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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Giornale Rassegna Stampa
16.01.2011 Eurabia che avanza: anche la Germania si adegua
Le cronache di Alessandro Alviani, Francesco De Remigis

Testata:La Stampa-Il Giornale
Autore: Alessandro Alviani-Francesco De Remigis
Titolo: «Ramadan, niente gita scolastica-L'Ikea mette il velo alle impiegate musulmane, è per rispetto all'islam»

Se l'islam fosse una religione come le altre, saremmo i primi a sottoscriverne le richieste. Luoghi di preghiera, innanzi tutto, ma anche rispetto per le festività e tutto quanto  fa parte dell'osservanza religiosa.
Ma l'islam non è una religione come le altre, non siamo noi ad affermarlo ma loro. E non solo i cosidetti 'estremisti', ce ne sono anche in altre religioni, ma anche i 'moderati', che dovrebbero rivelarne il carattere 'pacifico' sono ben altro.
La prova ?
Basta guardare come il terrorismo ha potuto svilupparsi in Europa, avendo come basi proprio le moschee. Ma non dovevano essere luoghi di preghiera ? Questo lo dicono coloro che non hanno ancora capito nulla dell'islam o sono in malafede. L'islam è una religione-stato, che si propone l' obiettivo di convertire il mondo. Se gli infedeli, cioè tutti i non musulmani, non si convertono spontaneamente, allora devono/dovranno essere obbligati. Potrà non piacere, ma questa è la realtà. L'Europa sta per essere invasa da una popolazione che non prevede l'integrazione, ma impone ai paesi ospiti che adeguino le loro società alle leggi musulmane. E' quello che sta avvenendo.
E' Eurabia che avanza, come documenta il coraggioso lavoro di informazione di Ugo Volli su IC, al quale aggiungiamo oggi, 16/01/2011, due articoli, dalla STAMPA e da GIORNALE, che confermano, se mai ve ne fosse bisogno, il futuro che ci attende.

La Stampa-Alessandro Alviani: " Ramadan, niente gita scolastica"


a destra, la copertina del libro di Theo Sarrazin sull'avanzata dell'islam in Germania (best seller in Germania, ma non tradotto in Italia)

Niente gite scolastiche durante il Ramadan, lezioni di sport divise per sessi e, per le ore di educazione sessuale, meglio separare gli studenti: di qua i ragazzi, di là le ragazze. Sono alcuni dei consigli che il ministero dell' Istruzione della Renania-Palatinato, il piccolo Land nell’Ovest della Germania guidato dall’ex leader socialdemocratico Kurt Beck, sta distribuendo in questi giorni agli insegnanti. Obiettivo: andare incontro agli studenti musulmani e aiutare i docenti a superare le situazioni conflittuali.

I suggerimenti, spesso, non fanno che ricalcare quelli già proposti in altri Länder, a partire dalla città-Stato di Berlino: «Quando possibile, le lezioni di nuoto e sport dovrebbero essere tenute separando i sessi» e «nessun insegnante, custode o controllore di sesso maschile dovrebbe entrare mentre le ragazze fanno sport».

Eppure, in un clima surriscaldato dalle tesi dell’ex banchiere della Bundesbank Thilo Sarrazin, che in un libro ha accusato gli immigrati di non volersi integrare e di abbassare il livello medio di intelligenza dei tedeschi, il dépliant ha finito per provocare polemiche. «Questo non è un documento per l’integrazione, ma per la segregazione», ha protestato sul settimanale Focus il presidente dell'Associazione tedesca dei filologi, Heinz-Peter Meidinger. E il suo collega della Renania-Palatinato, Malte Blümke, ha parlato di un progetto «anti-emancipazione».

Parole che a Magonza, placido capoluogo della RenaniaPalatinato, non capiscono. «Io non ci vedo nulla di riprovevole», nota un portavoce del ministero regionale dell’Istruzione. Dopo tutto, ricorda, il dépliant è frutto di un gruppo di lavoro in cui sedevano anche rappresentanti delle Chiese cattolica e protestante: «Noi le gite non le organizziamo neanche nel periodo di Natale».

«Quando si pianificano le manifestazioni scolastiche bisogna prestare attenzione a che possibilmente le gite non cadano durante il mese del digiuno o altre festività religiose», si legge nel dépliant. E ancora: «Digiunare tutto il giorno può portare a una limitazione delle capacità di concentrazione», per cui vanno ricercate «soluzioni flessibili» per evitare troppi compiti in classe. Quanto all’educazione sessuale, in caso di contrasti potrebbe essere utile «organizzare le lezioni in gruppi omogenei dal punto di vista sessuale». Stesso discorso per sport e nuoto: meglio separare per sessi.

