Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ahmadinejad continua indisturbato i suoi crimini L'Occidente non registra i segnali di dissenso provenienti dall'Iran
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Il Manifesto Autore: La redazione del Foglio - Guido Olimpio - Cecilia Zecchinelli - Marina Forti Titolo: «Armi e droga: la pista che porta ai mullah iraniani - Gli ayatollah impiccano un uomo perché 'spiava per Israele'»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 29/12/2010, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo "Assalto ad Ahmadinejad, la nomenclatura iraniana assedia il suo presidente". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Armi e droga: la pista che porta ai mullah iraniani ", l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Gli ayatollah impiccano un uomo perché 'spiava per Israele' ". Dal MANIFESTO, a pag. 8, l'intervista di Marina Forti a Mohammad Mostafei, avvocato di Sakineh, dal titolo " Sakineh? Ne fanno un caso esemplare ", preceduta dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Assalto ad Ahmadinejad, la nomenclatura iraniana assedia il suo presidente "
Mahmoud Ahmadinejad
Dubai. Tra i conservatori iraniani si consuma una guerra per bande. Negli ultimi mesi si sono accumulati i segnali di un assalto al presidente Mahmoud Ahmadinejad e alla sua base di potere, ormai ridotta a una pattuglia di fedelissimi legati ai Guardiani della rivoluzione. Secondo alcuni analisti l’Iran si starebbe trasformando in uno “stato pretoriano”, ma i pasdaran non sono soltanto un corpo di guardiani armati pronti a sguainare la daga in difesa del presidente: custodiscono anche le chiavi di un formidabile impero economico. In più Ahmadinejad, nonostante il moltiplicarsi dei nemici anche fra i conservatori e i duri, ha ancora l’appoggio della Guida suprema, Ali Khamenei, che per ora sembra appoggiarlo nello scontro con spezzoni sempre più grandi dell’establishment iraniano. Poche settimane fa c’è stato persino un tentativo di impeachment in Parlamento, poi disinnescato proprio dall’intervento di Khamenei. L’episodio più clamoroso di questa lotta di potere è stata la destituzione a sorpresa del ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki, che è stato licenziato durante un viaggio ufficiale in Senegal. Secondo una fonte citata dal quotidiano arabo Asharq al Awsat, Mottaki è stato informato del suo siluramento proprio dai suoi interlocutori senegalesi che gli avrebbero detto: “Noi la rispettiamo e la apprezziamo, ma lei non rappresenta più l’Iran”. Mottaki domenica è stato elogiato in un documento sottoscritto pubblicamente da 260 deputati iraniani su 290 – non era mai successo – e ha definito la sua destituzione senza preavviso come “non islamica, non diplomatica e offensiva”. L’ex ministro degli Esteri è legato a uno dei grandi nemici del presidente, lo speaker del Parlamento Ali Larijani, un conservatore ostile ad Ahmadinejad. E proprio il fratello di Ali Larijani, l’ayatollah Sadeq, che guida la magistratura iraniana, è il capo dei giudici di Teheran che hanno appena rivolto una grave accusa di corruzione a Mohammad Reza Rahimi, che è il primo e il più potente dei dodici vicepresidenti iraniani, nonché uno dei fedelissimi di Ahmadinejad. Questa accusa rovinosa per l’immagine del presidente cade in un momento in cui anche il quotidiano di regime Kayhan manifesta critiche al governo e la popolazione protesta per un vigorosissimo taglio al sistema di sovvenzioni statali, deciso anche in conseguenza delle sanzioni economiche. Il primo effetto è una crescita annichilente dei prezzi di alcuni beni primari, come l’elettricità, il pane e la benzina, che è aumentata in pochi giorni del 400 per cento. Alcuni autorevoli protagonisti della politica, anche tra i più conservatori, hanno criticato le decisioni del governo e gli avversari “interni” di Ahmadinejad sono sempre più numerosi. Incurante dell’aumentare del trambusto in seno all’establishment e con un occhio alle elezioni parlamentari della primavera 2012 (il più importante appuntamento elettorale dopo le presidenziali dell’anno scorso che avevano scatenato mesi di disordini), il presidente continua a cacciare dal loro posto personaggi di spicco della nomenclatura iraniana. Così come l’ex ministro degli Esteri Mottaki, anche il capo dell’Organizzazione giovanile nazionale, Mehrdad Bazprash, pur essendo ideologicamente ortodosso fino all’inappuntabilità, è stato allontanato d’imperio (e d’improvviso). Il motivo sembra essere una frizione di Bazprash con uno dei più influenti consiglieri di Ahmadinejad, il capo dello staff presidenziale Esfandiar Rahim Mashaei. Indicato da molti come uno degli ispiratori della muscolare attività di sfoltimento dei papaveri che possono indebolire l’influenza del cerchio ristretto che guida il paese, Rahim Mashaei è anche il consuocero del presidente. Da ultimo pare che sia stato silurato anche il ministro dell’Intelligence Heydar Moslehi, diventato insofferente per i continui interventi presidenziali nella sfera di azione cui è preposto il suo dicastero. Il posto, coerentemente con la linea di arroccamento seguita fin qui, sarebbe stato offerto a Hossein Taib, attuale capo del servizio di intelligence dei pasdaran.
