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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-IlSole24Ore Rassegna Stampa
23.12.2010 Iran,Iraq, Pakistan: gli aggiornamenti
Articoli di Giulio Meotti, Marco Masciaga, la redazione del Foglio

Testata:Il Foglio-IlSole24Ore
Autore: Giulio Meotti, Marco Masciaga
Titolo: «Palazzo iracheno: Maliki fa il pigliatutto e Moqtada il mellifluo-Il regista Panahi è solo l'ultima vittima del Leni Riefensthal iraniano- I talebani nel cuore del Pakistan»

Iraq, Iran, Pakistan, tre aggiornamenti dal FOGLIO e dal SOLE24ORE di oggi, 23/12/2010.
Ecco i servizi:

Il Foglio- " Palazzo iracheno: Maliki fa il pigliatutto e Moqtada il mellifluo "


Nouri al Maliki

Roma. Al governo di compromesso assemblato dal premir sciita Nouri al Maliki, a nove mesi dalla sua vittoria alle elezioni, mancano i nomi di nove ministri su ventinove. Il premier è riuscito a tenere per sé tre posizioni strategiche ad interim – Difesa, Interni e Sicurezza nazionale –, a cui punta di aggiungerne altre tre. “Speravamo di formare un governo di maggioranza – ha detto Ali Moussavi, consigliere di al Maliki – ma il nuovo esecutivo, invece di rappresentare le ambizioni del primo ministro, riflette le ambizioni di molte entità diverse”. I curdi, alleati degli Stati Uniti, hanno ottenuto sette ministeri, più un’assicurazione scritta da al Maliki sulla linea che il governo terrà sui contenziosi aperti nella loro regione. Se un tempo erano l’elemento di instabilità per antonomasia dell’area turco-iracheno-iraniana, ora si stanno ritagliando un ruolo inedito di mediazione. Dall’invasione americana nel 2003, i curdi lavorano attivamente per la pace in Iraq. Molto nutrita è la partecipazione dei sadristi del partito al Ahrar, guidati dal predicatore sciita Moqtada al Sadr, che voleva un vicepremier ma al momento ha tre ministeri: Edilizia, Lavoro e Turismo. Al Sadr, il più duro oppositore degli Stati Uniti, non si è presentato di persona a Baghdad: è a Qom, in Iran, dove studia teologia islamica e dove ha passato tutta la giornata di lunedì, fino alle prime ore del giorno successivo, al telefono con al Maliki cercando di fare fruttare i buoni risultati ottenuti alle elezioni di marzo, che l’hanno reso partner obbligato per una coalizione di governo. I sadristi non volevano che fosse presentato un esecutivo incompleto, per evitare di trovarsi alla fine dei negoziati con un governo di segno opposto a quello a cui avevano aderito. Ma dopo nove mesi di trattative, al Maliki ha sfruttato l’appoggio della Corte suprema irachena, che ha concesso di fare approvare un esecutivo senza dovere indicare i nomi di tutti i titolari dei ministeri, e ha messo ai voti un governo con dodici posizioni coperte ad interim. Gli uomini di al Sadr non hanno modificato le loro basi ideologiche: vanno fieri del loro populismo e della loro opposizione fanatica agli occidentali, rivendicata con il rifiuto di parlare ai funzionari americani. Al Sadr non può lanciare alcuna fatwa, ma può facilmente influenzare il dibattito politico istigando i suoi seguaci contro il nemico di turno, come ha fatto domenica, vietando di accettare i lavori offerti dalle compagnie petrolifere straniere nel sud dell’Iraq. O come ha fatto all’inizio di dicembre, quando centinaia di sadristi hanno manifestato nei quartieri a nord di Baghdad per rispondere all’appello di Moqtada al Sadr alla “chiusura immediata di tutti i bar e dei nightclub”. Per di più, come dice l’ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq, James F. Jeffrey, “non abbiamo prove incontrovertibili della loro rinuncia, in teoria nella pratica, all’idea che è lecito usare la forza contro i loro avversari”. Nell’ultimo anno, i sadristi hanno tentato di mascherarsi da movimento politicamente rispettabile, con tutta la maturità necessaria a governare l’Iraq. Gli uomini di Moqtada al Sadr stanno seguendo la rotta tracciata da Hamas a Gaza e da Hezbollah in Libano: si accumulano le munizioni per la lotta armata, ma si mette in risalto la propria dedizione alla causa degli oppressi e la propria sensibilità sociale. I sadristi aprono orfanatrofi e in pubblico chiamano curdi e sunniti “fratelli”, e si mostrano attenti anche ai cristiani, a cui hanno prontamente mostrato la loro solidarietà dopo il massacro di siro-cattolici del 31 ottobre scorso a Baghdad. Secondo fonti sadriste riportate dal New York Times, al Sadr ha spedito alcuni neoeletti in Libano e in Turchia, per renderli presentabili grazie a corsi di retorica e di dottrina politica.

