio» di «fare spazio ad un processo di riforma capace di portare a libere elezioni in settembre per eleggere un nuovo leader» e far uscire la nazione dall’attuale fase di difficoltà. Profondo conoscitore dell’Egitto, testimone del successo delle Filippine nell’archiviare nel 1986 la dittatura di Ferdinando Marcos senza sangue e già vicecapo del Pentagono, Wisner ha avuto un lungo colloquio con il Raiss e subito dopo ne ha riferito alla Casa Bianca. A Washington è stato John Kerry a far trapelare quanto stava avvenendo. Il presidente della commissione Esteri del Senato ha detto che «Mubarak non deve presentarsi alle prossime elezioni ma deve contribuire alla costruzione di un nuovo Egitto».Lo stesso Kerryha pubblicato un editoriale sul New York Times rivolgendosi a Mubarak: «Deve accettare che la stabilità della sua nazione è legata alla sua volontà di farsi da parte».

L’esempio per Kerry è proprio quanto avvenne nelle Filippine dopo l’abbandono del potere da parte di Marcos che pose fine alla dittatura schiudendo le porte alla presidenza di Corazon Aquino ed alla democrazia parlamentare. Per alcune ore la Casa Bianca ha aspettato con il fiato sospeso la dichiarazione di Mubarak sulla rinuncia a candidarsi e quando il Raiss ha parlato di «pacifica transizione», «trasferimento di poteri» e di «cambiamenti della Costituzione» ammettendo di aver «governato abbastanza»" Obama ha visto per la prima volta concretizzarsi lo scenario perseguito sin dalle prime ore della crisi. E’ scattata il quel momento la fase 2 della transizione.

Obama ha telefonato a Hosni Mubarak e per 30 minuti ne hanno parlato. Poi è stato il presidente americano, dal Grand Foyer della Casa Bianca, a farlo sapere, rivolgendosi con chiarezza agli egiziani: «Mubarak ha preso atto che lo status quo non può continuare, serve un cambiamento e deve iniziare adesso la transizione verso elezioni libere».

La richiesta è dunque di dare vita da subito ad un dialogo fra tutte le forze politiche e sociali. «Non sta all’America decidere chi guiderà l’Egitto» ha detto Obama, confermando però il ruolo dell’America garante del passaggio dei poteri: «Rendo omaggio all’esercito che non ha adoperato la forza, abbiamo visto gli abbracci fra la gente e i militari, e ciò che conta per noi è il rispetto dei diritti umani universali». E ha concluso con un messaggio alle giovani generazioni di egiziani nelle piazze: «Abbiamo ascoltato la vostra voce».

Il FOGLIO - Leon Wieseltier : " Niente liberal a piazza Talhir "


