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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.01.2011 Egitto: Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Zvi Mazel, Benny Morris, Paolo Mastrolilli
Su El Baradei, Omar Suleiman, Hosni Mubarak

Testata:Il Giornale-La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein-Maurizio Molinari-Benny Morris-Paolo Mastrolilli
Titolo: «L'intifada di Baradei ? Nemica dell 'Occidente-Suleiman, superspia che ha schiacciato i Fratelli musulmani-Il tempo di Mubarak è finito- Ora il rischio è quello di essere un 'secondo Iran'-»

Egitto, in questa pagina gli articoli usciti oggi, 30/01/2011, di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Benny Morris e l'intervista a El Baradei di Paolo Mastrolilli, preceduta da un nostro breve commento.
Nelle pagine di IC di oggi, altri articoli divisi per argomento. 

Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " L'intifada di Baradei ? Nemica dell 'Occidente "


   Fiamma Nierenstein

Vedremo Muhammed Al Bara­dei o il movimento Kyfaia o i Fratelli Mussulmani al potere in un Egitto nato dalla piazza? E porteranno la democrazia?Per ora,l’insediamen­to al potere di Omar Suleiman, mini­stro e principe dei servizi segreti, nel ruolo di vice presidente non è altro che la conferma del fatto che Muba­ra­k non ha nessuna intenzione di la­sciare il potere. L’esercito non l’ha abbandonato e Suleiman è al suo fianco da tempo immemorabile.
Il vecchio faraone forse potrà, nel­la più antica tradizione imperiale, come Ramses quando aveva più di 80 anni, celebrare la festa del suo rin­giovanimento senza lifting, grazie a Omar. Ramses ogni anno, fino a ol­tre 90 anni (lo impariamo da Fuad Adjami grande storico arabo) innal­zava un obelisco per ringraziare gli dei. Il popolo egiziano, salvo che per il traumatico assassinio di Sadat, non ha mai ucciso i suoi faraoni. An­che quando nel 1952 distrusse il po­tere di Muhammad Alì, la sua dina­stia era al potere di 50 anni. Ma quan­do si sentono colpiti nell’onore ifel­lahim, contadini affamati ma di no­bili antichissimi costumi, e la sua colta e pigra borghesia, come è suc­cesso­quando i tunisini sopravanza­rono il popolo egiziano, allora acca­de l’inenarrabile.
Così fu dal 2350 al 2150 avanti Cristo, quando gli uomi­ni che conosciamo raffigurati dai cocci egizi, si rivoltarono fino a libe­rarsi dal regno di chi li affamava. Co­sì può accadere con Mubarak.
Educatamente gli Usa e il resto del mondo gli chiedono di spostarsi al­meno un po’ sul quel largo trono, ma Mubarak sa benissimo che la ri­chiesta
non sarà troppo insistita, perché l’ultimo a interessarsi seria­mente di diritti umani è stato Geor­ge Bush, con i suoi pregi e difetti, e al resto del mondo interessa soprattut­to la stabilità. Ma quanto fragile è questa scelta lo si vede in queste ore. Di stabile in Egitto non c’è proprio niente. Prima di tutto, Mubarak da una parte reprimendo e dall’altra sussumendo le opposizioni estremi­­ste, comprese la Fratellanza Mussul­mana, ha di fronte, oltre che un inne­ga­bile desiderio di libertà e rinnova­mento, anche un’opinione pubbli­ca spaventosa. Lo prova l’ultimain­dagine Pew: in Egitto l’82 per cento è favorevole alla lapidazione delle adultere, il 77 per cento al taglio del­la mano, l’84 alla pena di morte per i musulmani che cambiano religio­ne. Richiesti se preferiscono i mo­dernizzatori o gli islamisti, il 27 tiene per la modernità e il 59 per cento vuole gli islamisti. Il 30 per cento ama gli Hezbollah, il 49 Hamas, il 20 Al Qaida. Chi può gestire una simile opinione pubblica in senso riforma­tore democratico?
La risposta più re­alistica è che le riforme lefarà anco­ra Mubarak con l’aiuto di Suleiman per evitare di essere rovesciato.
Se guardiamo al futuro, tuttavia, non si placherà spontaneamente la grande «Intifada» cui ha invitato fi­no alla vittoria il candidato di una parte dell’opposizione, Moham­med El Baradei:
l’uomo che piace di più all’Occidente con i suoi abiti ben tagliati, il suo premio Nobel per la pa­ce, l’innegabile coraggio di mostra­re la faccia in mezzo alla sanguinosa confusione egiziana e il suo passato di segretario dell’Agenzia Onu per l’energia atomica, l’Aiea,che lo ha reincaricato ben tre volte.
Ma come ha gestito il suo manda­to? Certo in modo non rassicurante.
Per John Bolton, allora ambasciato­re all’Onu degli Usa sono incalcola­bili i danni da lui procu­rati con la di­fesa a oltranza delle strutture nuclea­ri iraniane, di cui ha seguitato a soste­nere, falsamente, la sostanziale in­nocuità e la destinazione a fini civili.
El Baradei ha paragonato la potenza nucleare israeliana a quella irania­na, ha detto che Israele è il peggiore pericolo per il Medio Oriente, ha più volte riabilitato la Fratellanza Mus­sulmana. Su questa, nata in Egitto e decisa a conquistarlo anche con re­cente congiura sediziosa di matrice iraniana in uno stato coranico jihadi­sta, ovviamente non possiamo con­tare per un regime di riforme. Poi, il movimento Kifaya che, nato nel 2004 sulla legittima richiesta a Mu­barak di non presentarsi candidato presidente per la quinta volta, è di origine comunista, antisemita e an­tioccidentale, estremista tanto da mettere in programma la cancella­zione della pace con Israele.
Insomma, Mubarak si trova schie­rati contro oltre a un popolo giusta­mente infuri­ato per il pane e la corru­zione anche tutti i gruppi che gli Usa
e l’Europa hanno lasciato crescere trascurando l’opposizone democra­tica vera, come quella di Saad Eddin Ibrahim o di Ayman Nur, per paura di disturbare il manovratore. Un guaio vero,tanto che Khamenei dal­l’-Iran fa sapere come se non lo sapes­simo, che questa rivoluzione gli pia­ce moltissimo.

