Per la diplomazia nulla sarà più come prima, è il titolo del commento di Dan Segre sul GIORNALE, dopo il terremoto causato dalle rivelazioni di Wikileaks.
Riprendiamo dalla STAMPA, a pag. 1-2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Una tempesta sul mondo ", a pag. 6, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " L’angoscia di Barak: Il 2010 anno critico per fermare l’Iran ". Dal GIORNALE, a pag. 2, l'intervista di Fausto Biloslavo all'hacker italiano Fabio Ghioni dal titolo " Dietro a quel sito c'è quale 007".
Nella foto a destra, Julian Assange.
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Una tempesta sul mondo "

Maurizio Molinari
Le pressioni arabe per un attacco militare all’Iran, gli attacchi cibernetici cinesi, il progetto di riunificare la Corea sul modello tedesco, il braccio di ferro col Pakistan sul controllo delle armi nucleari, la corruzione dei leader afghani, la sinuosa infermiera ucraina di Gheddafi e un bazar di trattative per convincere Paesi minori ad ospitare i detenuti di Guantanamo: i 251.287 documenti diplomatici americani rivelati da Wikileaks alzano il velo su una messe di segreti gelosamente custoditi da Washington, innescando conseguenze internazionali difficili da prevedere.
I documenti sono telegrammi diplomatici scambiati dal Dipartimento di Stato con 180 ambasciate americane attraverso il sistema Internet dell’esercito Usa denominato Siprnet - Secret Internet Protocol Router Network - e con la dicitura Sipdis ovvero Secret Internet Protocol Distribution.
Wikileaks ne è entrato in possesso e li ha fatti avere a cinque giornali - New York Times , Guardian , Der Spiegel , El País eLe Monde - e da ieri ne è iniziata la pubblicazione che consente di ricostruire quanto sta avvenendo dietro le quinte della politica internazionale. Anche perché i testi risalgono agli ultimi 10 anni, arrivando fino allo scorso febbraio, con la maggioranza concentrata fra 2006 e 2009.
Ciò che ne emerge è un mondo segnato anzitutto dall’allarme per l’atomica iraniana. Il re saudita Abdullah chiede a più ripresa a Washington di «tagliare la testa del serpente» di Teheran, il sovrano del Bahrein preme per un attacco per «fermare il programma nucleare» perché «il pericolo di lasciarlo procedere è superiore a quello di fermarlo», i leader militari degli Emirati definiscono «pazzo» Mahmud Ahmadinejad, il principe ereditario degli Emirati Arabi afferma «Ahmadinejad è Hitler» e una miriade di leader, ministri e generali arabi ritiene che solo la caduta del regime degli ayatollah potrà bloccare la corsa dell’Iran all’atomica. La pressione su Washington è tale che quando il presidente americano Barack Obama nel 2009 invia un messaggio tv di apertura ai leader di Teheran, gli Emirati parlano di «testo confuso» perché «non è questa la maniera di agire».
Washington preme per sanzioni rigide, chiedendo a sauditi e cinesi di rompere i rapporti petroliferi con Teheran ma nelle conversazioni private è l’attacco militare a tenere banco, come avviene il 12 febbraio a Parigi quando il ministro della Difesa francese Hervé Morin chiede a bruciapelo al capo del Pentagono Gates se Israele attaccherà «senza il sostegno Usa». La risposta è: «Israele può farlo ma non so se avrebbe successo e comunque ritarderebbe i piani iraniani solo per 1-3 anni, con il risultato di unificare gli iraniani contro l’aggressore». Gli israeliani da parte loro sfruttano ogni occasione per spiegare a Washington che la finestra di tempo per evitare l’attacco si sta per chiudere. Nel maggio 2009 il ministro della Difesa di Gerusalemme, Barak, dice all’ambasciatore Usa Cunningham: «Il mondo ha ancora 6-18 mesi», ovvero fino all’inizio del 2011.
Se le rivelazioni sulle pressioni arabe per l’attacco sono destinate ad accrescere la tensioni fra Teheran e i vicini, il piano per la riunificazione della Corea conferma i timori di Pechino. Ecco di cosa si tratta: alti ufficiali di Washington e Seul hanno discusso i piani della riunificazione sul modello di quanto avvenuto in Germania nel 1991, arrivando a ipotizzare «incentivi commerciali» per Pechino come allora Berlino garantì al Cremlino. Lo scorso febbraio l’ambasciatrice Usa a Seul ha scritto a Washington che «gli opportuni accordi economici potranno far venir meno le preoccupazioni cinesi sulla riunificazione» di una Corea «alleata degli Usa». La possibilità di far leva sul business con Pechino per ottenere l’«implosione della Nord Corea» è uno scenario del quale nessun funzionario americano hai mai pubblicamente discusso così come si ignorava il braccio di ferro in atto dal 2007 fra Washington e Islamabad sull’uranio arricchito di un reattore ad alto rischio. Washington preme per rimuoverlo ma Islamabad si oppone perché, come scrive l’ambasciatore Patterson nel maggio 2009, «se una sola parola di questo uscirà sui giornali la conseguenza sarà far apparire l’intero arsenale pachistano in mani americane».
