Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Tunisia, c'è il rischio che siano partiti islamisti a prendere il potere Cronache e commenti di Dimitri Buffa, Paola Peduzzi, Fausto Biloslavo
Testata:L'Opinione - Il Foglio - Il Giornale Autore: Dimitri Buffa - Paola Peduzzi - Fausto Biloslavo Titolo: «Chi è Moncef Marzouki - Contagio e antidoti - Tunisi, governo nuovo: tutti temono gli islamisti»
Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 18/01/2011, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Chi è Moncef Marzouki ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo " Contagio e antidoti ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " Tunisi, governo nuovo: tutti temono gli islamisti ". Ecco gli articoli:
L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Chi è Moncef Marzouki "
Moncef Marzouki
Uno dei leader storici dell'opposizione tunisina, Moncef Marzouki, ha annunciato la propria candidatura alle presidenziali in Tunisia. “Sarò un candidato alle elezioni presidenziali”, ha infatti dichiarato nel corso di un'intervista alla radio francese France Info. Marzouki è il leader del Congresso per la Repubblica, Cpr, partito della sinistra laica vietato o comunque mal tollerato da Ben Ali. Tra i candidati su piazza Moncef è quello le cui idee sono più vicine a una visione lib-lab della democrazia. Ed è un nemico poltico acerrimo dei parititi islamisti. Paventando l’avvento dei quali per decenni i paesi europei e l’America hanno chiuso non un occhio ma tutte e due su quello che sia Ben Alì, ma anche in parte Bourghiba, avevano combinato in Tunisia. Marzouki, dal 1980 è membro della Lega tunisina per i diritti dell’uomo. La sua idea di democrazia è legata al concetto di diritto e non alle semplici “libere elezioni”, che poi tanto libere non sono, spesso anche nei paesi occidentali (qualcuno sostiene che data la legge elettorale e il non rispetto delle formalità dello stato di diritto e della Costituzione neanche in Italia lo sarebbero più tanto, ndr), ma certamente in tutte le ex ditatture, a partire da quelle dei paesi arabi del Maghreb che presero quasi tutte piede tra gli anni ’50 e gli anni ’60. Quello che viene chiamato “il colonialismo dei rais”. Allora se il ministro degli Esteri italiano, in nome di una malintesa ragion stato e di petrolio, indica a modello di leader arabo moderno e democratico nientemeno che Muhammar Al Khatafi, cioè Gheddafi, Moncef Marzouki ha un’altra idea in proposito e non a caso risulta da anni iscritto al partito radicale transanazionale e buon amico di Marco Pannella. E Marzouki, medico internista laureato a Strasburgo, neurologo e pensatore, non esita a dare le colpe a chi le merita: agli arabi per avere sopportato e supportato regimi come quello di Ben Alì, agli europei e agli americani per averli a loro volta sostenuti e favoriti “per pigrizia mentale paura”. Lui invece nel 1990 di coraggio ne ebbe molto a schierarsi contro Saddam Hussein e la sua invasione del Kuwait, unico o quasi tra i politici arabi della Tunisia, cosa che gli costò le dure rappresaglie da parte del regime. D’altronde è stato tre volte imprigionato negli anni ’90 e poi praticamente invitato a lasciare il paese. Giusto il 30 gennaio del 2010, esule a Parigi, Marzouki scriveva sul proprio sito moncefmarzouki.com un articolo intitolato profeticamente: “Ci resta forse qualcosa di meglio che la rivoluzione?” E infatti benchè gli indicatori economici ancora dicevano che la Tunisia fosse uno dei paesi in via di sviluppo dal più alto tasso di crescita, chi viveva in loco sapeva come nell’entroterra ex minerario (Ghafsa, Sfax ecc.) la disoccupazione fosse diventata ormai insostenibile. Inoltre gli investimenti a Tninsi di Abu Dhabi, i progetti faraonici di sviluppo della città della cultura voluti nel 2009 da Ben Alì in vista dell’ennesima riconferma, avevano forse avuto il merito di dar qualche posto di lavoro in più nelle città, ma avevano fatto impennare I prezzi degli alimentarie lasciato il sud desertico ancora a becco asciutto. Nella “Tunus al amiqa”, cioè la profonda Tunisia, ancora si mangia “hubz al mella”, cioè pane cotto sotto la sabbia, che fa tanto trendy per i turisti in visita con I Suv a noleggio, ma che rischia di essere l’unico pasto per tante famiglie che vivono in piccole case abusive con cortili in cui d’estate uomini, capre e cammelli dormono tutti insieme. Certo la Tunisia del Sud è anche un buen retiro per i pensionati italiani e francesi che con mille euro al mese vivono come re, ma tutto ciò non poteva di certo continuare all’infinito per quel patto tacito tra Ben Alì e gli europei per cui “voi mi lasciate al potere e io vi lascio il paradiso a due passi da casa e a quattro soldi”. Anche perchè Ben Alì, da quel che emerge adesso ma che molti sapevano da anni, era diventato il grande monopolista economico della Tunisia, oltre a essere stato l’unico politico per 23 anni. La gente che studiava e pensava con il proprio cervello cominciava a non poterne più dell’idiozia di una stampa quotidiana che apriva come “La presse” le prime pagine con le notizie sull’inaugurazione di scuole e orfanotrofi da parte sua o della moglie, promossa sul campo a rappresentante dell’emancipazione femminile in Tunisia, e da tutti soprannominata ferocemente “la sciampista”. O di quelle foto di 20 anni fa di Ben Alì in alto a destra o a sinistra di ogni prima pagina di ogni giornale. Marzouki, che come tutti gli oppositori al regime è cresciuto in un clima da paese non allineato e amico dell’Urss come è stata la Tunisia di Bourghiba, non solo conosce bene i limiti del regime ma sa anche quali sono i difetti nazionali che hanno impedito al popolo tunisino, almeno sinora, di diventare cittadinanza con diritti e doveri.
Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " Contagio e antidoti "
Ban Ki-Moon
Roma. “Fill the vacuum”, riempite il vuoto, trovate un antidoto al contagio, e fatelo subito, prima che qualcun altro se ne approfitti. Il segretario di stato americano, Hillary Clinton, l’ha ripetuto ai leader arabi riuniti a Doha, ricordando che un regime collassato è preda ambita di estremisti islamici o di signorotti locali potenti e autoritari. Il Wall Street Journal scrive che, nella regione nordafricana e mediorientale, Stati Uniti ed Europa hanno spesso sostenuto i dittatori come unica alternativa al dilagare dell’islam, “per un periodo, l’ex presidente George W. Bush ha offerto una terza via con la sua ‘freedom agenda’, che poi però è stata ridimensionata dal dipartimento di stato, dalla vittoria di Hamas (nei Territori palestinesi) e dalle batoste in Iraq. L’esortazione di Hillary Clinton dimostra che anche lei forse comprende la strategia di Bush, e la situazione in Tunisia l’avvalora. Qui e in altre parti del mondo arabo – conclude il Wall Street Journal – l’occidente deve sostenere alternative alle dittature dinastiche e all’islamismo”. La Tunisia sta cercando una via d’uscita dalla “benalizzazione” del paese, come la chiamano gli esperti, ma la necessità di un’alternativa riguarda tutta la regione, perché il contagio potrebbe essere rapidissimo: in Egitto ieri un uomo si è dato fuoco davanti al Parlamento e le autorità del Cairo sono corse a dire che la situazione è sotto controllo, non c’è timore di contagio, sottolineando così che la paura c’è, eccome. Poche ore dopo, in Mauritania, un ragazzo ha protestato contro il carovita dandosi fuoco davanti al Senato. In Yemen domenica c’è stata una manifestazione che incitava a ribellarsi contro i governanti – “Libertà per la Tunisia, Sana’a vi saluta mille volte”. In Giordania un sit-in davanti al Parlamento è stato monopolizzato dal leader dei Fratelli musulmani locali: “In Giordania soffriamo proprio come i tunisini”. In Algeria la rivolta del pane non è finita, si moltiplicano sui blog i racconti di appuntamenti e incontri per riorganizzare la piazza. Marocco e Libia osservano preoccupati, mentre le opposizioni sparse per il Maghreb si confederano sotto l’egida – chissà poi quanto protettiva ed efficace – di Mohammed ElBaradei, l’ex capo dell’Agenzia atomica dell’Onu che vuole sfidare la dinastia Mubarak alle presidenziali egiziane di quest’anno. I gruppi islamisti della regione hanno già pronta la loro alternativa. Il leader dell’Hezbollah libanese, Hassan Nasrallah, ha festeggiato la rivolta tunisina come la vittoria della volontà del popolo “sui regimi stranieri” per poi incitare i leader sciiti ad approfittare del vuoto per allungare i confini del sogno sciita nel Maghreb a prevalenza sunnita. Il leader di al Qaida nel Maghreb, Musab Abdul Wadud, ha dato il suo sostegno alla rivolta, chiedendo ai tunisini di spedire i loro figli nei suoi campi di addestramento “per imparare a usare le armi e dotarsi di un’esperienza militare”. Rachid Ghannouchi, leader del più grande partito islamista tunisino, sarebbe già rientrato dall’esilio in Gran Bretagna. Se gli islamisti non perdono tempo, la comunità internazionale si muove adagio, quando si muove. La Francia, paese che in questa regione ha più di un interesse (e più di una responsabilità sullo stato attuale delle cose), ha inizialmente sostenuto la dittatura di Ben Ali contro la piazza, tanto che il ministro degli Esteri, Michèle Alliot- Marie, aveva addirittura proposto di inviare le forze speciali antisommossa per fronteggiare la rivolta. Quando le sorti del regime sono cambiate, Parigi ha scelto il silenzio e la cautela, fino a quando Nicolas Sarkozy ha invertito la rotta congelando i conti all’estero legati alla famiglia di Ben Ali e rifiutando l’asilo al dittatore in fuga. Henri Guaino, consigliere del presidente, ha dichiarato: “Non tocca alla Francia fare il gendarme del Mediterraneo”. Molti si sono fatti trascinare dall’idealismo della rivoluzione del popolo, altri continuano a preferire il cinismo del sostegno allo status quo di scuola realista, ma così il rischio che siano l’islamismo o le dittature dinastiche a imporsi è alto. E non basta neppure dire, come fa il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che “è necessario ascoltare i bisogni delle persone”, perché questa è proprio l’attività che i gruppi fondamentalisti sanno fare bene, come dimostrano Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano.
Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Tunisi, governo nuovo: tutti temono gli islamisti"
Mohammed Ghannouchi, primo ministro del governo provvisorio
La Tunisia ha un nuovo governo, ma i ministeri che contano sono in mano alla vecchia guardia del presidente Ben Alì, costretto alla fuga. Lo stesso primo ministro, Mohammed Ghannouchi, e il capo dello Stato provvisorio, il presidente del Parlamento Fouad Mebazaa, sono uomini del vecchio regime.
Nell'esecutivo entrano tre membri dell'opposizione, ma la gente continua a manifestare urlando slogan come «la rivoluzione continua. Via l'Rcd (il partito di Ben Alì nda)» a Tunisi e altre città. Non solo: dall'estero gli oppositori in esilio parlano di «governo farsa».
Ieri il premier Ghannouchi ha annunciato il nuovo esecutivo confermando nei dicasteri chiave come l'Interno, la Difesa e gli Esteri i ministri in carica. Ben Alì, prima di lasciare il Paese, aveva silurato il ministro dell'Interno sostituendolo con l'accademico e più moderato Ahmed Friaa. La gente in piazza, però, non dimentica che la polizia ha sparato ad alzo zero sui manifestanti, provocando 78 morti. I volti nuovi sono Najib Chebbi, nominato ministro dello Sviluppo regionale, Ahmed Ibrahim, responsabile dell'Istruzione e Mustafa Ben Jaafar, a capo della Sanità. Chebbi è il fondatore del partito Progressista democratico di opposizione. Ibrahim guida il movimento del Rinnovamento e Ben Jaafar l'Unione della libertà e del lavoro. Il premier ha annunciato la formazione di una commissione d'inchiesta sulla sanguinosa repressione presieduta da Taoufiq Bouderban, ex presidente della Lega dei diritti umani. La procura indagherà sulla corruzione e le elezioni si terranno fra sei mesi, non più in due come si ipotizzava.
Il problema è che l'opposizione, cooptata nel nuovo governo, esisteva pure prima, ma era addomesticata da Ben Alì. Non a caso dal suo esilio a Parigi, il rivale storico dell'ex presidente, Moncef Marzouki, leader della sinistra laica, ha bollato il nuovo esecutivo come «una farsa: le forze reali del Paese sono state escluse». Marzouki ha intenzione di tornare in patria e presentarsi alle elezioni presidenziali con il Congresso repubblicano. Dall'esecutivo sarebbe rimasto escluso anche il partito comunista. Il suo leader, Hamam Hammami era stato arrestato nei giorni scorsi e poi liberato con la fuga del presidente.
La vera incognita è quella degli islamisti, che il nuovo governo vuole continuare a bandire. Se le elezioni saranno veramente libere sarà praticamente impossibile proibire il ritorno di partiti come Ennahdha (Rinascita), vicino ai Fratelli musulmani. Il leader in esilio a Londra, Rached Ghannouci, scalpita per tornare in patria. Discepolo del sudanese Hassan al Tourabi, pensa che la sovranità in un Paese musulmano sia di Allah.
Il pericolo principale, però, è rappresentato dal serbatoio di rabbia e disoccupazione giovanile nel quale possono pescare movimenti ben più estremisti approfittando della situazione armi in pugno. L'11 gennaio il leader di Al Qaida nel Maghreb islamico, Abu Musaab Abdul Wadud, incitava il popolo tunisino a rovesciare il «faraone» Ben Alì, messo al potere dai «crociati». Con un appello sui siti filoterroristi Wadud ha definito le proteste «un urlo contro il boia» che «ha rotto il muro di silenzio che dominava la Tunisia da secoli». Alla fine ha invitato i tunisini ad arruolare i loro figli in Al Qaida «per la battaglia finale contro gli ebrei, i crociati e le loro spie». A vigilare, con l'aiuto degli americani, contro lo spettro dei fondamentalisti, ci penserà il generale Rachid Ammar, capo di stato maggiore delle forze armate. Ben Alì lo aveva silurato, perchè non ha dato l'ordine ai soldati di sparare sulla folla. L'ambasciata americana lo ha appoggiato nel mezzo colpo di palazzo, che ha mandato in esilio Ben Alì. La gente lo considera un eroe. Lui non si fa vedere, ma opera dietro le quinte per diminuire il peso della polizia a favore dell'esercito. E su Facebook è nata, non per caso, una pagina intitolata al «generale Rachid Ammar presidente», con un vasto seguito di fan.
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