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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
31.01.2011 Egitto, c'è chi preferisce el Baradei e i Fratelli Musulmani
Renzo Guolo, Lucio Caracciolo non si smentiscono. Marta Dassù più confusa che mai

Testata:La Repubblica - La Stampa
Autore: Renzo Guolo - Lucio Caracciolo - Marta Dassù
Titolo: «L´altra faccia della rivoluzione, tornano in scena i partiti islamici - L'occasione che perderemo - La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi)»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 31/01/2011, a pag. 1- 7, l'articolo di Renzo Guolo dal titolo " L´altra faccia della rivoluzione, tornano in scena i partiti islamici ", a pag. 1-25, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo "  L'occasione che perderemo  ". Dalla STAMPA, a pag. 29, l'articolo di Marta Dassù dal titolo " La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi) ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " L´altra faccia della rivoluzione, tornano in scena i partiti islamici "


Renzo Guolo

Renzo Guolo si compiace che Obama finalmete abbia capito la lezione : " mai contro i popoli che invocano la fine di regimi autoritari ". Il prossimo consiglio? Gioire perchè la popolazione egiziana, dopo anni di propaganda di Fratelli Musulmani sceglierà di sottostare a un regime teocratico stile Iran? Allora Obama e l'Occidente dovranno gioire?
Ecco l'articolo:

L´Egitto è in rivolta. A nulla è valso il tentativo di Mubarak di cambiare tutto perché nulla cambi. A poco è servito nominare un nuovo governo, Suleiman vicepresidente e Shafiq premier. All´insegna della richiesta di dimissioni dell´uomo che governa il paese da trent´anni, la protesta dilaga.
Passando la mano all´esercito, Mubarak puntava a presentarsi agli Stati Uniti come l´unico elemento di continuità possibile in una transizione che può divenire tellurica.
Lo spettro è sempre quello dell´islam politico: un fantasma che ha garantito l´appoggio americano al raìs ben prima dell´11 settembre. Dopo il 1981 l´Egitto ha assunto il ruolo di attore del contenimento islamista attraverso un modello inclusione-repressione fondato sull´interdizione dalla scena politica dei Fratelli Musulmani e il pugno di ferro nei confronti dei radicali che contestavano, oltre che il "regime empio", la scelta gradualista della Fratellanza. Una mossa che impediva agli islamisti di fare politica ma consentiva loro di agire nel sociale, sul terreno dell´educazione e del welfare religioso. Almeno sino a quando, per effetto di questa stessa azione di reislamizzazione dal basso, il loro peso politico cresceva.
In molte cancellerie occidentali, ma anche nei meandri del potere mediorientale, i maggiori timori riguardano oggi proprio la Fratellanza, associazione religiosa ma anche partito politico di massa, unica forza organizzata e diffusa territorialmente nel panorama egiziano, guidata da una dirigenza in cui sono assai influenti gli esponenti di quella borghesia religiosa che da anni controlla gli ordini professionali di medici, avvocati, ingegneri. Disposta a un´alleanza con i partiti laici e di sinistra che chieda elezioni libere, sfociata negli anni scorsi nel cartello di opposizione Kifaya.
Ma i Fratelli non sono il perno di una rivolta che, pure dopo il precedente tunisino, ha sorpreso anche i loro leader. A dimostrazione della loro capacità tattica, ma anche della consapevolezza di non essere all´origine della protesta, essi danno ora la loro investitura, come leader provvisorio dell´opposizione incaricato di negoziare il processo di transizione, a El Baradei
La rivolta in riva al Nilo, come quella dei "gelsomini", è figlia della bomba demografica, della diffusione dell´istruzione, della potenza comunicativa della Rete e di tv come Al Jazeera, che non a caso il vecchio e il nuovo governo egiziano hanno, con diverso successo, voluto "spegnere". Una protesta esplosa tra i giovani disoccupati, che chiedono lavoro, libertà e dignità, più che lo Stato islamico. Giovani che preferiscono i social network ai discorsi di Hassan al-Banna, lo storico fondatore dei Fratelli; e che bussano all´ingresso, negato, della modernità anziché al portone della moschea.
Come già nella rivolta tunisina, e prima ancora in quella, fallita, iraniana, quello che colpisce è lo "spontaneismo" che ha reso la protesta tanto più forte quanto inattesa in Stati di polizia che si sono rivelati ciechi. Ma in questa spontaneità è insito un limite. Se le vecchie opposizioni non hanno compreso che il vulcano stava per eruttare, rivelando scarsa sintonia con giovani che non sanno che farsene di antiche ricette politiche e ideologiche, le nuove generazioni non possono ancora esprimere un ruolo dirigente. Rovesciano ma non sanno ancora cosa costruire. La stessa cosa potrebbe accadere in Tunisia, dove da un lungo esilio è rientrato Rachid Gannouchi, il fondatore di "An Nahda", formazione di antica filiera della Fratellanza, che oggi guarda all´Akp turco come riferimento ideale.
Un test difficile anche per gli Usa, quello del ruolo dei partiti islamisti neotradizionalisti, con i quali in questi ultimi anni non hanno affatto disdegnato i contatti: evitando così di confonderli con i radicali di Al Qaeda che li combattono accusandoli di essere una sorta di "revisionisti islamici". Ai tempi dell´esportazione manu militari della democrazia, l´amministrazione Bush non pensava, come ritenevano illusoriamente alcuni neocon, che a smobilitare dovessero essere anche i leader di Egitto o Arabia Saudita. Oggi, in un´eterogenesi dei fini che ha il sapore di una profetica nemesi, quella possibilità si fa concreta: almeno all´ombra delle Piramidi. Ma democrazia significa libera competizione per tutti; anche per i potenziali nemici della democrazia. Se, in nome della realpolitik e della tutela a oltranza di equilibri geopolitici i processi di democratizzazione fossero ibernati, il futuro sarebbe ancora più problematico dell´incerto e convulso presente. Dopo un primo riflesso condizionato, la Casa Bianca lo ha capito e Obama ha ribadito le sue ispirazioni originarie: mai contro i popoli che invocano la fine di regimi autoritari. La sfida è difficile, ma l´alternativa è l´esplodere per contagio di nuove rivolte inevitabilmente antiamericane.