Nulla di nuovo: già nel 1993 la Corte amministrativa federale aveva stabilito che una ragazza musulmana può essere esonerata dalle lezioni di sport se queste non sono divise per sessi. A Magonza, però, vanno oltre. Se proprio una studentessa di fede islamica non vuole scendere in piscina col costume da bagno e il dialogo coi suoi genitori fallisce, c'è sempre una soluzione: «costumi da bagno o tute prodotte apposta per le ragazze musulmane, come il burkini».

Il Giornale-Francesco De Remigis: " L'Ikea mette il velo alle impiegate musulmane, è per rispetto all'islam "


 islam,religione pacifica

«Cassiere, magazziniere, aiuto cuoche e addette alle ven­dite. Per le impiegate musulma­ne dell'Ikea Edmonton Glover Drive c'è ampio spazio per esprimere la loro appartenen­za religiosa. Una piccola gab­bia formata da due pezzi che incornicia il volto e le eti­chetta immediatamente come «muslim staff». Qua­lunque sia la posizione pro­fessionale nel punto vendita.
Accade a pochi chilometri a nord di Londra, dove per le ope­ratrici musulmane che ne fan­no richiesta la catena svedese mette a disposizione un capo di abbigliamento particolare. Un hijab confortevole in perfetto stile Ikea, con finiture giallo oro ed il caratteristico blue navy del­la divisa aziendale.
L'idea è nata nel 2005, dopo l'inaugurazione del nuovo pun­to vendita in un'area popolata da cittadini britannici di fede islamica. È lì che è stata lanciata questa nuova politica azienda­le: per far sentire a proprio agio la clientela musulmana, s'inse­risce un elemento considerato da molte donne il simbolo della sottomissione. Cioè il velo semi integrale. Che per altre è invece un semplice modo di interpre­tare l'appartenenza alla comu­nità.
Per attirare l'attenzione dei musulmani, la filiale inglese si è rivolta ad una società già nota nell'ambito dei copricapi isla­mici. The Hijab Shop, cartello sul mercato dal 2004, che attra­verso l'e­commerce riceve ordi­ni da diversi paesi del mondo. Per Ikea ha realizzato un parti­colare modello. Due pezzi com­ponibili, con il logo cucito sul re­tro.
Come coniugare confort ed equilibrio spirituale, senza urta­re la suscettibilità dei giuristi dell'islam. In Gran Bretagna, in­fatti, gli Shaykh hanno preso in analisi anche questa iniziativa. «Il colore non è un problema per l'hijab, e finché il logo non viene apposto su di esso in mo­do troppo vistoso, i musulmani non hanno nulla da ridire su questa iniziativa», ha chiarito Ibrahim Mogra, già membro del Consiglio musulmano. «Non ci risultano precedenti ­ha spiegato tempo fa alla Bbc uno dei portavoce di Ikea a Lon­dra - e non abbiamo notizia di nessun'altra azienda che finora abbia abbracciato iniziative di questo genere».
La politica di Ikea non è infat­ti eccessivamente omologato­ria. Ogni filiale si regola secon­do convenienza e gestisce i suoi rapporti con i dipendenti i ma­niera del tutto autonoma. Il sito a cui Edmonton si è affidata è uno dei leader mondiali nella vendita di veli islamici. Thehija­bshop. com sostiene di ricevere ordini da tutto il mondo, dal su­damerica al nordamerica, dalla Bosnia all'Australia al Giappo­ne, destinando il 10 per cento degli utili a organizzazioni isla­miche di beneficenza. Perciò
più che aprire una polemica, che avrebbe potuto scatenare le reazioni della comunità isla­mica, in Gran Bretagna si è scel­to di non dare importanza a quella che sembra essere rima­sta una politica isolata. Solo la comunità islamica rilancia di tanto in tanto l'iniziativa di Ed­monton, su blog e siti specializ­zati: «Noi lodiamo Ikea per aver colmato le esigenze religiose dei suoi dipendenti», ha com­men­tato uno dei membri Consi­glio culturale musulmano della Gran Bretagna. «Ci sarebbe bi­sogno di questi copricapi in ogni punto vendita d'Europa», scrive un altro blogger. Ma so­no tantissime anche le donne che invece immettono on line il proprio disappunto: «Mi piace l'arredamento Ikea, sono mu­sulmana, ma vado nel punto vendita soltanto per comprare la merce, non per l'abbiglia­mento delle commesse». Se è vero che l'hijab si sta afferman­do anche come accessorio di lusso, anche nel mondo anglo­sassone, resta da capire se sia­mo di fronte ad una operazione di marketing o ad una deriva co­munitarista. C'è infatti chi parla di corporate hijab, per via del lo­go Ikea sistemato poco sopra le spalle. Mentre la scrittrice ame­ricana Asra Nomani, per defini­re un'analoga iniziativa presa dal Tony Tysons Corner Center Mall, in Virginia, ha utilizzato il termine hijab chic.

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