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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Hans Fallada, Ognuno muore solo 06/12/2010

Ognuno muore solo                           Hans Fallada
Traduzione di Clara Coïsson
Sellerio                                                  Euro 16

Questa non è la storia di una spettacolare resistenza al nazismo, in Ognuno muore solo di Hans Fallada non c’è niente di paragonabile al tentativo di colpo di Stato di von Stauffenberg del ’43, né ai comportamenti dei consapevoli e colti giovani dissidenti della Rosa Bianca. Le sgrammaticate e grossolane cartoline di denuncia che, dopo la notizia dell’uccisione in guerra del figlio, i coniugi Quangel, una coppia di modesti e “squallidi” operai della capitale, scrivono e lasciano in giro nella Berlino del 1940 sperando che risveglino le coscienze dei tedeschi di fronte ai crimini del nazismo, ci parlano piuttosto di un mondo in cui il solo vedere e dire la verità, la sola scelta di essere “diversi”, era di per sé un comportamento eroico. Passibile di morte. Come successe nella realtà ai due protagonisti, ghigliottinati.
Ed è proprio nell’universo del Terzo Reich posseduto dal delirio apocalittico hitleriano, o ridotto al silenzio e alla miseria, immobilizzato dalla paura, stravolto dalla violenza, sovvertito dalla delazione del vicino, del parente, del collega, del passante che Hans Fallada, pseudonimo di Rudolf Ditzen, riesce a farci entrare, tra misere strade e androni dove tutti spiano tutti per rubare, ricattare, correre subito a denunciare qualcuno alla Gestapo ed ottenerne un qualche favore. Siamo dentro il reticolato autentico, nelle vene, nei meccanismi vitali e spuri, tra la gente, nel grigiore sanguinolento del totalitarismo, uno spaccato che solo alcuni grandi, come Arthur Koestler o Vasilij Grossman, ci hanno mostrato.
Fallada non si inventava niente, l’aveva vissuto quel periodo, tra acquiescenza al nazismo e tentazione di andarsene dal paese senza mai trovarne il coraggio. Poco dopo aver pubblicato agli inizi degli anni Trenta. E adesso pover’uomo, aveva compiaciuto blandamente i potenti a tempi alterni, indulgendo nel frattempo all’alcol e più tardi alla morfina. Quando, a liberazione avvenuta, un amico gli fa leggere il fascicolo della Gestapo su Otto ed Elise Hampel (che diverranno nel libro i Quangel) chiedendogli di farne un romanzo per restituire al paese una coscienza positiva di sé, Hans Fallada accetta, e lo scrive in 24 giorni. Muore poche settimane dopo per una overdose.
Il racconto, pubblicato una prima volta in Italia alla fine degli anni Quaranta (Primo Levi lo definì “il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo”), e solo oggi in inglese (in Inghilterra ha già venduto 220.000 copie e il regista di Goodbye Lenin! Ne ha acquistati i diritti), dunque parte da un fatto di cronaca, ma il quadro lucido e ruvido che via via gli si disegna intorno rivela man mano tanto la faccia disgustosa dei volonterosi carnefici quanto l’esistenza di una diffusa, non sappiamo quanto realistica, presa di distanza dal fanatismo: la postina che cancella l’iscrizione al partito quando scopre che il figlio soldato ha preso parte agli eccidi perpetrati nell’Est Europa e se ne disgusta, il vecchio giudice che tenta di nascondere una vecchia ebrea, la ragazza che vuol entrare in una cellula di resistenti. Niente di quel che fanno questi animi nobili serve a niente. La macchina della morte è l’unica vincente. Quel che conta è solo l’integrità mantenuta nei piccoli grandi gesti, un seme per il domani.

Susanna Nirenstein
R2 Cult - La Repubblica


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