La Stampa-Maurizio Molinari: "Suleiman, superspia che ha schiacciato i Fratelli musulmani "


Omar Suleiman                          Maurizio Molinari

Qualche anno fa Omar Suleiman diede appuntamento nella lobby di un hotel del Cairo a un agente della Cia e a uno del Mossad. Quando entrarono, li accolse facendo il segno V con le dita e un attimo dopo dal nulla sbucò un assistente che gli pose un sigaro fra l’indice e il medio: l’episodio riassume l’identità del capo dell’Intelligence egiziano, che ha i modi eleganti di un lord inglese e schiaccia gli avversari con il pugno di ferro, ben consapevole di essere la spia più potente del Medio Oriente.

Suleiman nasce nel 1936 a Qena, nel Sud del Paese, dove la tradizione vuole che gli uomini abbiamo solo due futuri possibili: fare il poliziotto o lo sceicco. Lui ha scelto la seconda opzione, scalando i gradini nell’esercito e nei servizi segreti fino a diventare nel 1993 il capo dell’Intelligence, rimanendolo in incognito fino al 2000, quando il suo nome fu reso pubblico. Degli anni da ufficiale, incluse le guerre del 1967 e del 1973 contro Israele, si sa solo che fu Gamal Nasser a spedirlo all’accademia militare Frunze di Mosca per trasformarlo in un soldato modello, ponendogli una condizione: «Non tornare comunista». Suleiman obbedì e oggi è un alleato prezioso di Stati Uniti e Israele.