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Gli ayatollah impiccano un uomo perché 'spiava per Israele' "
Ali Akhbar Siadat
E’ una strana tradizione, in Iran, accelerare l’esecuzione delle condanne a morte nelle feste di fine anno. Forse, come sostengono alcuni oppositori, perché in questo periodo l’Occidente è distratto. Ma se i sette impiccati del giorno di Natale sono passati in effetti inosservati, ha fatto invece rumore la doppia esecuzione annunciata ieri da Teheran. Ali Akhbar Siadat, ucciso perché «spia confessa del regime sionista» , leggi Israele. Ali Saremi, perché membro dei Mujahedin del Popolo, la più nota e controversa organizzazione antiregime, guidata dall’altrettanto discussa Maryam Rajavi in esilio dal 1982. Entrambi sono stati impiccati a Evin, il tristemente noto carcere della capitale dove ha avuto luogo la maggior parte delle 169 esecuzioni «ufficiali» del 2010. E dove restano sepolti vivi moltissimi intellettuali, giornalisti e studenti, protagonisti o anche solo sostenitori del Movimento Verde ormai messo a tacere. Tra i tanti: Jafar Panahi, il regista da poco condannato a sei anni. Siadat, ha annunciato ieri l’agenzia ufficiale Irna, ha confessato di aver spiato per Israele dal 2004. In cambio ha ricevuto 60 mila dollari e altri 7 mila a ogni incontro con gli agenti israeliani, durante «viaggi di lavoro» in Turchia, Thailandia e Olanda fino al 2008, quando fu arrestato mentre tentava di lasciare il Paese. L’accusa («ammessa dall’imputato» ) è di aver passato informazioni al Mossad su aerei da combattimento e basi aeree militari in Iran, sui voli di addestramento e i sistemi di navigazione in dotazione dei Pasdaran, le forze armate create da Khomeini, parallele e poi diventate enormemente più potenti di quelle regolari. Non è dato sapere se Siadat avesse accesso reale a tale informazioni e in passato casi di spionaggio sono davvero successi in Iran. Ma l’intero iter processuale, come sempre, è per lo meno opaco. Le «confessioni » estorte sono la norma. L’ossessione del presidente Ahmadinejad per il «Piccolo Satana» è nota. L’accusa di spiare per i «sionisti» spesso usata per mandare a morte gli oppositori). E i dubbi sull’intera vicenda sono quindi più che leciti, anche perché Israele (ovviamente) tace. Ha invece confermato l’appartenenza (o almeno la vicinanza) di Ali Saremi al suo gruppo Maryam Rajavi. La «presidente eletta» dei Mujahedin del Popolo, per anni ospiti di Saddam in Iraq e suoi alleati nella guerra contro l’Iran, accusati di terrorismo con alterne vicende dalle democrazie occidentali, ritenuti da molti gruppi umanitari internazionali una setta di islamici marxisti fanatici, ha condannato l’ «atto ignobile» e presentato le sue condoglianze alla famiglia. Saremi, 63 anni, «ha passato un totale di 24 anni nelle prigioni iraniane, è stato sottoposto alle torture e alle pressioni più brutali, sua figlia è stata arrestata fuori dal carcere di Evin mentre stata protestando» , ha aggiunto Rajavi, secondo la quale Saremi è un «eroe» e non certo un «monafiq» , un ipocrita, come Teheran definisce ogni membro del gruppo della superattiva presidente, arrivata nel 2009 a farlo riconoscere come movimento di resistenza non violenta dall’Unione Europea. La notizia delle doppia esecuzione ha così ridotto almeno in parte l’effetto «buonista» che Teheran sperava di ottenere con la concessione di una visita natalizia delle famiglie ai due giornalisti tedeschi arrestati in ottobre a Tabriz mentre intervistavano il figlio di Sakineh Mohammadi Ashtiani, dopo essere entrati in Iran con solo visto turistico. Ripreso dalla tv di Stato, l’incontro si è svolto in un hotel ed è durato 12 ore. Poi le famiglie sono tornate in Germania, i due giornalisti in cella.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Armi e droga: la pista che porta ai mullah iraniani "
