Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/11/2010, a pag. 45, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Uno spietato pronto a perdonare le due facce di Simon Wiesenthal ".
La recensione di Cremonesi si conclude con queste parole : " non è chiaro per quanti campi di concentramento sia transitato. Forse 5, ma certamente non i 12 o 15 di cui parlava. Segev esclude categoricamente che sia mai stato ad Auschwitz, come pure lui sostenne in diverse occasioni. «Mentì sempre, in modo più o meno grave, sino alla morte 96enne nel 2005. Una forma mentis diffusa tra i sopravvissuti all’Olocausto e un modo per fare i conti con il buco buio della memoria che non lasciava pace». ". Forse Wiesenthal mentì sul numero di campi di sterminio in cui è stato e su altri dati della sua vita. Ciò non toglie che grazie a lui e al suo centro molti criminali nazisti fuggiti nei Paesi arabi, in Egitto e in Sud America siano stati scoperti e processati. Questo è il suo merito più grande, l'impresa per cui Wiesenthal sarà sempre ricordato, non le bugie che può aver raccontato sulla sua vita di sopravvissuto. D'altronde Cremonesi scrive che il libro è uscito in ebraico e in inglese, omettendo che è già uscito anche in tedesco. Che cosa dovremmo dedurne ? che non è informato ?
Ecco l'articolo:

Simon Wiesenthal
«Cacciatore di nazisti» ad oltranza, ma anche convinto che la memoria dello sterminio degli ebrei non dovesse assolutamente offuscare quella degli altri, primi tra tutti omosessuali e zingari. Sionista, eppure determinato a restare nella diaspora austriaca. Collaboratore del Mossad, però deciso a rivendicare l’importanza del proprio ruolo autonomo e centrale nelle operazioni più importanti, per esempio la cattura di Adolf Eichmann. Pronto a rintracciare con pazienza e puntiglio infiniti le più remote testimonianze delle vittime, ma nel contempo geloso della sua unicità, in perenne contrasto con figure del calibro di Elie Wiesel, che minacciavano di offuscare la sua aureola di testimone alla ricerca di giustizia contro i responsabili della Shoah. È un Simon Wiesenthal ancora più controverso e contradditorio di quanto non apparisse quando era vivo quello che emerge dalla lunga biografia scritta da Tom Segev da poco pubblicata in ebraico e inglese.
Ovvio sin dalle prime pagine che il noto e dibattuto giornalista-storico israeliano è affascinato dal suo personaggio. Ama esaltarne gli aspetti ambigui, incongruenti, più «politically non correct». «La durezza di Wiesenthal nei confronti degli ebrei collaborazionisti dei nazisti e invece il senso di gratitudine per quei tedeschi che gli salvarono la vita durante l’Olocausto gli insegnò a giudicare gli individui per i meriti personali, piuttosto che per il gruppo di appartenenza», scrive Segev. Un tuffo di novità nell’era determinata dai Goldhagen. E un modo per Segev di ritornare sul tema dell’Olocausto, di cui lui, figlio di ebrei comunisti sopravvissuti ai campi di sterminio dell’Europa cen-tro-oriental e immigrati a Gerusa lemme nei mesi fondativi di Israele, è ormai da molti anni uno studioso allo stesso tempo annoiato dalla strumentalizzazione distorcente che a suo dire ne fa spesso la debordante e sempre crescente letteratura mondiale, ma anche ben consapevole della sua centralità nella storia del Novecento. «Wiesenthal aveva perso quasi tutta la famiglia nei forni crematori, a partire dalla madre. Ma tutto sommato la sua esperienza personale, sebbene più tardi abbia cercato di drammatizzarla nei suoi racconti, fu meno peggio di quella di tanti altri. Condivideva un famoso giudizio di David Ben Gurion, per cui i migliori erano periti. Perché non si poteva sopravvivere restando puri: occorreva vendersi, rubare, collaborare. E per questo aveva maturato un profondo senso di colpa verso i morti. Fu tra i primi a lanciarsi alla caccia dei capi nazisti e dei criminali responsabili dello sterminio sin dall’aprile 1945. Ma a suo modo tentava anche di perdonare, voleva distinguere nel mucchio. Era un ebreo della diaspora europea e aspirava ad essere accettato dalla sua gente in Austria. Si spiega così anche la sua strana amicizia con Albert Speer, l’architetto di Hitler», raccontava poche settimane fa Segev durante una cena a Gerusalemme.
Tra le perle del libro (ricco di una documentazione esclusiva raccolta tra l’altro negli archivi tedeschi, austriaci, israeliani, polacchi e dell’ex servizio segreto della Germania orientale) il suo primo tentativo di catturare Eichmann in Austria già nel 1949. Questi verrà preso in Argentina 11 anni dopo. C’è poi la notizia che Otto Skorzeny (il celebre ufficiale delle SS che liberò Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso) accettò poi di collaborare con il Mossad, purché Wiesenthal lo depennasse dalle sue liste, cosa che questi rifiutò. Ma anche il primo racconto documentato del suo scontro frontale con l’ex cancelliere austriaco Bruno Kreisky, che addirittura si spinse ad accusare Wiesenthal di essere stato un kapò. «Sospetti assurdi, maldicenze. Il governo israeliano considerava Kreisky uno psicotico», sostiene Segev. Sino alla continua propensione di Wiesenthal a mentire, o comunque a rendere più drammatica la realtà cui aveva assistito. Ancora, per esempio, non è chiaro per quanti campi di concentramento sia transitato. Forse 5, ma certamente non i 12 o 15 di cui parlava. Segev esclude categoricamente che sia mai stato ad Auschwitz, come pure lui sostenne in diverse occasioni. «Mentì sempre, in modo più o meno grave, sino alla morte 96enne nel 2005. Una forma mentis diffusa tra i sopravvissuti all’Olocausto e un modo per fare i conti con il buco buio della memoria che non lasciava pace».
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