Leon Wieseltier

I contorni e le conseguenze della rivolta egiziana appaiono ancora incerti. Sulle ragioni della rabbia dei manifestanti non ci sono discussioni, ma le politiche della rivolta sono piuttosto dubbie. Le sue prime fasi non sono state guidate dai Fratelli musulmani, ma è ben difficile pensare che questa organizzazione islamista non si lascerà prendere dalla tentazione di recitare in questa rivoluzione la parte giocata dai bolscevichi in quella russa. Possiede l’ideologia e la struttura organizzativa necessaria per assumere il controllo della situazione, e rappresenta il più formidabile nemico politico del regime. Quanto all’esercito, di fronte a un governo gravemente menomato e privato di qualsiasi legittimità, potrebbe decidere di non limitarsi a riportare l’ordine nelle strade. Il presidente Hosni Mubarak, con un provvedimento tipico dei dittatori in bilico, ha licenziato il suo gabinetto di governo, come se la rabbia del popolo egiziano fosse diretta esclusivamente contro i suoi ministri. E’ una mossa davvero patetica, che ricorda l’inutile rimpasto di governo tentato dallo scià di Persia nel 1979. Conosciamo perfettamente questo copione. Infine, anche la popolarità e l’autorità politica di Mohammed ElBaradei sono difficilmente valutabili. Ciò che invece appare molto chiaro è che l’Amministrazione Obama – e più in generale la galassia liberal americana – si è fatta cogliere del tutto impreparata da questa crisi. La posizione della Casa Bianca è complicata dal punto di vista strategico: non può permettersi di alienarsi le simpatie dei manifestanti. Ma non può nemmeno permettersi di abbandonare Mubarak. I nostri funzionari hanno cercato di improvvisare, senza grande successo. Joe Biden ha dichiarato con estrema leggerezza che non si sentirebbe di “definire Mubarak un dittatore”; Robert Gibbs ha detto che “qui non si tratta di schierarsi da una parte o dall’altra”; Hillary Clinton, che fino a qualche tempo fa parlava spesso di Mubarak come un “vero amico”, ha chiesto “moderazione”, “riforme” e “dialogo”, come se da Mubarak ci si potesse aspettare altro che una repressione. Anche Barack Obama sta cercando di superare l’impasse con sottili stratagemmi, esortando Mubarak a trasformare un “momento di instabilità” in un “momento di promessa” – un’eloquenza davvero irritante: ci sono situazioni in cui è necessario mettere in campo ben altro che la forza del linguaggio – e proclamando che “gli Stati Uniti continueranno a sostenere i diritti del popolo egiziano”. “Continueranno”? Il vero problema che si trova davanti l’Amministrazione Obama è proprio il fatto che, sinora, il sostegno ai diritti del popolo egiziano non è stato certo un cardine della politica estera americana, che ha preferito mantenere una stretta amicizia con il regime, punteggiata da qualche osservazione. Le paure dell’Amministrazione riflettono la svalutazione della “democratizzazione” come uno dei principi fondamentali della politica estera americana, specialmente nei confronti del mondo musulmano. Senza dubbio, c’erano due concrete ragioni per la diffidenza dei liberal nei confronti della rivendicazione dei diritti umani. La prima era la dottrina Bush e la seconda la dottrina Obama. Il rifiuto totale della politica estera di Bush implicava l’abbandono di qualsiasi cosa che potesse assomigliare alla sua “Freedom agenda”, che appariva come un pretesto per la guerra. Ma qualsiasi cosa si pensi della guerra in Iraq, non sarebbe esagerato chiedere ai liberal di considerare con meno severità la politica della democratizzazione – non solo per il suo significato etico, ma anche per la sua importanza strategica. Una delle prime lezioni che si possono trarre dalla rivolta contro Mubarak è che il sostegno americano ai dissidenti democratici è una questione strategica. La mancanza di tale sostegno può determinare un disastro. E’ questo il prezzo del realismo. E’ un errore comune pensare che la prudenza riguardi soluzioni a breve termine; il suo vero orizzonte è ben più esteso. Il realismo non consente di giungere a un’adeguata comprensione delle forze storiche che promuovono la democratizzazione. Da questo punto di vista, il realismo è sorprendentemente irrealistico. Sembra un’opzione intelligente soltanto finché i dittatori rimangono al potere senza essere disturbati dai propri popoli; ma non appena questo accade, risulta incredibilmente stolta. Obama ha sostituito la “Freedom agenda” con “l’agenda della accettazione”. La sua politica estera è stata caratterizzata da uno spirito vigorosamente multiculturalista. Ha giustamente compreso che porre l’accento sulla democratizzazione significava esprimere una severa condanna dei sistemi di governo in paesi retti da regimi autocratici o dittatoriali; ma Obama non era diventato presidente per condannare e rimproverare, bensì per “restaurare la posizione e il prestigio dell’America”. E ha cercato di farlo esaltando la diversità e la legittimità di tutte le religioni e le civiltà. Cosa, in linea di principio, giustissima. Ma lo è anche quando questo tono positivo, pur sapendo riconoscere la dignità di ogni popolo, non riesce a cogliere assolutamente la tragicità della sua attuale condizione? A che servono le belle parole per un popolo disperato? Queste società che hanno un estremo bisogno di secolarizzazione hanno forse bisogno che il presidente americano citi le loro stesse Scritture? In conformità alle sue nuove priorità, la democratizzazione è stata relegata al quarto posto nei cinque punti enunciati da Obama nel discorso pronunciato al Cairo nel 2009. E l’ha definita con queste parole: “So che negli ultimi anni ci sono state parecchie controversie sulla promozione della democrazia, in gran parte connesse alla guerra in Iraq. Perciò voglio essere molto chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un’altra”. Detto in altri termini: gli Stati Uniti non si preoccuperanno più del modo in cui ciascuno vive. Poi ha recitato un breve ed elegante sermone sulle virtù di un governo “fondato sul consenso e non sulla coercizione”, ma non ha detto una sola parola sulle condizioni politiche dell’Egitto. Il discorso del Cairo non ha turbato in alcun modo il regime di Mubarak. Immagino che molti di coloro che quel giorno hanno ascoltato il discorso di Obama oggi siano per le strade del Cairo e che alcuni di essi abbiano anche partecipato all’attacco contro l’ambasciata americana. Facendo sembrare la democratizzazione una sorta di “imposizione”, con tutte le sue connotazioni imperialiste, e facendola coincidere con l’invasione militare, Obama ha commesso un terribile errore. Promuovere la democrazia significa sostenere i democratici egiziani, arabi o musulmani che sono certamente ben più degni del rispetto americano in confronto a tutti gli autocrati o teocrati egiziani, arabi o musulmani. Si tratta di una politica, per riprendere le parole di Gibbs, fondata su una precisa presa di posizione a favore dei popoli e contro i regimi che li opprimono. Non è questa politica a creare i dissidenti, in una sorta di malvagia cospirazione americana; semplicemente, li accoglie e li assiste perché ne hanno bisogno e perché aiutarli corrisponde ai nostri valori e ai nostri interessi. Senza dubbio, ci sono casi in cui i nostri interessi e i nostri valori possono non coincidere, perché forze antidemocratiche e antiamericane possono giungere al potere per mezzo di un processo democratico; ma non esiste sistema più sicuro per portarli al potere che trascurare l’illegittimità dei governi tirannici e ignorare le proteste delle popolazioni oppresse. La bizzarra ironia del multiculturalismo globale di Obama sta proprio nel fatto che ha avuto l’effetto di allineare l’America al fianco dei regimi autocratici e contro le popolazioni. E’ esattamente quel che è avvenuto con la risposta data dall’Amministrazione Obama alla ribellione iraniana del 2009 e, sino ad ora, con la sua reazione alla rivolta egiziana. La cosa che più colpisce della “mano tesa” di Obama è la sua assoluta irrilevanza rispetto agli eventi epocali che si stanno svolgendo.

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