La REPUBBLICA - Lucio Caracciolo : " L'occasione che perderemo "


Lucio Caracciolo

Il pezzo di Caracciolo è, ambiguo, come tutti gli altri che ha scritto in passato. Critica l'Italia perchè sta in disparte rispetto alla situazione in Egitto, non è abbastanza attiva. Attiva in che senso? Mandare soldati che aiutino i Fratelli Musulmani a destituire Mubarak  ?
La conclusione non lascia spazio a dubbi su quale sia la posizione di Caracciolo : "
L´Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua ". Viva i Fratelli Musulmani, per sempre.
Come Caracciolo sono molto propensi ad aiutare la folla a far cadere Mubarak in favore de Fratelli Musulmani Robert Fisk e Ala al Aswani, entrambi autori di due reportage tra le proteste (sull'Unità Fisk, su Repubblica al Aswani). Non che la cosa stupisca molto. Fisk non manca mai di scagliarsi contro Israele e tutto ciò che non è islamista nei suoi articoli di fantapolitica, mentre al Aswani è noto soprattutto per aver impedito che i suoi libri venissero tradotti in ebraico. Se la piazza può contare sull'appoggio di due teste simili, c'è poco da sperare per il futuro egiziano.
Ecco l'articolo di Lucio Caracciolo:

L´Egitto è un´occasione che perderemo. L´occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo – spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall´Occidente – che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo. Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l´avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L´Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo – anzi, la condizione perché non si arresti?
Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato – via Frattini – nessuno se n´è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l´occasione di incidere in una svolta storica – stavolta l´aggettivo è pertinente – che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.
Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L´ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.
Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l´Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell´Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.
Così abbiamo dimenticato che per secoli l´Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l´intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.
Nell´Egitto khedivale l´italiano era lingua franca, usata nell´amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d´intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.
Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E´ storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell´immediato, anche un gesto simbolico.
A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell´identità egiziana. Quell´identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.
Eppure nell´immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l´Egitto sia un qualsiasi pezzo d´Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook – già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione" – e rischiano la vita per la libertà?
Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E´ quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c´è più. L´Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.