Il legame con Israele nacque quando Arafat, dopo aver fatto fallire le trattative di Camp David nel 2000, tornò nei Territori scatenando la seconda Intifada per poi chiedere aiuto all’Egitto allorché Sharon rispose con l’operazione Muro di difesa nel 2002. Suleiman conosceva bene Arafat e gli fece sapere che non poteva contare sull’Egitto. Da allora i leader israeliani militari, politici e di intelligence lo hanno avuto come interlocutore privilegiato nel negoziato di pace come nella Striscia di Gaza, dove Suleiman da cinque anni tenta invano di mediare fra Hamas e Anp, come anche per liberare il soldato rapito Gilad Shalit.

Garante della «pace fredda» con Israele, ciò che conta per questo 007 con baffi curati, tratti nubiani e abiti blu su misura - un look che ricorda Anwar Sadat - è soprattutto sconfiggere gli integralisti egiziani, di cui Hamas è alleata. E il prestigio di cui gode a Washington è dovuto al fatto che è uno dei pochi zar dell’Intelligence araba che può vantare di aver messo sulla difensiva i jihadisti. Il merito è dei metodi spietati con cui li bracca: retate, torture, esecuzioni sommarie e una massiccia presenza militare nelle zone dei focolai sono gli strumenti che gli hanno consentito di infierire duri colpi alla Jihad islamica e a Gama’a Islamiya, le due costole egiziane della galassia di Al Qaeda.

Aver messo sulla difensiva i jihadisti ha significato salvare il potere e anche la vita a Hosni Mubarak, il Raiss di cui è un fedelissimo. Il 25 giugno del 1995 Mubarak stava partendo per il vertice africano ad Addis Abeba con l’avallo dei militari, ma Suleiman si intromise obbligandolo a modificare i piani e portare in aereo la sua auto blindata. L’indomani, alle 8.15 del mattino, fu quella limousine a salvare Mubarak quando, all’uscita dall’aeroporto di Addis Abeba, un commando di terroristi della Gama’s Islamiya - alcuni originari di Qena - gli scaraventò contro centinaia di proiettili di kalashnikov. Mubarak era sul sedile posteriore, con accanto Suleiman, e vide rimbalzare su finestrini e tettino i colpi che avrebbero potuto assassinarlo, com’era accaduto a Sadat nel 1981.

Garante della vita del Raiss e protettoredell’Egitto, Suleiman è da tempo il candidato dei militari alla successione di Mubarak e se finora era rimasto nell’ombra è perché Mubarak intendeva lasciare la presidenza al figlio Gamal, facendo leva sul fatto che il super 007 non si intende di economia e sanità.

La rivolta però rovescia lo scenario: la successione di Gamal sfuma e il Raiss sceglie Suleiman come primo vicepresidente in quasi trent’anni, lasciando intendere che, se riuscirà a riportare l’ordine e garantire la transizione verso le elezioni di settembre, diventerà il nuovo Faraone. Anche perché Suleiman non è considerato corrotto. «È l’unico a fare da ponte fra militari e Intelligence - dice Robert Springborg, direttore del Middle East Institute di Londra - e ha in mano il controllo della politica senza mai essersi sporcato le mani».

La Stampa-Paolo Mastrolilli: " Il tempo di Mubarak è finito "


El Baradei, riconoscente, abbraccia Ahmadinejad

L'intervista a El Baradei è interessante, perchè rivela le reali intenzioni del protetto di Ahmadinejad. Che poi la sua candidatura non sia così automatica, è probabile, vista anche l'opinione di Nabil El Fattah, ex capo del centro studi strategici egiziano, che nell'intervista di Udg sull'UNITA' di oggi, dichiara che "la sua influenza è minima". E'soprattuto l'Occidente che non ha capito nulla di lui a dargli tutto questo spazio.
Ecco l'intervista:

Questa volta il telefono squilla e a rispondere viene Ali El Baradei: «Volete parlare con mio fratello? Un momento che chiedo». Lo sentiamo riferire in sottofondo: «È il giornale italiano “La Stampa”, ti avevano già cercato due giorni fa. Che gli dico?». Due secondi dopo riconosciamo la voce che sentivamo all’Onu, quando l’ex capo dell’Aiea negava l’esistenza di armi atomiche in Iraq e si opponeva alla guerra, guadagnandosi il premio Nobel per la pace: «Come vanno le cose in Italia?», scherza Mohammed El Baradei. Più tranquille che in Egitto, ma lei non è agli arresti domiciliari? «Così hanno detto le autorità, e ci hanno pure staccato l’acqua. Però oggi le sfido ed esco lo stesso: vediamo cosa succede. Non noto una grande presenza di polizia qui intorno, credo che abbiano annunciato il mio arresto per intimorire i manifestanti. Il messaggio è questo: se prendiamo una persona nota come El Baradei, figuratevi cosa facciamo a voi».

Funzionerà? «Non credo. La gente oggi è tornata in piazza, e continuerà a farlo fino a quando Mubarak non andrà via». Il suo discorso e le nuove nomine non l’hanno convinta? «È stato un’offesa all’intelligenza degli egiziani: parole vuote. Mubarak è al potere da 30 anni e tutti sanno che nomina i membri del governo a suo piacimento. Come può pensare di scaricare tutta la colpa sull’esecutivo, promettere riforme fantasma, ed essere creduto?».

Qual è la soluzione ora? «Quello che chiede la piazza. Mubarak deve capire che il suo tempo è finito e lasciare pacificamente il potere. A quel punto dovremo costituire un governo di transizione, che sia una coalizione in grado di rappresentare tutta la società. Questo esecutivo dovrà cambiare la costituzione nelle sue parti che negano la democrazia. Una volta completato il lavoro, l’Egitto dovrà andare alle urne per eleggere liberamente il nuovo parlamento e un presidente». Lei si candida a guidare questo governo di transizione? «Chiunque ha la buona volontà di credere davvero nella democrazia può essere candidato, ma la scelta compete al popolo». La gente applaude i militari in strada perché spera che si schiereranno contro Mubarak? «Lo spero anch’io, forse è la chiave di questa crisi».

Come giudica la protesta? «È un fenomeno straordinario e spontaneo, che rappresenta davvero tutta la società egiziana. Venerdì, dopo la preghiera nelle moschee, in piazza c’erano ricchi e poveri, persone istruite e analfabeti. Tutte le componenti sociali del Paese hanno manifestato pacificamente un risentimento che cova da tempo, e questo è il motivo per cui Mubarak non può fare finta di niente».

Ci sono state anche violenze, però. «La colpa è della polizia, che ha reagito in modo atroce. La protesta era pacifica, ma la risposta degli agenti l’ha fatta degenerare. Nonostante questo, a parte qualche saccheggio subito condannato, la stragrande maggioranza dei manifestanti ha continuato solo a esprimere le proprie idee. La violenza si ritorcerà contro Mubarak, così come le vuote parole del suo discorso». La comunità internazionale teme che l’Egitto precipiti nel caos. «Ha torto, è una paura senza senso. Perché mai un governo democratico e rappresentativo di tutto il popolo dovrebbe trascinare il Paese verso l’instabilità?». Perché potrebbe essere guidato dai Fratelli Musulmani, ad esempio. «Altro timore insensato. Il regime ha usato lo spauracchio dell’estremismo islamico per convincere l’occidente ad appoggiarlo, ipotizzando fantasiose saldature con Al Qaeda, Hamas e l’Iran. I Fratelli Musulmani sono solo un gruppo religioso conservatore, come gli ebrei ortodossi a Gerusalemme e gli evangelici negli Stati Uniti. Rappresentano una minoranza degli egiziani e comunque non avranno la forza di sovvertire la nostra costituzione, che prevede un governo civile alla guida del Paese». Quindi lei chiede agli Stati Uniti di mollare Mubarak? «Washington non può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ora deve scegliere. O Mubarak o il popolo. Le due cose non sono più conciliabili. In piazza non si sentono slogan anti americani e io ho molta stima di Obama. Però gli Stati Uniti devono decidere se applicare anche in Egitto i principi democratici che predicano in tutto il mondo. I nostri giovani vogliono solo il sogno americano». E continuerete ad appoggiare il processo di pace in Israele? «Noi siamo a favore, ma dovete chiedere a Netanyahu perché il dialogo non procede. C’è risentimento perché gli israeliani occupano terra palestinese e Mubarak è stato un protagonista acritico del negoziato. Così, però, non siamo arrivati ad alcun risultato: anche gli Usa ora hanno la possibilità di rivedere tutta la loro politica in Medio Oriente». Vuol dire che le proteste in Tunisia e in Egitto rappresentano l’inizio di una nuova era nella regione? «Lo spero, non è possibile continuare a controllarla con la violenza, la negazione dei diritti e la fame. È ora che anche il mondo arabo entri nel XXI secolo e l’Occidente deve aiutarci a farlo».