Riguardano la Cina anche le rivelazioni sugli attacchi via Internet contro Google: è una fonte cinese che rivela all’ambasciata Usa a Pechino che l’incursione è stata ordinata «dall’interno del Politburo del Partito comunista». Si tratta di un’operazione di guerra cibernetica «iniziata nel 2002» e prima di Google ha avuto per obiettivi «i computer del governo Usa, quelli degli alleati occidentali e del Dalai Lama». La formulazione di queste accuse è tale da non poter escludere che anche il furto di documenti rivelati da Wikileaks possa esserne coinvolto.
A descrivere il bazar sui detenuti di Guantanamo sono i telegrammi seguenti all’insediamento del nuovo Presidente Usa, quando viene detto alla Slovenia di «accettarne qualcuno in cambio di un incontro con Obama», vengono offerti «milioni di dollari» di incentivi a Kiribati e suggerito al Belgio che accogliendone «acquisterebbe visibilità in Europa». Sul fronte della lotta al terrorismo sorprende il giudizio negativo del Dipartimento di Stato nei confronti dell’Intelligence del Qatar, definita «la peggiore della regione contro Al Qaeda» perché «esitante ad agire nel timore di soffrire rappresaglie». La sorpresa si deve al fatto che il Qatar ospita a Doha il quartier generale delle operazioni Usa nel Golfo e dunque ciò significa un'esposizione alta al pericolo di attentati per i soldati Usa.
Per quanto riguarda le notizie sui singoli leader stranieri spiccano la descrizione della «sinuosa infermiera ucraina» che «segue ovunque» Gheddafi come le affermazioni sul «comportamento improprio» di un componente della famiglia reale britannica nonché le definizioni di «imperatore nudo» per Sarkozy e di «ostinata e raramente creativa» per la tedesca Merkel. Ma ciò che forse preoccupa più la Casa Bianca sono i contenuti dei telegrammi sull’Afghanistan per via della valigia con 52 milioni di dollari trovata negli Emirati in possesso del vicepresidente Massoud e del ruolo del fratello del presidente Karzai descritto come implicato in «corruzione e traffico di stupefacenti». Poiché i fondi Usa all’Afghanistan vengono dati dal Congresso è facile prevedere che i leader repubblicani ne renderanno conto a Obama. La Casa Bianca reagisce con un comunicato in cui spiega che «i contenuti di questi documenti non esprimono politiche governative». Ma la bufera è solo all’inizio.
La STAMPA - Francesca Paci : " L’angoscia di Barak: Il 2010 anno critico per fermare l’Iran "

Ehud Barak
Israele convinto che il 2010 sia «l’anno critico» entro cui fermare anche con un raid aereo il programma nucleare iraniano «prima che sia troppo tardi». Israele pronto a sostenere gli studenti e le minoranze etniche per rovesciare il governo degli ayatollah. Israele a dir poco scettico sulla politica estera europea nei confronti di Teheran ma cauto perché «ogni tentativo di premere sulla comunità internazionale può tornarci addosso come un boomerang». Dai file di Wikileaks emerge come negli ultimi due anni la diplomazia di Gerusalemme si sia concentrata sui progressi militari del potente vicino a tutto discapito del processo di pace con i palestinesi.
Inchiodati per ore davanti alla tv in attesa di segreti scottanti, gli israeliani hanno appreso ieri i nomi dei più incalzanti lobbysti della causa nazionale alla Casa Bianca, il ministro della difesa Barak e il direttore del Mossad Dagan.
Rivela Wikileaks che nel 2009 Ehud Barak stimò che restavano «fra 6 e 18 mesi» per impedire all’Iran l’acquisizione di armi nucleari. Dopo quella data, ossia nel giro di pochi mesi, «ogni soluzione militare comporterebbe danni collaterali inaccettabili». Nonostante divergenze nelle analisi (secondo gli Stati Uniti le stime del Mossad «dovrebbero essere trattate con cautela), israeliani e americani non sembrano dissentire sui fatti. L’impressione di Washington è che l’esercito israeliano (Idf) appaia «più incline che mai a un attacco militare, lanciato da Israele o da noi, come unica via per distruggere o ritardare i piani iraniani». Il capo dell’intelligence militare israeliana Amos Yadlin non lo nega: «Israele non può permettersi di sottovalutare l’Iran e di essere colto di sorpresa, come lo furono gli Stati Uniti l’11 settembre 2001».
La lingua batte dove il dente duole. Meir Dagan insiste sul fatto che «l’Iran ha deciso di dotarsi dell’arsenale nucleare e nulla lo fermerà». A meno di sabotarne le operazioni dall’interno, come suggerisce uno dei 5 punti di un piano strategico discusso dal Mossad: «Cambiamento di regime: Israele crede che bisognerebbe incoraggiarlo, possibilmente con il sostegno del movimento degli studenti democratici e di gruppi etnici come gli azeri, i kurdi, baluchi».