WASHINGTON— A Teheran osservano con interesse e preoccupazione quanto sta avvenendo in questi giorni nei Paesi dell’Africa Occidentale. L’interesse è legato alle iniziative lanciate dai mullah nella regione: forniture d’armi a gruppi ribelli, sostegno a fazioni radicali nigeriane (a cominciare dai sanguinari del Boko Haram), campi d’addestramento per militanti. La preoccupazione è invece causata dai guai diplomatici sorti proprio per l’aggressività mostrata dagli ayatollah. Il Gambia e poi il Senegal hanno tagliato i rapporti con l’Iran mentre la Nigeria ha denunciato all’Onu le attività clandestine dei khomeinisti. Una frattura determinata da un doppio «scandalo» . Il primo riguarda la scoperta di un colossale traffico d’armi organizzato dall’Armata Qods, l’apparato clandestino dei pasdaran. Tonnellate di materiale chiuse in 13 container e scoperte nel porto di Lagos. Come abbiamo rivelato alcune settimane fa fucili, esplosivi e munizioni rappresentavano un «regalo» per diverse organizzazioni guerrigliere: dal Mend, che opera nel delta, ai separatisti senegalesi della Casamance, senza dimenticare i «talebani» nigeriani. Una partita consistente doveva finire in Gambia, Paese che negli ultimi anni si è prestato a fare da sponda al «Piano Africa» di Teheran. Tanto è vero che i pasdaran, con complicità di altissimo livello, volevano aprire un centro d’addestramento dove far confluire volontari da impiegare poi in altri scacchieri. Progetto adesso accantonato. Alla storia delle armi — piuttosto imbarazzante — si è aggiunta quella della droga. Sempre l’apparato Qods ha curato l’invio verso Gambia e Nigeria di ingenti quantitativi di eroina afghana e cocaina. Un sistema per far soldi con i quali finanziare le attività degli insorti. Ma quando le autorità hanno intercettato i carichi di stupefacenti, Teheran è stata costretta a fermarsi. Anche perché i due uomini chiave del contrabbando sono stati individuati dalla polizia nigeriana. Akbar Tabatabai — secondo nostre informazioni — dopo essersi rifugiato nell’ambasciata iraniana in Nigeria è potuto tornare in patria. Un «fuga» resa possibile dalla mediazione condotta dal ministro degli Esteri Mottaki: di fatto la sua ultima missione, visto che è stato poi sollevato dall’incarico dal presidente Ahmadinejad. Tabatabai non era una pedina qualsiasi. Per l’intelligence occidentale è il responsabile del settore Africa dell’Armata Qods. Altrettanto rilevante il grado del suo complice, Azim Aghajani, arrestato e tornato libero su cauzione pochi giorni fa. E’ stata questa coppia a mantenere i rapporti con esponenti ribelli, sono stati sempre loro a mettere in piedi la filiera che ha portato armi e droga nella regione. Per Teheran era indispensabile tirarli fuori dalla trappola in cui si sono infilati, ma l’intervento ha inevitabilmente creato frizioni con i governi locali, che pur ben disposti verso i mullah— in particolare il Gambia— non potevano fare a meno di reagire. Tanto più se alcune delle fazioni che hanno ricevuto aiuti dall’Iran si sono macchiate di stragi. Proprio ieri gli estremisti del Boko Haram— sia pure con una nuova denominazione («Popolo devoto agli insegnamenti del Profeta» ) — hanno rivendicato i massacri di Natale. E in Senegal, invece, il comando militare ha rivelato che i ribelli della Casamance hanno impiegato in recenti scontri «nuovi equipaggiamenti» arrivati dall’estero. Un riferimento ai traffici che hanno usato il Gambia come snodo ed hanno visto gli iraniani impegnati in modo diretto. La perdita — forse solo temporanea — degli avamposti ha costretto l’Armata Qods a studiare alternative. I pasdaran devono infatti rimpiazzare i loro agenti di influenza. Molti sono stati scoperti — sembra — grazie alle «confessioni» di Azim Aghajani. Inoltre hanno bisogno di punti di appoggio per far affluire uomini e materiale. Informazioni raccolte in ambienti diplomatici di Washington segnalano che Teheran vuole ampliare il network creato da tempo in Sudan. Fino ad oggi è servito per muovere armi sull’asse Egitto-Sinai-Gaza (in favore di Hamas) ma da domani potrebbe diventare una piattaforma per sostenere l’ambizioso «Piano Africa» .