Corriere della Sera-Benny Morris: " Ora il rischio è quello di essere un 'secondo Iran' "


Benny Morris

I l regime di Hosni Mubarak è finito. Lo tsunami umano che ha spazzato le strade del Cairo, di Alessandria e di Suez ha sancito la sua definitiva delegittimazione. La questione ora sta nel vedere se l’Egitto seguirà il copione iraniano, con l’ascesa al potere dei fondamentalisti islamici — i Fratelli Musulmani — nell’immediato oppure dopo la graduale eliminazione dei rivali laici, o se, con l’aiuto americano, una forza alternativa non settaria sarà in grado di subentrare al vecchio presidente, con l’appoggio dell’esercito. Gli americani hanno indicato la rotta preferenziale quando, questo venerdì, hanno condannato il regime per l’impiego della violenza contro i manifestanti, anche se non eccessiva, per poi annunciare l’effettiva sospensione di tutti gli aiuti militari, corrispondenti a 1,5 miliardi di dollari l’anno. Il segnale inviato alle forze armate egiziane non poteva essere più chiaro: scaricate Mubarak. (La svolta si è verificata appena tre giorni dopo che il segretario di Stato americano aveva definito il regime di Mubarak come «stabile» . Nella faccenda non si è vista traccia di lealtà verso un fedele alleato trentennale). La mossa americana è stata dettata dall’aver capito prontamente che il vecchio regime era ormai irrecuperabile e dal desiderio di arginare le ambizioni dei Fratelli Musulmani, che venerdì si sono uniti alle proteste di piazza. Sarà l’esercito, assai probabilmente, a impostare la rotta dell’Egitto nei prossimi mesi. Tuttavia, la vera decisione sul futuro del Paese verrà presa tra quattro o sei mesi, quando gli egiziani si recheranno alle urne. Un governo provvisorio con l’appoggio dei militari, vuoi di unità nazionale, che comprenda partiti laici e islamici, vuoi una coalizione più ristretta di soli partiti laici, spianerà la strada per le elezioni, che rappresenteranno il primo vero esercizio di democrazia in Egitto. Da queste elezioni scaturirà il destino del Paese, e forse dell’intero Medio Oriente, perché se vinceranno i Fratelli Musulmani — il partito maggiore e meglio organizzato tra tutti — come ha fatto Hamas, la loro filiale in Palestina nelle elezioni del 2006, sia l’Egitto che la geopolitica dell’intera regione verranno scompaginati da un processo di radicalizzazione, con il rischio di un conflitto generalizzato. L’area mediorientale, in questo caso, cadrebbe sotto la sfera di influenza di Iran ed Egitto, e il trattato di pace israelo egiziano del 1979 verrebbe revocato. Se i partiti laici vinceranno e saranno capaci di coalizzarsi per contrastare la minaccia islamista, l’Egitto potrà dare impulso a una società più libera e giusta, incoraggiando tutto il Medio Oriente a proseguire sulla via della pace e dell’equilibrio tra Islam e secolarismo. Queste elezioni rappresentano l’evento più significativo in Medio Oriente dagli anni 70 a oggi

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