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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Libero - Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.01.2011 La rivolta si allarga all'Egitto
commenti di Carlo Panella, Antonio Ferrari. Cronaca di Cecilia Zecchinelli

Testata:Libero - Corriere della Sera
Autore: Carlo Panella - Antonio Ferrari - Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Né dittatori, né islam. La gente vuole democrazia - Febbre difficile da abbassare, regione a rischio - La rivolta si allarga all’Egitto, sangue nelle città»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 26/01/2011, a pag. 1-20, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "  Né dittatori, né islam. La gente vuole democrazia". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Febbre difficile da abbassare, regione a rischio ", l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " La rivolta si allarga all’Egitto, sangue nelle città ".
Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : "  Né dittatori, né islam. La gente vuole democrazia"


Carlo Panella

Continuano le manifestazioni dell’opposizione in Tunisia e intanto il contagio della “rivolta dei gelsomini” di Tunisi coinvolge il Cairo, Alessandria, Ismailia,Port Said e altre città egiziane (200.000 i manifestanti in tutto), mentre il “giorno della collera” proclamato dal premier libanese spodestato porta in piazza decine di migliaia di manifestanti a Beirut e a Tripoli (con forti scontri). Il mondo arabo si ritrova così, all’improvviso, percorso e sconvolto da una rabbia popolare che la crisi economica ha inasprito e che i regimi affrontano con timore e paura del peggio. Identiche le motivazioni dei manifestanti (voglia di libertà e soprattutto di lavoro, rigetto dei raìs corrotti che mal governano), simile e sorprendente la forza delle mobilitazioni di massa, ma anche diversi gli scenari. In Tunisia Ben Ali è stato costretto alla fuga non solo dalla forza del movimento di protesta, ma anche dalla stupida rigidità del suo regime e della sua vorace famiglia che hanno impedito riforme, concessioni democratiche e economiche indispensabili. Diverso il quadro dell’Egitto che ha visto oggi ben 30.000 manifestanti affollare la piazza Tahrir, chiamati non tanto dai partiti storici dell’opposizione (Fratelli Musulmani, i Liberali e lo storico Wafd, oggi guidato dal Nobel El Baradei) quanto dalla “rete” (Twitter e Facebook, subito oscurati dal governo) che sta dimostrandosi un formidabile strumento per organizzare la rabbia dal basso. Slogan contro Mubarak (“Dimissioni subito!”), parola d’ordine generale: “La Tunisia è la soluzione” e scontri con le forze dell’ordine che al Cairo hanno lanciato lacrimogeni e abbondantemente manganellato (come peraltro a Ismailia), con svariate decine di arresti e, pare, un poliziotto morto, calpestato dalla folla. Ma il regime di Mubarak e la società egiziana, sono molto diversi da quelli della Tunisia. Nonostante le leggi di emergenza in vigore dal 1982, in Egitto ci sono elezioni parlamentari, non libere (i Fratelli Musulmani, l’ultima volta, ma non la precedente, sono stati esclusi), ma che permettono una certa rappresentanza delle diverse componenti sociali. La stessa economia egiziana ha visto timide riforme liberalizzatrici sostenute dal figlio (e probabile successore, di Hosni Mubarak) Gamal. Un quadro che fa ipotizzare – salvo rapida verifica - che il regime possa rispondere alla piazza con flessibilità, con riforme, senza farsene travolgere. Ancora diversa la situazione in Libano, là dove i manifestanti sono stati chiamati in piazza per la loro “giornata della collera”, dal premier del governo uscente, Saad Hariri, per rispondere al colpo di mano mandato a segno da Hezbollah che l’ha fatto dimissionare e - grazie all’ennesimo voltafaccia del druso Walid Jumblatt - lo ha ieri sostituito con il tiycoon sunnita Najjb Mikati, premier di un governo completamente nelle mani di Hezbollah che si prepara a rigettare gli ordini di cattura contro dirigenti di Hezbollah che il Tribunale speciale dell’Onu per il Libano emetterà tra pochi giorni per l’assassinio nel 2005 di Rafik Hariri, padre di Saad. Un governo che riporta il Libano sotto il controllo politico della Siria (e dell’Iran), e che si prepara ad uno scontro frontale contro il fronte antisiriano libanese guidato da Saad Hariri, dopo che le mediazioni dell’Arabia Saudita e della Turchia sono fallite. Pessimi segnali non per una possibile rivolta libanese “alla tunisina”, ma per qualcosa di molto simile ad una nuova guerra civile (e anche per la ripresa di una, politica di aggressione contro Israele).

