martedi` 13 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.10.2010 Dialogo coi talebani? Un'impresa inutile e impossibile
Commenti di Redazione del Foglio, Franco Venturini, intervista al mullah Zaeef di Lorenzo Cremonesi

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: La redazione del Foglio - Lorenzo Cremonesi - Franco Venturini
Titolo: «Attenti, c’è chi vuole solo il ritiro - Giusto trattare con il nemico?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/10/2010, in prima pagina, l'articolo dal titolo " La Nato protegge i capi talebani per paura che siano uccisi dal Pakistan ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'intervista di Lorenzo Cremonesi al mullah Abdul Salam Zaeef dal titolo " Attenti, c’è chi vuole solo il ritiro ", a pag. 1-50, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " Giusto trattare con il nemico? ", preceduto dal nostro commento.
Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - "  La Nato protegge i capi talebani per paura che siano uccisi dal Pakistan"


Nato

Kabul. Il New York Times arriva più tardi degli altri giornali sullo scoop dei negoziati di pace in corso tra i capi talebani e il governo dell’Afghanistan (primi sono arrivati quelli di Asia Times, l’11 settembre scorso, poi Washington Post e Wall Street Journal). Ma l’inviato inossidabile del Nyt, Dexter Filkins, porta informazioni essenziali. Alle trattative partecipano almeno quattro capi talebani appartenenti alla Shura di Quetta e uno appartenente al clan Haqqani – Filkins i nomi li conosce, ma non li scrive, d’accordo con la Casa Bianca e il governo Karzai, per non complicare di più una situazione già complicata. La Shura è il consiglio di guerra dei talebani, formato da dieci leader e guidato dal Mullah Omar, che prende tutte le decisioni operative. Quetta è la città pachistana a pochi chilometri dal confine afghano dove la Shura agisce indisturbata – anzi, la Nato sostiene che i capi talebani vivano in alloggi provvisti loro dai servizi segreti pachistani. Il clan Haqqani è un’altra fazione della guerriglia, la più brutale, quella che è più a stretto contatto con gli arabi di al Qaida ed è capace di organizzare attacchi suicidi fin nel cuore di Kabul (sono i suoi uomini ad aver ucciso i sei paracadutisti italiani della Folgore nel settembre 2009). Se Filkins può scrivere che quasi metà della Shura e un capo degli Haqqani – considerati irriducibili – partecipano ai negoziati di pace, è segno che questa volta a differenza che negli anni scorsi si fa sul serio. Del resto, come dicono tutti i sondaggi, Karzai è carente sulla sicurezza, ma la popolazione afghana vuole anche acqua pulita, elettricità, telefonini: tutte cose cui soltanto un governo non isolato dalla comunità internazionale può provvedere, e di certo non la guerriglia dai suoi covi. Ma lo scoop più importante Filkins lo ha fatto scoprendo che i soldati della Nato si sono trasformati in protettori e scorta per i capi talebani, che temono di essere eliminati fisicamente dai servizi segreti pachistani, contrari ai negoziati di pace. I soldati Nato accompagnano i capi agli appuntamenti con gli emissari di Karzai, almeno in un caso a bordo di un aereo, per impedire che siano bloccati ai checkpoint, ma soprattutto perché si sentono minacciati. E’ l’ultima giravolta di questa guerra: le stesse forze occidentali che mettono in campo squadre speciali addestratissime a dare la caccia ai leader talebani ora ne proteggono alcuni selezionati da quei servizi segreti pachistani che della guerriglia sono gli alleati occulti e i burattinai interessati. “Se i talebani e i pachistani scoprissero chi sono i capi impegnati nei negoziati – dice un funzionario afghano che c’era – li imprigionerebbero e li ucciderebbero”. “Questi negoziati sono fondati sulle relazioni personali, sulla fiducia”, aggiunge. “Quando i capi talebani scortati vedono che possono viaggiare per il paese senza essere attaccati dagli americani, capiscono che il governo è sovrano e che possono fidarsi di noi”. Il pericolo viene più dal Pakistan, che pure ai capi talebani offre rifugio sicuro nelle aree di frontiera con l’Afghanistan: quest’anno i pachistani hanno arrestato almeno 23 comandanti quando l’intelligence ha scoperto che erano impegnati in colloqui segreti con rappresentanti del governo afghano. Dai negoziati è escluso intenzionalmente il gran capo, il Mullah Omar. In parte è un tentativo da parte degli afghani di dividere la leadership talebana, in parte i negoziatori afghani considerano Omar come un prigioniero dei servizi segreti pachistani, incapace di comandare in autonomia – e quindi anche di ordinare la pace. I conti senza Zakir, Emiro della guerriglia Tutto questo parlare di negoziati in corso non cambia tuttavia la realtà sul terreno. I talebani si sentono in vantaggio dal punto di vista militare – si stanno espandendo persino nell’inviolato nord del paese – e non parlano di resa. Il comandante militare dei talebani ora è Abdul Qayyum Zakir, un ex detenuto di Guantanamo lasciato libero nel 2008 e subito diventato Emiro della guerriglia nelle aree meridionali del paese, Helmand e Kandahar, che sono anche le più violente e importanti. Zakir è un irriducibile, ed è stato capace di rendere il sud un inferno prima per i soldati inglesi e ora per quelli americani. A lui si contrappone il Mullah Baradar, il numero due talebano molto incline alla pace catturato a febbraio in Pakistan e poi liberato – dall’ala più ragionevole dei servizi pachistani – per diffondere tra i suoi il nuovo contagio trattativista.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Attenti, c’è chi vuole solo il ritiro "


