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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-La Stampa Rassegna Stampa
29.01.2011 Egitto: Che fa Washington ?
Analisi del Foglio, Carlo Panella, Maurizio Molinari

Testata:Il Foglio-La Stampa
Autore: La redazione del Foglio-Carlo Panella-Maurizio Molinari
Titolo: «Obama imbarazzato non sa trovare un'alternativa al regime-Che accadrà ora che non c'è una 'freedom agenda' a Washington-Satana non è più l'America»

Come reagisce l'America ? Non ci sono ragioni per essere ottimisti, il rapporto con il Cairo di Obama è stato male impostato fin dall'inizio, come spesso succede con la politica estera americana. Il rischio che l'Egitto entri nell'orbita islamista è più che reale.
Riprendiamo oggi, 29/01/2011, le analisi del FOGLIO, con Carlo Panella, a pag.3 e dalla STAMPA Maurizio Molinari a pag.1/ 35.

Il Foglio- " Obama imbarazzato non sa trovare un'alternativa al regime "

 

Washington. Durante la sua prima visita al Cairo nel 2009, al segretario di stato Hillary Clinton fu chiesto se la costante violazione dei diritti umani da parte del regime egiziano – violazione documentata dallo stesso dipartimento di stato – avrebbe impedito un’eventuale visita di Hosni Mubarak a Washington. Nei precedenti cinque anni il rais del Cairo non si era mai presentato alla Casa Bianca perché continuava a scontrarsi con l’Amministrazione Bush a causa dei metodi violenti usati dal regime contro il suo stesso popolo. Clinton rispose: “Non c’è alcuna connessione tra le due cose – Il presidente Mubarak e sua moglie sono amici della mia famiglia. Spero di vederli spesso in Egitto e negli Stati Uniti”. I generali egiziani sono arrivati due giorni fa in America per il meeting annuale con i vertici militari americani, che sono anche la loro principale fonte di sostentamento (l’80 per cento delle spese dell’esercito del Cairo sono coperte da fondi statunitensi). Mentre tutti si interrogavano sul tempismo dell’incontro – i generali in America mentre l’Egitto viene giù – sono iniziate le domande, e gli imbarazzi. Che cosa faranno gli Stati Uniti con Hosni Mubarak? Fioriscono risposte in ogni circolo di politica estera che si rispetti, ogni esperto ha un consiglio da fornire, ma per chi poi deve decidere – la Casa Bianca, il dipartimento di stato, il Pentagono – è difficile persino trovare una voce unica con cui parlare. Hillary Clinton ha ribadito la linea del “nostro partner” Mubarak, dicendo che il regime era “stabile”, ma poi è tornata sui suoi passi, chiedendo al Cairo di ascoltare la voce della piazza e l’esigenza di riforme. Anche la Casa Bianca ha dovuto destreggiarsi: “Barack Obama sta con Mubarak o con la piazza?”, ha chiesto un giornalista al portavoce Robert Gibbs, e lui ha detto che non è compito dell’Amministrazione schierarsi da qualche parte, che è come rispondere “non lo sappiamo”. Ieri su twitter, Gibbs e il suo collega al dipartimento di stato hanno fatto sapere che gli Stati Uniti sono molto preoccupati per le violenze e hanno chiesto di riaprire le comunicazioni dal paese. A completare l’opera è arrivato l’immancabile vicepresidente Joe Biden, che ha sempre una parola buona per tutte le occasioni: stando alla ricostruzione del Christian Science Monitor, il numero due di Obama ha detto di non voler riferirsi a Mubarak definendolo “un dittatore”. Fonti vicine all’Amministrazione hanno raccontato al Foglio che in queste ore c’è un gran dibattito su quale strategia adottare con l’Egitto. Tutti hanno in mente bene quel che è successo, nel luglio del 2009, con la piazza iraniana: Obama ha optato per la realpolitik prendendo le distanze dall’Onda verde, salvo poi doversi ricredere – con estremo ritardo – schierandosi con i ragazzi che manifestavano contro gli ayatollah. Il fatto è che la crisi di Teheran era, in qualche modo, ben più semplice di quella del Cairo: i generali americani ripetono spesso che senza l’Egitto non c’è accesso alla regione mediorientale (e oggi il Pentagono spinge per il mantenimento dello status quo). Come dimostrano i documenti di Wikileaks, il realismo obamiano ha portato a un grande riavvicinamento tra Washington e il Cairo – sintetizzato nella dichiarazione di amicizia di Hillary Clinton – a discapito naturalmente della difesa dei diritti che era il perno della “freedom agenda” di George W. Bush. Non a caso, mentre l’Amministrazione attuale valutava un aumento dei fondi da destinare al governo egiziano, contestualmente venivano tagliati i finanziamenti alle organizzazioni che si battevano per la difesa della libertà contro il regime e che avevano vissuto il loro periodo d’oro durante gli anni di Bush. Oggi che la destabilizzazione è un dato di fatto, la Casa Bianca obamiana fatica a prendere una posizione anche perché non ha più investito in un’alternativa credibile al regime dei Mubarak. Sono gli scontri in piazza che ora determineranno l’esito di questa grandiosa prova di forza contro il regime: da un lato c’è Mohammed ElBaradei, che non ha aspettato nemmeno di tornare in Egitto prima di criticare il comportamento degli Stati Uniti (con un effetto quasi ridicolo, come ha sottolineato il Wall Street Journal: l’ex capo dell’Agenzia atomica dell’Onu oggi critica Washington di aver sostenuto i dittatori, quando lui era parte di quell’establishment onusiano che criticava Bush perché si opponeva ai dittatori); dall’altro ci sono i Fratelli musulmani che godono di consenso e di rappresentatività tali da poter diventare una forza di traino per la piazza egiziana (l’esperimento di Hamas a Gaza mostra che il passo successivo è la violenza ai danni del proprio popolo, e la sharia). La tentazione di stare con la piazza è naturalmente molto forte a Washington, ma i rischi sono tanti: non avendo investito in un’alternativa valida al regime, il regime diventa il male minore.