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Febbre difficile da abbassare, regione a rischio "


Antonio Ferrari

E'una febbre contagiosa, assai difficile da contenere e abbassare, e che colpisce gran parte della sponda sud del Mediterraneo. Tutto è cominciato all'inizio dell'anno in Egitto, e tutto sta tornando al punto d'origine, dopo aver coinvolto Algeria, Tunisia, Albania e Libano. Sicuramente è stata la rivolta tunisina ad aver convinto anche i meno impegnati ad osare, visto che laggiù la reazione del popolo ha provocato la caduta del governo e la fuga del presidente-imperatore Ben Ali. Ma tutto, come s'è detto, era cominciato ad Alessandria d'Egitto, e attorno alle Piramidi si è tornati. Ora assistiamo a qualcosa che pareva inimmaginabile soltanto pochi mesi fa. Decine di migliaia di persone che scendono in piazza senza paura per urlare la loro rabbia nei confronti di un regime che sembra privo del paracadute necessario per proteggersi da un'onda che potrebbe rivelarsi pericolosa. Alcuni già la ritengono fatale, ma forse è eccessivo spingersi verso previsioni avventate. Certo quel che accade in Egitto non è lontanamente paragonabile a quanto è accaduto in Tunisia. Nel piccolo paese che fu di Ben Ali la rivolta (che non si è ancora conclusa) avrà conseguenze importanti ma limitate. Se dovesse sfaldarsi il potere egiziano (c'è davvero da augurarsi che non accada) sarebbe una vera catastrofe sia per il paese, che è il più importante del mondo arabo, sia per l'intera regione. Che si allarga a tutto il Medio oriente. La folla di oltre trentamila persone che ha lanciato la sua sfida nella grande piazza del Museo è un brusco segnale per la stabilità del regime. Mai i contestatori avevano osato tanto. In generale le proteste si accendevano e si spegnevano in zone limitate. Adesso la rabbia colpisce il cuore del potere. «Gamal, di’ a tuo padre che ti odiamo» , è lo slogan-rasoiata della gente che il regime teme di più. Perché Gamal è il figlio del presidente Hosni Mubarak ed è il candidato più accreditato a succedergli nelle elezioni presidenziali di quest'anno. Le voci che si rincorrono non escludono che il delfino in questo momento si trovi lontano dal Cairo, ma si tratta di voci appunto ed è bene evitare speculazioni perché Gamal è spesso all'estero, magari a un vertice internazionale. Non è escluso che vada a Davos. Ma ci sono altri due problemi a rendere ancor più amaro questo inizio d'anno per il presidente Mubarak, che è al timone dell'Egitto da 30 anni: uno riguarda l'uomo che ha incoraggiato la gente a scendere in piazza, Mohammed El Baradei, che ben oltre il ruolo avuto all'agenzia nucleare è riuscito a conquistare grandissima popolarità nel paese. Il secondo problema arriva da Alessandria, la storica città infinitamente più piccola del Cairo dove tutto è cominciato con la strage dei cristiani-copti, la notte di Capodanno, all'uscita dalla chiesa dei due Santi. La strage, sicuramente pianificata da estremisti sunniti legati ad Al Qaeda, aveva un obiettivo: quello di creare un conflitto tra musulmani e copti. Ma il piano non è riuscito, anche se ieri le manifestazioni più dure contro il regime di Mubarak si sono svolte proprio ad Alessandria. Il paradosso è questo. Mentre i fratelli musulmani, al Cairo, parevano defilati, ad Alessandria erano in prima fila. Il perché? Presto detto. Alle precedenti elezioni gli eletti indipendenti legati ai «fratelli» erano ottantotto, alle ultime elezioni zero. Certo, l'instabilità dell'Egitto fa tremare i palestinesi, colpiti dalle rivelazioni sull'Anp, che sperano sempre nell'intervento di Mubarak. E fa tremare il Libano, dove il rischio di guerra civile è altissimo dopo la nomina del neopremier Najib Mikati, sostenuto da Hezbollah. Il leader druso Walid Jumblatt sembra l'immagine della fragilità libanese: dei suoi 11 deputati, 6 hanno votato per Mikati, 5 per lo sconfitto Hariri.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " La rivolta si allarga all’Egitto, sangue nelle città "