 Abdul Salam Zaeef

KABUL — «Dialogo con i talebani? Ci credo molto poco. Se è vero, tanta pubblicità lo rende solo più difficile. Se è falso, rende più complicato avviare contatti concreti». Nella sua casa a Kabul, il mullah Abdul Salam Zaeef (42 anni) torna a godere un’ora di notorietà. Ex ambasciatore talebano a Islamabad fino al 2001, prigioniero a Guantánamo fino al 2005, è stato poi uomo del dialogo con Karzai. «Non sono talebano da molto tempo. Ma so come ragionano», dice. La sua biografia appena uscita in inglese ( La mia vita con i talebani) è fondamentale per capire gli ultimi trent'anni di storia afghana. Come legge le notizie dei contatti? «Non escludo che qualche militante secondario abbia aperto un qualche dialogo con gli Usa e il governo Karzai. Ma non è nuovo. Avviene da 9 anni. Nego però che siano cominciati seri negoziati con i veri alti dirigenti che fanno capo al mullah Omar a Quetta».

Come può affermarlo?

«Basta osservare come le notizie sono diffuse, sembrano mirate solo a dividere i talebani. Quando la gente si accorgerà che non è vero, Karzai e gli americani saranno ancora più screditati. Se fosse vero, Karzai, Petraeus e i loro portavoce non ne parlerebbero. Ma se fosse un trucco per trovare qualche contatto sarebbe un autogol. Non capisco perché agiscano così. Forse Obama cerca di guadagnare punti in vista delle elezioni di metà mandato».

Che pensa dei leader talebani che per i media sono coinvolti?

«Il mullah Baradar mi pare assurdo. Era importante ma ora è nelle celle pakistane, è bruciato. Il mullah Abdel Kabir era importante ma per questo non credo sia coinvolto». E se i talebani fossero in crisi? «Chi diffonde questa leggenda non sa nulla dei talebani. Se uccidono tuo fratello devi morire pur di vendicarlo, morire nella jihad è un privilegio. Nel mio villaggio conosco almeno 5.000 giovani pronti a immolarsi contro gli Usa. Petraeus ha lanciato un'offensiva massiccia ma ha rilanciato la guerriglia. Siamo fatti così. La guerra è parte della nostra cultura. Più ci ammazzano e più diventiamo coriacei».

Che condizioni ha posto il Mullah Omar a Quetta per negoziare?

«Non sono mai cambiate. Per i talebani l’Afghanistan è dal 2001 sotto occupazione: non riconoscono Karzai, il governo, la costituzione, le elezioni. E quindi prima la coalizione si ritira. Poi ci penseranno i talebani a trattare con il resto del Paese».

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Giusto trattare con il nemico? "


Franco Venturini

Sulla necessità e sulla possibilità di avviare il dialogo con i talebani, riteniamo che l'intervista di Lorenzo Cremonesi al mullah Abdul Salam Zaeef (pubblicata in questa pagina della rassegna di IC) sia la risposta migliore. Il mullah Zaeef specifica chiaramente che è impossibile che il dialogo sia stato avviato sul serio ed è scettico anche sul futuro.
Ecco l'articolo di Franco Venturini