Il Foglio-Giulio Meotti: "Il regista Panahi è solo l'ultima vittima del Leni Riefensthal iraniano "


Jafar Panahi

Roma. Javad Shamaqdari ha un incarico “rivoluzionario”: purgare il cinema iraniano da ogni influenza occidentale. L’ultima conseguenza della politica del viceministro della Cultura è la condanna a sei anni di carcere del regista Jafar Panahi, il vincitore del Leone d’Oro a Venezia con “Il cerchio”. II regista aveva raccontato le manifestazioni scatenate dopo la contestata rielezione di Ahmadinejad nel 2009. Panahi non potrà girare altri film in Iran per i prossimi vent’anni. Una condanna feroce persino per il sistema penale iraniano. Tutti i registi iraniani devono passare dall’ufficio di Shamaqdari per ottenere il permesso di girare un film. Spetta a lui decidere quali film sono da bandire. Shamaqdari è anche regista e fra i suoi film si ricorda “The sandstorm”, che narrava epicamente la presa degli ostaggi nell’ambasciata americana. Il suo predecessore al ministero, Mohammadreza Jafari-Jelveh, prediligeva il “cinema nazionale”, mentre Shamaqdari ha una spiccata impronta antioccidentale. Dal 2005 Shamaqdari è il “consulente artistico” di Ahmadinejad. I due si incontrarono quando erano studenti di Ingegneria negli anni Settanta. Durante la guerra Iran-Iraq, Shamaqdari produsse documentari di propaganda sulla vita al fronte. Lo scorso marzo Shamaqdari ha denunciato pubblicamente la Casa del cinema dell’Iran per aver invitato una delegazione hollywoodiana guidata da Sid Ganis, presidente della Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Fra i suoi ultimi “tagli” compare nche l’attrice Juliette Binoche. Shamaqdari ha deciso che non sarà proiettato in Iran l’ultimo film di Abbas Kiarostami “Copia conforme”, in concorso al Festival di Cannes e che ha fruttato alla Binoche il premio come migliore interprete. Fra i motivi che hanno portato a questa decisione c’è “l’abbigliamento” della stessa Binoche, non rispettoso dei canoni islamici, che prevedono il velo per le attrici e vietano di mostrare qualsiasi contatto tra uomo e donna, nemmeno una stretta di mano. Shamaqdari si è fatto promotore della pellicola “La scatola nera dell’11 settembre”, con l’intenzione di sostenere la teoria che gli attentati contro le Torri Gemelle e il Pentagono sono stati organizzati dagli stessi Stati Uniti per risolvere i loro problemi economici e politici. Shamaqdari ha sposato anche il progetto negazionista dell’Olocausto di uno degli attori più popolari in Francia, Dieudonné M’bala, volato a Teheran per incontrare il presidente iraniano. Con Ahmadinejad e con il suo consigliere artistico Shamaqdari, Dieudonné ha parlato dell’uso del “cinema nella liberazione delle nazioni”. Sempre Shamaqdari ha portato sul piccolo schermo il film che rilegge la vita di Gesù dal punto di vista dei musulmani. Non più il figlio di Dio, ma un profeta, interpretato da un attore che prima lavorava per l’Agenzia atomica iraniana. Nel film Gesù scampa alla morte, sale al cielo e al suo posto sulla croce ci finisce, guarda caso, Giuda. L’ebreo traditore.

IlSole24Ore-Marco Masciaga: " I talebani nel cuore del Pakistan "


Talebani in Pakistan

Per abbracciare con un solo sguardo la storia di Multan non c'è posto migliore di Ghanta Ghar Chowk, la piazza verso cui convergono le strade di questa città caotica e polverosa del Pakistan centrale. Sul lato orientale spicca la grazia senza tempo della tomba Shah Rukn-e-Alam, un santo sufi vissuto nel 13esimo secolo. Su quello occidentale l'architettura neogotica di un campanile costruito dai colonizzatori britannici ai primi del '900. Tra le botteghe affacciate sulla piazza i lasciti di un'epoca più recente: tre negozi di armi, uno dei quali con un Kalashnikov vistosamente dipinto sull'insegna.

Ricostruire il percorso che ha trasformato una delle culle dell'Islam mistico in una capitale di quello militante aiuta a capire dove sta andando l'unica potenza atomica islamica del pianeta. Perché Multan non è uno sperduto villaggio di quelle aree tribali al confine con l'Afghanistan ma una città con più di un milione e mezzo di abitanti nel cuore del Punjab, la provincia più ricca, popolosa e politicamente influente del paese, quella da dove proviene gran parte dell'establishment pakistano.

Ma questa non è solo una terra di politici, generali e civil servant. Qui hanno la propria base alcune delle organizzazioni estremiste più pericolose del paese, quei "punjabi taliban" che negli ultimi due anni e mezzo hanno ripetutamente colpito Lahore, la colta ed elegante capitale provinciale. I bersagli sono stati dapprima militari, come le caserme; quindi civili, è stato il caso della nazionale di cricket dello Sri Lanka; e infine religiosi, come quando due pattuglie di uomini armati hanno seminato morte nelle moschee di una piccola setta islamica considerata blasfema, gli ahmadi.