Il Foglio-Carlo Panella: " Che accadrà ora che non c'è una 'freedom agenda' a Washington "

 

Roma. La rivolta egiziana sgretola la strategia mediorientale del presidente americano Barack Obama. La “grande svolta” rispetto alla Amministrazione di George W. Bush prospettata all’Università al Azhar del Cairo il 4 giugno 2009 si basava su due punti. Il primo era la convinzione che esistesse la possibilità di un dialogo leale con i regimi islamici, con poco interesse per i movimenti che vogliono portare la democrazia dal basso – si è visto nel caso dell’Onda verde iraniana, e si nota anche nell’imbarazzo di queste ore. Il secondo era l’uso di una potente politica d’immagine – è il caso dello “storico” avvio di colloqui di pace per il medio oriente, che non sono mai entrati nel vivo. Le prospettive sostenute da Obama, ora, sembrano bruciate. Le conseguenze sono numerose. L’Iran, con la Siria, Hezbollah e Hamas, avrà uno spazio di manovra molto più ampio; la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che si è scontrata più volte con Israele negli ultimi mesi anche per marcare il declino dell’Egitto negli affari del Mediterraneo, è destinata ad assumere la leadership della regione; il compito di contenere l’Iran e gli oltranzisti islamici vari passa all’Arabia Saudita, che è ingessata nelle patologie terminali dei suoi re e dei pretendenti al trono. Gli Stati Uniti non hanno un piano B per affrontare questo scenario, come ha confessato il vicepresidente, Joe Biden, parlando dell’Iran. Ma oggi l’occidente paga anche la scelta – che, va detto, fu inizialmente imposta a Bush da Condoleezza Rice – di abbandonare le pressioni esercitate sino ad allora su Hosni Mubarak per obbligarlo ad approvare alcune riforme politiche. Subito dopo l’avvio della coalizione dei volonterosi in Iraq, Bush delineò una strategia per il “grande medio oriente” che prevedeva il sostegno all’istruzione, alla parità effettiva di donna e uomo, alla libertà di stampa e alle elezioni libere. I quattro capisaldi di questo piano furono posti al centro del G8 di Savannah nel 2004. Se Obama li proponesse oggi ai manifestanti del Cairo, l’effetto sarebbe clamoroso. La reazione di Hosni Mubarak fu rabbiosa: il rais egiziano accusò Bush di “ingerenza”, fece appello alla dignità del popolo arabo e organizzò una fronda, rifiutandosi di partecipare al G8. La fronda fu formalizzata con un congresso degli intellettuali islamici solennemente inaugurato da Mubarak al Cairo. Al G8 del 2004 portarono un contributo soltanto Turchia, Giordania, Marocco e pochi altri stati islamici. Il boicottaggio egiziano ebbe un grande effetto sulla strategia di Bush per il grande medio oriente. Il presidente americano non cessò comunque le pressioni su Mubarak: nella primavera del 2005, il segretario di stato, Condoleezza Rice, presentò al Congresso una legge che proponeva di sospendere gli aiuti al Cairo (due miliardi di dollari all’anno) se Mubarak non avesse rilasciato il leader del partito al Ghad, Ayman Nour, e se non avesse indetto vere elezioni presidenziali. Questo scontro raggiunse il culmine nel giugno del 2005, quando Bush stigmatizzò la dura repressione delle manifestazioni per le strade del Cairo: “La prospettivache persone che manifestavano liberamente le loro idee siano state picchiate non corrisponde alla nostra visione della