La STAMPA - Marta Dassù : " La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi) "


Marta Dassù

Marta Dassù, detta anche l'incomprensibile, scrive confusamente, come suo solito. L'unica cosa evidente è la sua incomprensione della situazione in Egitto. Dassù scrive : " Oggi, il precedente iraniano viene applicato all'Egitto; la previsione dominante, infatti, è che il crollo del regime di Mubarak preparerà l'avvento delle forze islamiche, travestite da Fratelli musulmani. Ma possiamo davvero leggere il futuro del maggiore Paese del mondo arabo con la testa rivolta al precedente persiano? ". Già, mai imparare dai propri errori.
Consigliamo a Dassù la lettura dell'editoriale di Giovanni Sartori pubblicato sulla prima pagina de Corriere della Sera di oggi, ripreso da IC in altra pagina della rassegna, chissà che non l'aiuti a fare chiarezza nella confusione che regna sovrana nei suoi pezzi.
Ecco l'articolo:

La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti. Nessuno l'aveva prevista, in un ambiente che vive di previsioni (sbagliate) sui «dieci scenari da evitare nel 2011». Naturalmente si dirà che non è così, perché in un numero speciale della rivista del Centro di Informazione sul Nulla, la successione a Hosni Mubarak era stata segnalata come una tappa critica. Ma la verità è esattamente questa: anche i politologi, come gli economisti, fanno una enorme fatica a immaginare i tempi e i modi in cui si manifesterà una crisi. Non è una novità, certo. Pochissimi avevano previsto il crollo dell’Urss. La cosa mi è tornata in mente quando Barack Obama ha evocato, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione, lo choc dello Sputnik. Per essere onesti, non mi è sembrata una grande trovata: mezzo secolo dopo, la sindrome Sputnik evoca soprattutto la fragilità dell’Urss, più che la solidità dell’America. In ogni caso, dal lancio dello Sputnik fino al crollo del Muro di Berlino, ben poche analisi avevano anticipato lo scenario dell’implosione del sistema sovietico. Anche il 1979 iraniano non era stato previsto da molti; soprattutto, non era stato previsto che le proteste del partito comunista e dell’élite borghese-intellettuale dell’Iran, combinate con la rabbia degli emarginati, producessero il trionfo degli ayatollah. Oggi, il precedente iraniano viene applicato all'Egitto; la previsione dominante, infatti, è che il crollo del regime di Mubarak preparerà l'avvento delle forze islamiche, travestite da Fratelli musulmani. Ma possiamo davvero leggere il futuro del maggiore Paese del mondo arabo con la testa rivolta al precedente persiano?

Questo è un altro bel guaio, in effetti: la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base della crisi precedente. La guerra in Iraq è stata gestita con in mano il manuale dell’intervento in Kosovo del 1999, cosa che certo non è stata di aiuto. La strategia di uscita dall’Afghanistan tiene conto del precedente iracheno, sebbene l'Afghanistan sia un teatro molto diverso dall’Iraq. E così via, con una coazione a ripetere che è l'altra faccia della medaglia della scarsa capacità di prevedere.

Si potrebbe obiettare, a questa visione pessimistica, che qualcuno che sa prevedere c'è, ma non ce ne accorgiamo: qualche professore che non viene invitato a Davos, qualche specialista che non pubblica mai sul Financial Times. E' vero. E qui si torna al famoso dibattito nato di fronte agli errori di valutazione compiuti sull’Iraq: esiste davvero la voglia di ascoltare una expertise che non confermi le scelte politiche? C'è anche il caso dei «dissidenti», i quali credono per definizione nel crollo del regime che li opprime. Peccato che venga data loro ragione solo quando il famoso crollo si verifica davvero. Fino a quando un regime viene sostenuto per ragioni di realpolitik - e nel caso dell’Egitto le ragioni erano e rimangono decisamente importanti: il Paese centrale del mondo arabo, in pace con Israele e alleato degli Stati Uniti - i dissidenti sono soprattutto gente scomoda.

Conclusione? Nello stesso modo in cui la crisi finanziaria del 2008 ha generato un dibattito fra gli economisti, la crisi mediorientale del 2011 dovrebbe generare una riflessione fra i politologi. E' indubbio che il problema del cambiamento politico e sociale sia in ogni caso difficile da leggere e da interpretare. Ma questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare, io credo, con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente.

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