Un crescendo culminato lo scorso luglio, quando un duplice attentato suicida è costato la vita a 42 fedeli riuniti nella Data Darbar di Lahore, il luogo simbolo del sufismo pakistano e di quella concezione tollerante dell'Islam che in questi anni di violenza dilagante rischia di diventare minoritaria. «Se il governo non reagirà in maniera decisa a questo tipo di attacchi c'è il rischio che scoppi una guerra su base settaria», spiega Khuram Iqbal, lo studioso che coordina le ricerche del Pakistan Institute for Peace Studies.

Secondo il segretario generale della Human Rights Commission of Pakistan I.A. Rehman, il vero obiettivo dei militanti è l'alleanza tra Islamabad e Washington. «Hanno iniziato a colpire i civili perché si aspettano che la popolazione metta pressione sul governo affinché cessi di collaborare con gli americani» spiega. Un compito facilitato dal fatto che l'opera di reclutamento di nuovi militanti procede senza intoppi. In parte grazie alle decine di migliaia di madrasse attive sul territorio e in parte, spiega Rehman, «perché gli stipendi della polizia non sono all'altezza di quelli offerti dai militanti. Che tra l'altro garantiscono un posto in paradiso».

Per comprendere il nesso tra scuole coraniche e Islam militante in Punjab è istruttivo incontrare Abdul Mannan, il nazim della Jamia Khair ul Madaris, una delle madrasse più grandi di Multan. «Se uno dei miei studenti venisse a dirmi che vuole abbracciare la Jihad, io lo fermerei», spiega Mannan. «Scagliarsi da solo contro il cane rabbioso americano sarebbe un suicidio. Altra cosa sarebbe combattere con una strategia. Quello sì che sarebbe giusto. Ogni pakistano ha il dovere di fare la guerra agli americani. Ovunque essi si trovino».

Le parole di Mannan seguono un copione già sentito altre volte. C'è l'orgoglio («La vera superpotenza è Allah, non gli Stati Uniti»); il vittimismo («Gli attentati sul suolo pakistano sono opera di agenzie straniere»); e il populismo («Il paese dovrebbe essere governato da chi conosce il prezzo dello zucchero e la fatica di vivere senza luce»). Il tutto condito da una malcelata nostalgia per i dittatori militari del passato, in particolare Muhammad Zia-ul-Haq, il generale che tra 1978 e il 1988 avviò il catastrofico processo di islamizzazione delle Forze armate pakistane. Ma il proselitismo fatto nelle madrasse da solo non spiega la facilità con cui le organizzazioni estremiste reclutano i propri discepoli. «Le regioni centromeridionali della provincia - spiega Iqbal - continuano a essere vulnerabili a causa degli elevati livelli di povertà, disoccupazione e analfabetismo».

Una lettura che non convince Sikandar Hayat Bosan, ex ministro dell'Agricoltura nonché grande proprietario terriero nel distretto di Multan. «Le frustrazioni della gente comune - spiega - sono il frutto delle ingiustizie perpetrate ai danni dei musulmani in Palestina, Kashmir e Afghanistan. Il sistema feudale di cui parlano quelli che hanno sempre vissuto in città non esiste più».

Una tesi che, chiuso il taccuino, ha vita breve. Giusto il tempo di vedere Bosan tornare a una delle sue occupazioni principali: dare udienza, sotto il portico di casa, a quelle decine di questuanti che, tre volte alla settimana, si mettono in fila di buon'ora chiedendo un aiuto. C'è chi ha un figlio malato, ma non trova un ospedale disposto ad accoglierlo; chi non vuole più pagare il baksheesh a un poliziotto corrotto; chi è in lite con un vicino e non ha più fiducia nel sistema giudiziario. Ognuno, a modo suo, tradito da quello stato a cui sempre più abitanti del Punjab sembrano pronti a dichiarare guerra. In nome di dio. Ma anche di quella giustizia che li elude da anni.

 
La regione
Il Punjab è di gran lunga la regione più popolosa del Pakistan, con oltre 80 milioni di abitanti (il 56% della popolazione del paese). Il nome deriva dal persiano e significa «cinque acque» a indicare il fiume Indo e i quattro affluenti che attraversano l'area

L'economia
Il Punjab è anche la principale forza economica del Pakistan, di cui contribuisce a formare il 60% del Pil. I settori trainanti sono l'agricoltura (soprattutto cereali e cotone) e i servizi. Nell'industria spiccano il tessile e l'abbigliamento sportivo.

La politica
Il Punjab è anche la culla dell'establishment politico ed economico pakistano, con Lahore come centro principale. Vengono dal Punjab sia il primo ministro Yousaf Raza Gilani (la cui famiglia è originaria di Multan) sia il ministro degli Esteri Hussain Kureshi

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