Hosni Mubarak

Al grido di «la Tunisia è la soluzione» , «Mubarak vattene, l’aereo t’aspetta» sono stati almeno 200 mila, forse 300 mila a rispondere ieri in tutto l’Egitto all’appello per la «giornata della rabbia» lanciato dall’opposizione di base su Facebook e poi propagato con il passaparola nei tanti ambienti dove Internet non è diffuso. Dalle periferie e dal centro del Cairo, fino ad Alessandria, alle città del Canale e del Delta, al grande polo operaio di Mahalla al Kubra, alle oasi del deserto, ad Assiut e altre zone del Sud, ovunque la rabbia contro il regime, i trent’anni di leggi speciali, la povertà e la corruzione è esplosa come pochi avrebbero immaginato. Ad unire le tante anime gli slogan contro il raìs al potere dal 1981, contro il figlio Gamal che potrebbe già succedere al padre in settembre, il ministro degli Interni Habib Al Adly, il governo, l’intero sistema. Inizialmente pacifiche, con mamme e bambini sotto le bandiere, le manifestazioni sono spesso diventate violente. Barricate e sassi contro manganelli, idranti e lacrimogeni. Al Cairo i cortei hanno tentato l’assalto al ministero degli Interni, al Parlamento, alla sede del partito di governo Ndp. La polizia, richiamata in forze nel giorno della sua festa (scelto apposta per la protesta), non ha quasi mai sparato anche se a Suez tre manifestanti sono stati uccisi, due da proiettili di gomma, uno da un colpo vero. Molti arresti e feriti, una decina dei quali, nella notte, sono gravi. Una quarta vittima è stato un poliziotto, ucciso dalla calca a Midan Al Tahrir, la piazza della Liberazione al centro del Cairo. Ma il bilancio è in complesso limitato per un Paese dove ad ogni elezione le vittime civili sono numerose. E dove le ultime proteste massicce contro il governo, la rivolta del pane del 1977, si concluse con 800 morti stimati. «Sono appena tornata da Tahrir, c’erano tutti: studenti, operai, impiegati, casalinghe, i partiti d’opposizione e i nuovi movimenti di base come il 6 aprile e Kifaya, i sostenitori del premio Nobel ElBaradei che vuole candidarsi presidente e Ayman Nour che candidato già fu nel 2006, anche i Fratelli Musulmani che hanno aderito alla protesta pur non partita da loro. Non c’era mai stata una reazione così massiccia e unita— dice dal Cairo Farida Al Naqqash, nel vertice del partito laico Tagammu —. Altre novità sono che la polizia ha avuto ordine di limitarsi e che le tv di Stato hanno mostrato per la prima volta le proteste pur censurando slogan e cartelli contro Mubarak. Perché tutto questo? Per l’influenza della Tunisia, certo, ma da almeno tre anni ogni giorno c’è uno sciopero o corteo di cui non si parla. Il disagio è altissimo» . Dopo l’esplodere della rivoluzione tunisina a metà dicembre, molti analisti internazionali si sono chiesti quali sarebbero stati i suoi effetti sul più grande Paese del Medio Oriente. Il crescente scontento tra gli egiziani è infatti evidente, qualcuno aveva perfino seguito il «martire» tunisino Mohammad Bouazizi dandosi fuoco, ma la capacità di resistenza del regime è altrettanto chiara. E ancora ieri sera da Washington, il segretario di Stato Hillary Clinton ha affermato che «il governo egiziano nonostante tutto resta stabile» . A differenza del deposto Ben Ali, Mubarak ha un potente esercito su cui contare e un Paese non altrettanto scolarizzato e moderno quanto la Tunisia: degli 80 e più milioni di egiziani quasi la metà è sotto la soglia di povertà, oltre un terzo analfabeta. E l’Egitto sembra (sembrava) condannato alla rassegnazione: alle ultime elezioni super-truccate di novembre gli oppositori si sono limitati in sostanza a disertarle; dopo la strage di Capodanno ad Alessandria la sollevazione dei cristiani si è affievolita in pochi giorni. Difficile quindi prevedere cosa succederà: ieri notte i manifestanti sono stati dispersi duramente al Cairo, allontanati con il coprifuoco ad Alessandria. Si sono riconvocati per oggi, in attesa che «il governo dia risposte alle loro domande» . Ma per il momento l’unica risposta è una nota del ministero degli Interni in cui si accusano i Fratelli Musulmani di aver fomentato la rivolta.

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