A monte del contenimento di Ahmadinejad (che Israele considera «il nuovo Hitler») le contromosse. Prima tra tutte la fornitura all’IDF delle bombe anti-bunker GBU-28 che «dovrebbe avvenire discretamente per evitare che si speculi sul governo americano che aiuta Israele a prepararsi per un attacco all’Iran». Poi la distribuzione di armi nella regione, a cui lo stato ebraico guarda con sentimenti contrastanti .
Mentre Israele martella Washington sull’inutilità di ogni tentativo di dialogo con Teheran, valuta la possibilità di aprirne uno temporaneo con i paesi arabi confinanti. Sotto sorveglianza, però. Sebbene circoli da tempo la notizia di una sorta di alleanza segreta tra Gerusalemme e Riad in funzione antiraniana si scopre ora che a suo tempo Israele non fosse esattamente felice del super rifornimento di armi americane da parte dei sauditi. I file di Wikileaks documentano le obiezioni degli uomini vicini al Mossad sul rischio che «i paesi arabi moderati possano in futuro diventare nemici». Si nominano l’Arabia Saudita e l’Egitto. Ma sullo sfondo c’è la Siria, la grande incognita spesso sondata come possibile sponda ai negoziati di pace nella regione, accusata della fornitura di armi «sempre più potenti» a Hezbollah nonostante gli impegni presi con il Dipartimento di Stato Usa.
Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : "Dietro a quel sito c'è quale 007 "

Fabio Ghioni
Fabio Ghioni, 46 anni, è l’hacker più famoso d’Italia. Ex mente informatica del Tiger team, che proteggeva la rete della Telecom, poi scivolato in grane giudiziarie. Di pirateria e giochi sporchi dietro le quinte se ne intende. Ghioni ha messo in piedi «Hacker republic», una specie di contraltare a Wikileaks. Una comunità su internet di novmila membri, che vorrebbe diventare movimento di opinione.
Assange e Wikileaks fanno tutti da soli o c’è qualcuno dietro?
«Non scherziamo. È impossibile che facciano tutto da soli, come paladini della trasparenza. Basta dare un’occhiata alla mole di documenti raccolti e resi pubblici. Stiamo parlando di intere banche dati. Dietro a tutto c’è qualcuno interessato a fare uscire queste informazioni in maniera chirurgica e a senso unico».
Cosa intende dire?
«Quando solo pochi conoscevano Wikileaks, ricordo che Assange boccheggiava e non riusciva a pagare neppure le bollette del sito. Poi sono esplosi. Qualche servizio segreto deve essersi reso conto della potenzialità di uno strumento del genere per campagne di disinformazione e propaganda mirata. Questo non significa che i documenti rivelati siano falsi. Finora, però, sono usati a senso unico, contro l’Occidente. Una specie di schema stile “divide et impera” per seminare divisioni nei rapporti fra alleati. Mi sembra una tattica fin troppo chiara e mirata, che ha poco a che fare con la trasparenza».
Quali sarebbero i servizi segreti coinvolti?
«Esistono organizzazioni cybercriminali come Russian business network, che secondo documenti americani è collegata all’Fsb, intelligence russa. Non escludo neppure che ci sia lo zampino di qualche struttura occidentale. È significativo che Wikileaks non abbia mai pubblicato documenti della Cia, ma solo del Pentagono e del Dipartimento di Stato, per ora. Non penso che Pechino e Teheran passino informazioni ad Assange. Però è plausibile che un colosso come la Cina finanzi Wikileaks, senza farlo sapere, trattandosi di uno strumento che sta provocando caos nel cuore dell’Occidente».
È stato arrestato un militare dell’intelligence Usa come gola profonda di Assange. Può essere che ci sia solo lui?
«È impossibile, inverosimile. Probabilmente ci sarà più di qualcuno al Pentagono o al Dipartimento di Stato Usa, che ha passato documenti e informazioni pensando di migliorare il mondo con la denuncia di qualche magagna occidentale. Penso che le fonti idealiste di Wikileaks siano il 5%, ma non può essere il singolo a passare banche dati intere».
Costa molto una struttura come Wikileaks?
«Il costo è elevato e si potrebbe aggirare su milioni di euro. La storia delle donazioni è ridicola. Che il sito renda pubblici i bilanci e poi faremo i conti. Assange è sempre in viaggio e non bastano i punti Mille miglia. Da dove arrivano i soldi?».
Il fondatore di Wikilekas continua a presentarsi come paladino della trasparenza. Cosa ne pensa?
«Non metto in dubbio che abbia iniziato spinto da gradi ideali, che condivido, ma poi la faccenda gli ha preso la mano. Il sito stava per chiudere per mancanza di fondi, poi è resuscitato. Mi piacerebbe credere che questa storia derivi da cittadini paladini delle libertà, ma purtroppo non è così».
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