democrazia”, disse il capo della Casa Bianca. Il suo portavoce, Scott MacClellan, fu quasi provocatorio: “Chi ha attaccato manifestanti pacifici in Egitto deve essere arrestato”, commentò. La minaccia atomica iraniana e l’eterna illusione che le timide riforme economiche sospinte dal figlio di Hosni Mubarak, Gamal, si estendessero in automatico alla sfera politica hanno rallentato le pressioni riformatrici dell’America. Soprattutto perché Condoleezza Rice, da cremlinologa quale è, fece l’errore di applicare lo schema reaganiano al medio oriente, quello che prevedeva euromissili e muro europeo contro l’Unione sovietica. Lavorò quindi per costruire una barriera antisciita imperniata sul Cairo e Riad, che, però, si è rivelata inefficace – l’unica potenzialità del piano era quella di permettere a Israele di colpire l’Iran nel caso in cui la minaccia atomica fosse divenuta troppo reale. Dal giorno della vittoria di Obama, Mubarak si sente completamente libero da pressioni e condizionamenti americani e pensa soltanto alla sua malmessa salute, alla successione, e a ospitare nella sua villa di Sharm el Sheikh inutili vertici per la pace tra al Fatah e Hamas o per sbloccare le trattative tra Abu Mazen e Netanyahu – purtroppo, neanche questo gli riesce. Ed è forse troppo tardi per scegliere la strada delle riforme che Bush tentò di imporre.

La Stampa- Maurizio Molinari: "  Satana non è più l'America "


                                          Maurizio Molinari

L’ America segue con passione l’affermarsi di una piazza araba che chiede libertà e democrazia anziché maledire lo Zio Sam.
Ciò che accomuna i resoconti dei media, dal Washington Post ai maggiori network tv, e le analisi dei centri studi, dalla Brookings Institutions alla Fondazione Carnegie, è la descrizione di una novità: da Tunisi al Cairo, da Alessandria a San’a, le nuove generazioni arabe manifestano non contro i Satana dell’Occidente ma a favore di più diritti, politici ed economici. «Le crisi interne al mondo arabo hanno preso il sopravvento sull’ostilità verso l’America e sul conflitto israelopalestinese nei cuori di milioni di musulmani» spiega Eliott Abrams del «Council on Foreign Relations». Abituati a considerare le manifestazioni oceaniche di musulmani come nemiche, gli americani scoprono che «la strada araba oggi ha valori comuni con la Main Street del Midwest» osserva Fuad Ajami, orientalista della Johns Hopkins University. Le notizie frammentarie di manifestazioni pro-democratiche che arrivano da Giordania e Siria consentono al «Center for American Progress» di John Podesta, molto vicino alla Casa Bianca, di affermare che «la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia sta diventando qualcosa di più ampio».

E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44˚ Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno - come avvenuto in Europa, Asia e Sud America - e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.

In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo. La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica - ovvero la garanzie di elezioni davvero libere - capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane - dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti - considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.

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