Il MANIFESTO - Marina Forti : "Sakineh? Ne fanno un caso esemplare "
Mohammed Mostafei
Ogni tanto si accende la lampadina del buonsenso anche al Manifesto. Chissà che Marina Forti non assimili le informazioni sull'orrore del regime di Ahmadinejad e non le dimentichi durante la stesura dei suoi futuri articoli sull'Iran. Ma, viste le due domande poste sulla lapidazione ("Già, il parlamento nazionale iraniano sta discutendo una riforma del codice penale che tra l’altro esclude la lapidazione: è così? " e "Ma questo significa che in Iran c’è un dibattito su questo tema ") è meglio non farsi troppe illusioni. Ecco l'intervista:
Mohammad Mostafaeì è uno degli avvocati che ha difeso Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna condannata alla lapidazione in Iran, il cui caso ha trovato notorietà e sollevato grande indignazione in tutto il mondo (la sentenza è stata poi sospesa e sottoposta a revisione, hanno detto le autorità iraniane). Dopo aver sollevato pubblicamente il caso, Mostafaei ha subìto tali pressioni e minacce che ha dovuto lasciare l’Iran. L’abbiamo incontrato di recente a Roma, dove era invitato da Amnesty International. Ci ha parlato delle carceri iraniane, di quanto sia dura la vita dei detenuti comuni, di pene spesso sproporzionate al reato, di minorenni chiusi tra gli adulti. Ma soprattutto abbiamo parlato di Sakineh, il caso che ha fatto parlare ilmondo. «E’ stato in gran parte opera vostra, dei media iraniani e stranieri, aver diffuso questa storia», ci ha detto. «Forse, senza i media, il caso non veniva fuori e io ero ancora in Iran a fare il mio lavoro...». Ma la lapidazione è una pena frequente in Iran, o il caso di Sakineh Mohammadi ha qualcosa di eccezionale? Uno dei problemi di un regime autoritario è che le statistiche non sono veritiere. Non abbiamo dati precisi sulla lapidazione, né sulla condanna amorte di minorenni. Raccogliamo notizie per vie non ufficiali: in Iran ci sono condanne eseguite in segreto, ad esempio in zone remote del paese. A meno che, spero, passi una legge che esclude questa pena. Già, il parlamento nazionale iraniano sta discutendo una riforma del codice penale che tra l’altro esclude la lapidazione: è così? Per la precisione, il Majlis ha approvato quella legge: ma in Iran una legge diventa tale quando è stata convalidata dal consiglio dei Guardiani, che controlla che sia confacente alla costituzione e ai principi della legge islamica. Ora, questa riforma non può ancora entrare in vigore. Primo perché il Majlis non ha ancora approvato una pena sostitutiva, che potrebbe essere la morte per impiccagione. In secondo luogo, iGuardiani l’hanno dichiarata non confacente alla Sharia, quindi dovrà tornare al parlamento per essere emendata, oppure sarà inoltrata al Consiglio per il discernimento, che può arbitrare contrasti tra il parlamento e lo stato. Insomma, l’iter è ancora lungo. Ma questo significa che in Iran c’è un dibattito su questo tema. Certo, la verità è che molti attivisti e intellettuali cercano di combattere queste violazioni dei diritti della persona.Ma il potere, per ciò che riguarda la giustizia e la legge, è nellemani di chi vede con favore questa pena. Lei parlava del lavoro dei media: sul caso di Sakineh Mohammadi però sono circolate a volte notizie infondate... Io ho sempre cercato di dare solo notizie precise e solo quando documentate e attendibili. Purtroppo c’è chi fa circolare notizie inattendibili, come un certo gruppo chiamato “campagna contro la lapidazione”, e temo che questo faccia grande danno al caso di Sakineh. Cosa prevede per la sorte di Sakineh? C’è stato un momento in cui avevo speranza, pensavo che la pressione internazionale avesse indotto il sistema a rivedere il caso e fare marcia indietro. Ma quando la televisione satellitare, Press Tv, ha mandato in onda quel filmato in cui mostrano Sakineh in casa sua, e le fanno ricostruire l’omicidio – a questo punto sono pessimista: penso che sia una tattica per preparare l’opinione pubblica a una “inevitabile” esecuzione, come quando mettono uno davanti alla telecamera per confessare e autoaccusarsi. Lasciano in ombra l’accusa di adulterio e la presentano come artefice dell’omidicio per giustificare una esecuzione. Notate che la signora Mohammadi sta già scontando una condanna per concorso in omicidio. Sembra un accanimento dei magistrati, o magari è istigato dalla famiglia? Dai giudici. Sono loro che si sono accaniti. In Iranmolti giudici non hanno studiato legge ma teologia, sono membri del clero che vogliono solo dare applicazioni “esemplari” della sharia, che si applica soprattutto all’area delle relazioni tra donna e uomo, la moralità, la famiglia. Il caso di Sakineh è cominciato così. Poi è diventato sempre più un caso politico, ma sono il procuratore generale e il pubblico ministero che insistono sull’applicare la sharia. Penso che le pressioni internazionali siano ancora importanti.
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