E’ con il nemico che serve negoziare. La formula non è nuova e a riciclarla ha provveduto di recente, non a caso, il segretario di Stato, Hillary Clinton. Accade, infatti, che in Afghanistan stia entrando nel vivo il tentativo del presidente Karzai di intavolare trattative con i talebani. E accade, soprattutto, che gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato (Italia compresa) appoggino lo sforzo di Karzai, riducano le loro precondizioni, provvedano persino alla sicurezza dei delegati talebani che si recano a vedere cosa c’è sul tavolo. Eppure i talebani sono sempre quelli. Quelli che dettero generosa ospitalità a Osama bin Laden prima dell’11 settembre, quelli che continuano a trescare con i terroristi in Pakistan, quelli che tenevano le donne lontane dalle scuole e se necessario le lapidavano (in verità lo fanno ancora). Provare a raggiungere con loro un accordo, allora, è un tradimento dei valori occidentali, un insulto ai morti dell’11 settembre e ai caduti di nove anni di guerra? A noi pare che si tratti piuttosto di una ipocrisia necessaria, di un poco nobile pragmatismo come tanti ne ha visti la Storia.

Non è particolarmente arduo trovare le radici di questa cattiva coscienza priva di alternative. Tutti i capi politici della Nato, a cominciare da Barack Obama, hanno capito che la guerra in Afghanistan non può essere vinta. E sanno bene, tutti costoro, che una fuga tipo Saigon avrebbe questa volta conseguenze assai più gravi sugli equilibri mondiali. Serve, dunque, una terza via. Che è stata individuata in tre mosse teoricamente complementari: l’arrivo di rinforzi, per ammansire militarmente i talebani; l’offerta di negoziati in vista di una partecipazione al potere a Kabul; l’addestramento di un esercito afghano capace di sostituirsi alle truppe Nato nel 2014 o giù di lì.

I politici preferiscono parlare di «transizione», ma in realtà si tratta di una vera e propria exit strategy che tiene conto del tempo che le opinioni pubbliche occidentali e i rispettivi governi eletti pensano ancora di avere per uscire onorevolmente da quella che più che mai merita di essere chiamata la tomba degli imperi. Risulta percepibile un senso di disperazione e di impotenza, in tutto questo. Ma se la nuova strategia è indice del fallimento della strategia precedente, è anche necessariamente un male? Eccolo il problema chiave: quanto si può concedere ai talebani, se non si vuole che patti scellerati siano ancor peggio di un ritiro precipitoso?

Karzai voleva il rispetto della Costituzione in vigore e il disarmo dei talebani presi a bordo, oltre a una serie di garanzie riguardanti tra l’altro il trattamento delle donne. I talebani volevano semplicemente il previo ritiro dal Paese delle truppe straniere. Essendo ovvio a entrambe le parti che su queste basi nessun dialogo era possibile, si è entrati rapidamente nella fase, definita «preliminare», degli aggiustamenti reciproci. Dei talebani sappiamo poco. Degli occidentali sappiamo che, in aggiunta agli auspici di equità sociale, esiste una linea rossa invalicabile: i talebani cooperanti dovranno rompere ogni legame con Al-Qaeda (che peraltro nel frattempo ha esteso la sua rete dal Pakistan allo Yemen e all’Africa e potrebbe dunque mostrarsi più discreta in Afghanistan).

Funzionerà, il binario negoziale? Non sono in molti a crederci. Perché dovrebbero, i vertici talebani, trattare seriamente ora che sentono profumo di ritiro Nato tra pochi anni? E il Pakistan favorirà davvero un accordo con il poco amico Karzai dovendo tenere d’occhio a oriente l’eterno nemico indiano? Eppure, tentare è ragionevole. Come è ragionevole lavorare nell’addestramento degli afghani, pur sapendo che senza la Nato il nuovo esercito «nazionale» rischierebbe di sfaldarsi in poco tempo. Vedremo: tra luci verdi e linee rosse il gioco è appena cominciato. Ma resta quel problemino ricordato da Hillary. È giusto trattare con Ahmadinejad, unico capo di Stato al mondo che minacci l’esistenza di un altro Stato? È giusto trattare con la Corea del Nord, che l’atomica l’ha già? È giusto immaginare che si potrebbe un giorno trattare con Hamas, se invece di sparare sui negoziati israelo-palestinesi peraltro già in crisi scegliesse la politica e partecipasse in buona fede a un dialogo il cui primo traguardo dovrebbe essere il riconoscimento dello Stato di Israele?

Piuttosto che di giustizia preferiamo ancora parlare di pragmatismi imposti da circostanze presenti o future. Circostanze che per prima cosa devono esistere. Ed è questo che Hillary ha voluto dirci: in Afghanistan l’ipocrisia necessaria è opportuna ed è anche urgente.

Per inviare la propria opinione a Foglio e Corriere della Sera, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@ilfoglio.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT