Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ahmadinejad accolto con entusiasmo da Hezbollah Commenti di Fiamma Nirenstein, redazione del Foglio, cronaca di Francesca Paci. Silenzio del Tg1.
Testata:Il Giornale - Il Foglio - La Stampa Autore: Fiamma Nirenstein - La redazione del Foglio - Francesca Paci Titolo: «Ahmadinejad come Hitler. Marcia choc sul Libano - Così Hezbollah e l’Iran spingono il Libano al fallimento di stato - Ahmadinejad ai confini di Israele»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 15/10/2010, a pag. 16, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Ahmadinejad come Hitler. Marcia choc sul Libano ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Così Hezbollah e l’Iran spingono il Libano al fallimento di stato ". Dalla STAMPA, a pag. 1-21, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Ahmadinejad ai confini di Israele ", preceduto dal nostro commento. (nella foto a destra Mahmoud Ahmadinejad con Hassan Nasrallah)
Tg1 ore 20, 14/10/2010, il Tg più seguito in Italia, nell'edizione di massimo ascolto. Diversamente da altri Tg- Tg5, Tg Sky, per esempio- non ha dato la notizia di Ahmadinejad a Beirut, del suo incontro con Nasrallah, e delle nuove, violente, minacce contro Israele. Una decisione inspiegabile, soprattutto tenendo conto del fatto che a Beirut la Rai ha un corrispondente, mentre a Gerusalemme c'è Claudio Pagliara, al quale si poteva chiedere almeno un commento. Invece niente. chiediamo ai nostri lettori di protestare con il direttore,Augusto Minzolini, scrivendo a:augusto.minzolini@rai.it
NOTA AGGIUNTIVA delle ore 14,oo,oggi, 15/10/2010: Il TG1 delle 13,30, ha mandato in onda un servizio di Claudio Pagliara, esaustivo ed accurato, come sempre. Ringraziamo i lettori di IC che hanno telefonato e fatto arrivare la loro protesta al direttore Minzolini per il mancato servizio di ieri sera. Claudio Pagliara
Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Ahmadinejad come Hitler. Marcia choc sul Libano "
Fiamma Nirenstein
Shimon Biton guarda sconsolato nella sera, che in Medio Oriente arriva prima, le luci rutilanti che il villaggio di Maroun a Ras spara per fare onore a Ahmadinejad in visita sul confine del Libano con Israele. Il villaggio è a pochi centinaia di metri, dalla guerra del 2006 gli agricoltori libanesi ostaggio degli hezbollah, non sono più venuti, spiega Biton. Shimon con la sua maglietta a striscia insieme ai suoi compagni del moshav (una specie di kibbutz) di Revivim cerca di lanciare nel vento qualche pallone bianco e blu: ha beccato sulla testa insieme alla sua famiglia e i suoi compagni, con orti e feriti, le aggressioni missilistiche degli hezbollah per decenni. Adesso guarda da lontano le luci, e non può credere che esse stiano illuminando proprio colui che progetta e proclama ogni giorno la distruzione di Israele, lo sterminio degli ebrei, che nega lo shoah; è stupefatto che sia venuto quasi in casa sua di fatto a ispezionare l’avamposto meglio armato dell’Iran il Libano di Nasrallah, con i suoi 40mila missili: «Io non l’ho visto, se lo vedessi gli direi complimenti, hai ucciso il Libano». Che ne pensa dell’idea di un deputato di estrema destra di tentare con qualche cecchino? Scuote la testa: «non dimentichiamoci, dice come cominciò la prima guerra mondiale». Ma qui viene da pensare non alla prima, ma alla seconda guerra, a Hitler e alla sua marcia di conquista che cominciò con l’Anschluss dell’Austria. Non ha usato mezze parole Arieh Eldad, deputato del partito dell’opposizione di destra Unione Nazionale, che ha proposto di approfittare della visita per assassinare Ahmadinejad. «Alla vigilia della seconda guerra mondiale, se un uomo avesse ammazzato Hitler, avrebbe cambiato il corso della storia», ha commentato. Ed è stata davvero una triste Anschluss la marcia trionfale che Ahmadinejad ha compiuto in questi due giorni fino a Bid d’jebel a Maroun a Ras e a Kfar al Khana sul confine di Israele con i suoi tremila guardiani della rivoluzione al fianco degli Hezbollah. Tutti i leader libanesi moderati e onorevoli, quelli che dovrebbero semplicemente schivare, spingere lontano Ahmadinejad per avere preso il Libano prigioniero, invece sotto la minaccia costante delle armi di Nasrallah, lo hanno in questi giorni incontrato, dal presidente Michel Suleiman al primo ministro Sa’ad Hariri. Le foto li mostrano contratti, tristi. Ahmadinejad, che ha ripetuto di sentirsi proprio a casa sua facendo impallidire Suleiman, ha chiesto a Hariri di bloccare l’Alta Corte che a dicembre altrimenti dichiarerà che suo padre Rafik è stato ucciso dagli Hezbollah. Ad Hariri Ahmadinejad ha chiesto di dichiarare che il tribunale è corrotto e che Israele ha tramato contro Hariri. La scena di Ahmadinejad nel sud del Libano è paradossale per la facilità con cui una evidente rappresentazione di violenza e antisemitismo genocida può oggi avere luogo senza che nessuno batta ciglio. A sessanta anni dalla shoah il leader di un grande Paese come l’Iran, fra la folla plaudente di un Paese straniero ha urlato verso Israele, a duecento metri di distanza: «i sionisti sono responsabili per la crisi economica e l’inquinamento nel mondo»; «i sionisti non dureranno a lungo»; che «gli uomini di Dio stanno arrivando e l’ingiustizia finirà» dato che «i sionisti sono i nemici dell’umanità» e la lotta dei palestinesi può essere vinta solo con la forza. La mattina mentre gli assegnavano una laurea honoris causa, Ahmadinejad accusava l’Occidente di aver bloccato gli altri Paesi dall’accesso alla tecnologia nucleare pacifica, di uccidere civili innocenti in Afghanistan con la scusa di combattere il terrorismo, e ha aggiunto che «investire speranze in Inghilterra, Usa e altri paesi è inutile, perché hanno aiutato a fondare il sionismo». Un gruppo di 250 politici, avvocati, attivisti in questo terribile panorama ha trovato il notevole coraggio di mandare una lettera aperta a Ahmadinejad: «Il tuo discorso che invita le forze di resistenza in Libano a spazzare via Israele dalla mappa fa sembrare che la tua visita sia quella di un comandante alla linea del fronte». Eh già, la linea avanza, altrimenti a che serve un’Anschluss? www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - " Così Hezbollah e l’Iran spingono il Libano al fallimento di stato "
Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, Mahmoud Ahmadinejad
Beirut. In Libano, Hezbollah è più pericoloso di una guerra civile. Lo dice Michael Young, editorialista del Daily Star di Beirut e redattore del magazine americano Reason, durante un colloquio con il Foglio. “Il Partito di Dio è un’estensione del regime iraniano – spiega – Non si tratta di un movimento autenticamente libanese e non possiede priorità libanesi”. Young è un brillante esperto di medio oriente. Il suo ultimo libro, intitolato “The Ghosts of Martyrs Square” (i fantasmi della piazza dei Martiri) è il racconto degli eventi tumultuosi accaduti tra il 2005 e il 2009, degli omicidi eccellenti, delle guerre e delle rivolte che hanno contribuito a far crescere il potere del Partito di Dio e la sua influenza sulla politica libanese. L’analista ha vissuto in prima persona buona parte della guerra civile libanese e sostiene che, dal 1975 al ’90, “nella mente di molti libanesi c’era la sensazione che la fine della guerra avrebbe segnato il ritorno dello stato libanese. Con il passare del tempo, tuttavia, il Libano è rimasto lo stato giacobino che era prima del conflitto”. Young ripercorre gli eventi accaduti dal 2005 al 2009, dall’assassinio dell’ex premier, Rafiq Hariri, alla guerra tra Hezbollah e Israele, e ricorda “gli sforzi sistematici della Siria per tornare effettivamente nel paese, imponendo di nuovo la propria egemonia. Con Hezbollah è arrivato l’antistato, un partito la cui esistenza come organizzazione politica e militare è più potente del governo libanese. Hezbollah è supportata da una comunità sciita molto unita e ha una forza militare maggiore rispetto a quella dell’esercito grazie all’aiuto di Siria e Iran. Ogni sforzo di riportare questo movimento in linea con la logica dello stato è virtualmente impossibile”. Per Young, la questione del Partito di Dio è la questione dell’intera comunità sciita del Libano. “Tutti hanno capito che una mossa contro Hezbollah sarebbe percepita dagli sciiti come una mossa contro l’intera comunità – spiega al Foglio – Sinché non risolveremo il problema, continueremo ad avere lo stato di Hezbollah da una parte e lo stato libanese dall’altra. Trovare un modus vivendi che permetta a Hezbollah di esistere in pace con le altre comunità è impossibile. Esiste il pericolo di una guerra tra sciiti e sunniti: sarebbe qualcosa di infinitamente peggiore di ciò che abbiamo visto finora”. Al contrario di molti politici e studiosi della sinistra europea, Young dice che “una forza politica legittima riconosce il sistema in cui opera, ma Hezbollah non ha mai riconosciuto o rispettato la legittimità del governo di Beirut: vede lo stato libanese come uno strumento per preservare la propria autonomia militare. Una forza legittima non può minare costantemente le basi del sistema politico”. Che cosa succede se tornano i siriani Dopo la Rivoluzione dei cedri, molti analisti hanno visto nella fine della presenza militare siriana – così come l’istituzione di un tribunale internazionale per investigare sull’omicidio di Rafiq Hariri – i segni di una nazione pronta a disfarsi dell’influenza di Damasco. Cinque anni dopo, niente di quello che ci si aspettava è accaduto. “Credo che le aspettative fossero troppo alte e che la gente abbia pensato che ciò che stava succedendo nel 2005 fosse qualcosa di nuovo – sostiene Young – Ma ciò che è successo dopo il 2005 è il frutto della natura intimamente settaria della società libanese. I siriani stanno cercando di ritornare in Libano, vorrebbero riprendersi il frutto dei loro sforzi facendo in modo che Beirut torni a essere una pedina. Questo ha creato una certa tensione nei confronti di Hezbollah, che vorrebbe il paese più vicino all’Iran, ma sbaglieremmo a dire che, per questo, Siria e Iran o Siria e Hezbollah stiano per entrare in conflitto”. Il figlio di Rafiq Hariri, Saad, è diventato premier nel novembre 2009 e da allora ha incontrato il presidente siriano, Bashar el Assad, in numerose occasioni. Nel 2007 disse ai reporter di Time Magazine di ritenerlo responsabile per l’omicidio del padre; oggi è pronto alla riappacificazione. Dall’altra parte del Litani Per Young, “anche i sauditi, i principali sponsor di Saad Hariri, preferiscono i siriani in libano all’Iran. Sebbene Hariri sappia molto bene chi abbia assassinato suo padre, la realtà dei fatti lo costringe ad allearsi con Damasco: una delle ragioni per cui lo sta facendo è indebolire Hezbollah in Libano”. La questione libanese ha ripercussioni anche sui colloqui di pace per il medio oriente che impegnano, proprio in queste settimane, il governo di Israele e i rappresentanti dell’Autorità nazionale palestinese, con il sostegno di Washington. “Molti sono pessimisti al riguardo – dice Young – La Siria non riprenderà a negoziare con Israele finché potrà muovere la propria pedina libanese. I siriani vogliono ottenere le alture del Golan e Beirut è una parte cruciale di qualunque trattativa. Questo spiega perché siano così entusiasti di riprendere la propria egemonia sul paese. Se possibile, vorrebbero farlo militarmente. La Siria è abbastanza contenta di vedere che il processo di pace fra Israele e Palestina permette di accelerare la resurrezione del proprio potere a Beirut, ma non vuole che i negoziati proseguano senza aver ripreso il controllo del Libano”. Oggi il paese è un campo di battaglia controllato da Hezbollah e dalla Siria, ma non può essere definito uno “stato fallito”, come sostengono molti osservatori in occidente. “Il Libano ha ancora un governo centrale e un esercito, per quanto inefficienti – spiega al Foglio Young – Effettivamente, non siamo in un paese normale. Non è normale per esempio, che una milizia come quella di Hezbollah abbia il potere che ha oggi. Ma vorrei ricordare che questo non è normale neanche per i molti libanesi che vogliono tornare alla posizione di base, che vorrebbero trasformare il governo in una forza dominante nello stato, e le sue istituzioni, incluso l’esercito, in un organismo in grado di detenere il monopolio legittimo della forza. Non credo che potremo risolvere la questione nel prossimo futuro, ma questa ambiguità tra lo stato e la sua politica deve risolversi. Non succederà presto, e se i siriani riusciranno a imporre nuovamente la loro volontà sul Libano, cosa abbastanza possibile, continueranno a perpetuare l’anomalia tra Hezbollah e lo stato. Sebbene io non creda che il Libano diventerà una nazione normale, il paese non vuole essere visto come uno stato fallito. Il Libano ha sviluppato e preservato una forma paradossale di liberalismo basato su istituzioni illiberali. Ha problemi seri, ma resta uno spazio liberale in una regione illiberale. Perciò, quello che il Libano deve fare è trovare un nuovo contratto sociale in cui si possa avere stabilità e unità insieme alla libertà. Sfortunatamente, oggi c’è libertà senza stabilità”. Ecco perché i mediatori falliscono La fragilità del Libano e le sue divisioni interne rendono difficile anche il compito dei mediatori stranieri. “Sfortunatamente, è molto complicato avere a che fare con lo stato libanese – commenta Young – Ci sono interessi troppo divergenti: hai Hezbollah nel governo, i pro-siriani nel governo, gente come Saad Hariri che è costretta ad allearsi con la Siria nonostante non sia proprio un pro-siriano. Hai quelli che sono contro la Siria e quelli che sono contro Hezbollah. E’ estremamente difficile per ogni interlocutore europeo, specialmente per una nazione straniera trattare direttamente con il Libano perché c’è un range molto vasto di interlocutori, ognuno con i propri interessi. Le forze Unifil nel Libano del sud sono un chiaro esempio: con chi devono rapportarsi? Con l’esercito libanese? Bene, l’esercito libanese nel sud è pesantemente influenzato da Hezbollah. Quindi, le forze di Unifil devono avere a che fare con Hezbollah anche se Hezbollah è uno dei gruppi che dovrebbero controllare, specialmente per quanto riguarda il riarmo. In altre parole, si ritrovano spesso a dipendere da chi dovrebbero sorvegliare”. “Posso immaginare quanto questo sia frustrante per gli europei – prosegue l’analista – ma se c’è una cosa per la quale valga la pena di lottare, quella è proprio la vita delle istituzioni libanesi. Non c’è niente che Hezbollah desideri di più che vedere lo stato libanese e il suo esercito delegittimati nella comunità internazionale. Ci deve essere quindi uno sforzo per sostenere il Libano anche se questo significa imporgli delle condizioni. In altre parole, non bisogna solo dare tutto ciò che i libanesi chiedono, ma è anche importante ricordare ogni volta che c’è una frattura fondamentale tra Hezbollah e lo stato libanese e tra ciò che la Siria vuole in Libano e quelli che sono gli interessi dello stato libanese. Gli europei devono provare a rafforzare le capacità dello stato libanese indipendentemente da Siria e Hezbollah. Come si possa fare questo nello specifico, ovviamente, è terribilmente complicato”.
La STAMPA - Francesca Paci : "Ahmadinejad ai confini di Israele "
Francesca Paci
Ci chiediamo per quale motivo Francesca Paci, inviata in Libano, abbia ascoltato solo la campana filo iraniana. Non ci sono, nel suo articolo, dichiarazioni della parte di Libano filo occidentale e contraria ad Hezbollah. Ecco l'articolo:
Correva l’anno 2006 la prima e ultima volta che gli abitanti di Bint Jbeil si erano sentiti al centro della Storia seguendo da protagonisti la ritirata dell’esercito israeliano dalle alture brulle punteggiate di ulivi e muretti a secco. Adesso arriva Ahmadinejad e pur facendosi attendere due ore e mezzo dai circa sessantamila stipati dentro e fuori lo stadio che nel 2000 incoronò il leader di Hezbollah Nashrallah, porta in dono il riscatto.
La compensazione morale, un bene più prezioso dei figli in questo villaggio del Libano meridionale privo di tutto fuorché dell’orgoglio d’essersi battuto per «la resistenza». Quel ritardo che al proprietario del ristorante al Hadi non fa che accrescere il desiderio al punto da fischiettare l’inno nazionale iraniano mentre affetta lo shawarma, insospettisce però gli analisti attenti ai dettagli. Perché mentre il popolo sciita boccheggiava nella calura impastata di polvere, il suo paladino s’intratteneva in un lungo e amichevole pranzo con il premier libanese Saad Hariri, principale rivale politico di Hezbollah e sodale di Riad assai più che di Teheran. La tanto sospirata sfida muscolare iraniana si è risolta forse in un sobrio esercizio diplomatico? Prima di lasciare il Libano, Ahmadinejad ha incontrato, in una località segreta, il leader degli Hezbollah Hasrallah, che gli ha regalato una mitraglietta presa come trofeo a un militare israeliano. Ma l’annunciato lancio di pietre contro Israele non c’è stato? Secondo il direttore della Samir Kassir Foundation Saad Kiwan, il tour libanese assegna un punto importante all’erede di Khomeini ma ne rivela tutte le difficoltà: «L’Iran sta accusando i colpi dell’embrago più di quanto dichiari, la Siria flirta sottobanco con gli americani, la Turchia concorre sfacciatamente alla leadership della regione al punto da mandare a Beirut il premier Erdogan. Cosa può fare Ahmadinejad? Il fatto stesso di venire in visita innervosendo Washington è un successo da sbandierare anche se, a sorpresa, ha sfruttato l’occasione per buttarsi addosso a Hariri, prenderlo per mano, definire il padre assassinato “un grande amico” e magnificare l’unità libanese». Certo, c’è sempre il tribunale dell’Onu prossimo ad attribuire la morte dell’ex premier Rafiq Hariri a Hezbollah, ma nel condannarne la faziosità il presidente iraniano è stato bene attento ad attribuirla interamente Israele. L’ostilità verso lo Stato Ebraico è collante collaudato. «Il mondo deve sapere che i sionisti sono destinati a scomparire, non hanno altra scelta che arrendersi e tornare nei loro Paesi di origine» tuona Ahmadinejad sfidando il rombo dei caccia libanesi che pattugliano il confine distante meno di 5 chilometri. Tre donne svengono e concludono il pomeriggio al pronto soccorso dell’ospedale Sheik Salah Gandur, distrutto durante la guerra e ricostruito con i soldi di Teheran. Ma è colpa dell’afa mista all’eccitazione. Mamme, mogli e figlie sono le più esaltate: hanno occupato il settore femminile con una foga da far sembrare timidi gli uomini. Mahomoud, 17 anni, maglietta Gucci, è tornato sudato dalla Porta di Fatima dove ha sperato invano nell’intifada estemporanea, ma non ha recriminazioni: «Ahmadinejad è il nostro comandante e ci guiderà a liberare la Palestina». Le parole pesano quanto e più delle pietre. «A chi si aspettava che venisse per dividere, il presidente iraniano ha dimostrato l’opposto appellandosi all’unità libanese e dell’intera regione» osserva il leader libanese di Hamas Osama Hamdan spingendosi a vagheggiare gli «Stati Uniti del Medioriente», una santa alleanza musulmana più che araba aperta all’Iran ma anche alla Turchia. Se Ahmadinejad voleva conquistarsi sul campo la laurea honoris causa in scienze politiche concessagli ieri ha fatto, a suo modo, il possibile. Il punto non è l’approccio premoderno alla scienza che, ha ripetuto agli studenti, «non esiste al di fuori di Dio». Di fatto, nella prassi diplomatica, si è comportato come il più navigato dei negoziatori a cominciare dalla duplice telefonata fatta alla vigilia della partenza al re giordano Abdallah e al sovrano saudita Abdullah, irriducibili nemici di ieri buoni oggi a volgere taoisticamente la propria debolezza in forza. «Abbiamo partecipato a un momento storico» nota Ali Fayad, analista e membro dell’ufficio politico di Hezbollah. La preoccupazione israeliana che si percepisce nel movimento dei blindati al di là della frontiera e nelle dichiarazioni del premier Netanyahu sulla nascita d’Israele come «la migliore risposta alle aggressioni verbali» lo galvanizza. Molto meglio la mano tesa verso le altre potenze regionali che sul confine per uno sterile lancio di pietre: «Chi pensava che Ahmadinejad venisse a fomentare le nostre divisioni interne deve ricredersi, pur avendo un rapporto speciale con Hezbollah ha aiutato l’economia firmando 17 contratti a beneficio nazionale e ha anche richiamato tutti i governi dell’area alla compattezza contro il comune nemico israeliano». In Medioriente, chiosa Fayad, non manca certo lo spazio: «Se davvero arriverà il premier turco Erdogan ci troverà qui a dargli il benvenuto perché guardiamo con favore a qualsiasi ruolo turco nella regione». Quanto Ahmadinejad apprezzi l’idea d’una poltrona per due da spartire con Ankara non è difficile immaginarlo. Ma, a giudicare dai toni tutto sommato contenuti di questa sortita libanese l’alternativa al momento sarebbe rimanere in piedi. «L’Iran sarà sempre con voi, fino alla fine» conclude Ahmadinejad, per una volta direttamente in arabo, congedandosi dagli abitanti di Qana, il villaggio pochi chilometri a nord di Bint Jbeil pesantemente colpito dai bombardamenti israeliani nel 1996 e nel 2006. Alle spalle si lascia una coda di aspettative ideali più che materiali lunga quanto la lista dei villaggi sulla frontiera, Iarin, al Boustan, Marwhien, Ramia, la terra del comandante di Hezbollah Imad Mughniyeh ucciso a Damasco nel 2008. Davanti, sulla stessa strada, l’attende non solo il comando di un Iran alla deriva ma il confronto con la Turchia nella sfida per la leadership del mondo arabo e la sentenza che pende sulla testa degli amici di Hezbollah, pronti a dare battaglia in caso di condanna. «Ahmadinejad è il nostro futuro» afferma estatico il trentunenenne disoccupato Khalil guardando la tv e fumando il narghilè sotto la veranda di zinco del chiosco Abu Ali Juni, a Bint Jbeil. E’ proprio questo che preoccupa la studentessa di giurisprudenza Mariam Atiyyah seduta con gli amici alla caffetteria Atlas di Ashrafieh, il quartiere cristiano della Beirut bene: «Se il tribunale condannerà Hezbollah i suoi uomini metteranno a ferro e fuoco la città, c’è da temere una nuova guerra civile». La variabile è se Teheran giocherà in attacco o in difesa, ma di certo non starà in panchina.
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