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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
11.10.2010 Gli Usa chiedono più soldati e istruttori in Afghanistan
Intanto il Pakistan collabora coi talebani. Cronache di Maurizio Molinari, Lao Petrilli, Angelo Aquaro

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Lao Petrilli - Angelo Aquaro
Titolo: «Un nemico invisibile che controlla i villaggi - La 'guerra parallela' del Pakistan l´alleato riluttante che flirta con i ribelli»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/10/2010, a pag. 1-7, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ma Obama ci chiede più istruttori  ", a pag. 5, l'articolo di Lao Petrilli dal titolo " Un nemico invisibile che controlla i villaggi ". Da REPUBBLICA, a pag. 2, l'articolo di Angelo Aquaro dal titolo " La 'guerra parallela' del Pakistan l´alleato riluttante che flirta con i ribelli ".
Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ma Obama ci chiede più istruttori "


Maurizio Molinari

E da incontri riservati con generali italiani al corrente delle operazioni militari Nato. In entrambi i casi gli scenari che vengono descritti passano attraverso la necessità dell’«addestramento di un maggiore numero di truppe afghane» per consentire al governo di Kabul di essere in grado di rispettare l’impegno preso dal presidente Hamid Karzai di assumere i compiti di sicurezza nell’intero Afghanistan a partire dal 2014. Se il presidente Barack Obama prevede l’inizio del passaggio delle consegne della sicurezza agli afghani nell’estate del 2011 e Karzai scommette sulla possibilità di completare il processo nel 2014 nell’arco dei tre anni compresi fra queste date la Nato dovrà essere in grado di addestrare decine di migliaia di soldati e poliziotti. Sono i numeri a descrivere la difficoltà del compito: al momento l’esercito afghano conta 134 mila uomini e la polizia non arriva a 110 mila effettivi mentre l’obiettivo minimo è di arrivare ad un contingente complessivo di 305 mila militari, ben addestrati ed altrettanto armati.
Da qui l’importanza del ruolo italiano perché i 200 istruttori militari che abbiamo sul terreno in Afghanistan hanno svolto finora quell’«ottimo lavoro» che ha già spinto Washington a chiedere di moltiplicarli. Il governo Berlusconi durante l’estate ha fatto sapere al Pentagono di essere pronto a raddoppiarli - portandoli a 400 - ma se David Petraeus, comandante delle truppe americane in Afghanistan, sta arrivando a Roma è perché questi numeri sono insufficienti: ne servono di più. In particolare Washington chiede «istruttori dell’arma dei carabinieri» al fine di preparare i contingenti di polizia afghana a compiti che vanno dalla sorveglianza del territorio alla lotta al narcotraffico fino alle operazioni anti-terrorismo. Le pressioni dell’amministrazione Obama per avere più istruttori sono destinate a mettere alla prova il bilancio della nostra missione e - si apprende in ambienti militari a New York - l’Italia pensa di rispondere inviando addestratori provenienti anche da altre armi, a cominciare dall’esercito. Fra gli scenari finora discussi fra i due alleati c’è anche quello che l’Italia possa scegliere di ridisegnare la composizione della sua missione, ritirando una parte dei reparti combattenti per inviare in sostituzione un consistente numero di addestratori.
Dietro le richieste di Petraeus c’è il lavorìo della Casa Bianca per la preparazione del summit della Nato in programma a Lisbona nella seconda metà di novembre. Si è infatti convinti che incassando ora una consistente disponibilità italiana al rinforzo degli addestratori si aprirà la strada al successo di un vertice destinato a varare una «exit strategy» che prevede il progressivo passaggio del controllo della sicurezza dalla Nato agli afghani - provincia per provincia - sul modello di quanto fatto dagli americani in Iraq. In concreto ciò significa per l’Italia la possibilità di recitare un ruolo da protagonista nella fase di transizione verso il ritiro delle truppe. Proprio come avvenne in Iraq, tuttavia, la fase di transizione verso il ritiro delle truppe è quella che espone le truppe alleate ai maggiori pericoli. La raffica di attacchi lanciati dai taleban nelle ultime settimane mira a sabotare in primo luogo le trattative in corso fra il governo Karzai ed alcuni capi guerriglieri fedeli al mullah Omar disponibili ad un accordo proprio in prospettiva della fine del ritiro del contingente internazionale nel 2014. Senza contare che la rigenerata Al Qaeda, di base nelle aree tribali del Pakistan, è pronta alle gesta più efferate per scongiurare il successo della «exit strategy». In tale cornice la disponibilità italiana ad armare gli aerei che abbiamo in Afghanistan contiene un messaggio politico di affidabilità e risponde ad una necessità tattica dei nostri militari, che però nulla toglie al fatto che la priorità per i comandi atlantici è nella pianificazione di una «exit strategy» imperniata sui carabinieri.

La STAMPA - Lao Petrilli : "  Un nemico invisibile che controlla i villaggi"


Talebani

Sono navigati politici quei taleban che hanno rivendicato via Internet l'attacco dell'altro ieri agli italiani. Qari Muhammad Yousaf ne è il portavoce e, come da prassi consolidata, nel mettere la firma sulla strage degli alpini, ha alterato la realtà, ha esagerato. Così, nella propaganda integralista, l'Italia non ha patito la perdita di 4 uomini ma «di tutti i soldati che si trovavano sui dieci veicoli del convoglio distrutti». È uno sperimentato modo di galvanizzare la truppa, di dare la linea al variegato mondo degli «insurgents», come li chiamano all'ISAF. Una galassia di gruppi, sottogruppi e cellule - anche microscopiche - che si mescolano continuamente nel marasma afghano, anche nelle lande occidentali dove opera il contingente italiano. Un mondo con equilibri e dinamiche che possono differire a seconda del momento, dei clan, delle zone, ma che si compatta quando si tratta di seguire le strategie di fondo.
Ora, se c'è un «ministero» cruciale nel governo ombra taleban, senza dubbio è quello delle comunicazioni. E il suo messaggio è questo: «Stiamo vincendo». Gli uomini sul campo diffondono il verbo così capillarmente che è praticamente impossibile convincere la popolazione del contrario. La terrorizzano, a volte, con le famigerate «night letters», minacce spedite ai capi villaggio visti in compagnia di stranieri. Ma sempre più spesso è un'opera di persuasione quella che passa per le moschee o raggiunge gli afghani che vivono isolati nelle zone più sperdute col semplice passaparola: «Loro se ne andranno via, meglio schierarsi con noi», con l'Emirato Islamico dell'Afghanistan, di cui esiste un logo riconosciuto e stampato sulle carte che i taleban fanno circolare.
I beni che servono alla loro guerra e alla loro sopravvivenza vengono chiesti più che estorti, come si evince dal documento riprodotto qui sotto: vi si ammonisce che la Jihad è un dovere per i musulmani, che sono dunque pregati di aiutare i mujaheddin con denaro, bestiame e raccolti. E di consigliare ed eventualmente denunciare chi intrattiene rapporti col nemico. Quanto al programma di riconciliazione: non va, nonostante gli sforzi. Diversi leader locali fanno sapere di voler deporre le armi, ma poi la trattativa si arena, come quella sulla resa di 200 guerriglieri di vario livello della quale si è parlato per mesi a Herat. Quando non si negozia, certo, si passa all'azione. E senza aspettare un attacco.
Da una decina di giorni sono state intensificate le operazioni delle forze speciali nella provincia di Badghis, dove si trova la nota località di Bala Mourghab, una delle aree più difficili dell'Afghanistan occidentale. Gli americani hanno ucciso in sequenza due capi taleban: il mullah Ismail e, ieri (ma alcune buone fonti sostengono che l’episodio sia precedente) il suo naturale successore, il mullah Jamaluddin. Almeno altri 5 pezzi grossi erano stati eliminati nel blitz della Task Force 45 in cui - era il 2 ottobre - rimasero feriti un Ranger del Montecervino e un incursore del Comsubin della Marina.
Più fonti sostengono che «in Afghanistan tutti sono comprabili», ma qui si parla di irriducibili, come possono essere il mullah Rauf, ritenuto il governatore ombra della provincia di Herat, con quartier generale (però ambulante) nel distretto di Kushk, sopra Injil. O il mullah Abdul Manan, uno dei boss dell'area di Farah, teatro dell'attacco di ieri agli alpini. A dir poco singolare la sua storia. Capo della polizia locale nell'era dei taleban al potere, fu arrestato dai militari statunitensi poco dopo la loro invasione per poi essere rilasciato durante uno scambio di prigionieri tenuto segreto che avrebbe salvato alcuni operatori umanitari sequestra. Pare che da quel giorno si sia più volte messo personalmente alla testa dei suoi operativi, gente dedita a imboscate e assalti d'ogni tipo. Altri nomi pericolosi della zona sono certamente quelli del mullah Baz Mohammed, del mullah Sirajuddin, del mullah Abdul Hakim, del mullah Abdul Ghani, re dei traffici degli esplosivi e delle armi. E poi c'è il mullah Rasool, che sarebbe dal marzo dell'anno scorso il governatore ombra di Farah, avendo prevalso in una faida che ha visto avvicendarsi diversi leader, fra i quali Mowlavi Abdul Raman, una figura preminente fra i taleban dell'area, e il già citato Baz Mohammed. A Rasool non importa di essere impopolare a Bakwa, sua città natale dalla quale manca da anni. A sceglierlo è stata la Shura di Quetta, in Pakistan. Da dove si tirano i fili di tutta la guerra d'Afghanistan. Anche quella agli italiani.

La REPUBBLICA - Angelo Aquaro : " La 'guerra parallela' del Pakistan l´alleato riluttante che flirta con i ribelli "


Pakistan

Il soldato Lee Williams aveva dieci anni quando il cielo sopra New York si colorò di fumo e di morte: «Cominciai a correre con mia madre e non ci fermammo più». La televisione Abc è andata a cercare le storie dei bambini di allora adesso che la guerra contro i Taliban (7 ottobre 2001) è entrata nel decimo anno. Ma per quanto tempo ancora il soldato Williams sarà costretto a correre per le valli d´Afghanistan?
Prendete la decisione pachistana di riaprire, ieri, il confine del Khyber Pass. La rappresaglia era cominciata il 30 settembre per protestare contro il blitz della Nato che aveva fatto tre morti in territorio pachistano. Gli alleati hanno dovuto scusarsi. Ma intanto il blocco ha costretto i convogli della Nato a restare imbottigliati. Per la gioia dei Taliban che hanno potuto attaccarli e incendiarli.
La storia del passo è l´ultima prova che Islamabad - ufficialmente alleato Usa e prezzolato dal Congresso - sta conducendo una guerra parallela. Che non ha nulla a che vedere con quella contro i Taliban. Anzi. «Gli obiettivi di Usa e Pakistan in Afghanistan» dice al New York Times Shujia Navaz dell´Atlantic Council «non sono congruenti».
A che guerra giochiamo? Da un lato i servizi pachistani sono decisivi nella scoperta del plot stile Mumbai con cui Al Qaeda vuole far ripiombare l´Europa nel terrore. Dall´altro, dice il Grande Capo David Petraeus, sempre alcuni "leader pachistani" hanno "contatti" con quell´"Haqqani network" che è la fazione dei talebani pachistani vicina ad Al Qaeda. Ma perché proprio loro? Aiuterà scoprire che Sirajuddin Haqqani è l´uomo che tra mille misfatti ha firmato anche l´attacco all´ambasciata indiana di Kabul. E che c´è sempre lui dietro la radicalizzazione dei Ttp: i Taliban del Punjab responsabili dei numerosi attacchi contro l´India. Eccoli gli interessi "non congruenti" di America e Pakistan. Gli Usa, prima o poi, andranno via. E per Kabul ci sarà un´alternativa sola: ricadere nelle mani dei Taliban o nell´influenza dell´India. Indovinate un po´ che cosa preferiscono i pachistani.
Come se ne esce? L´ipotesi numero uno si spiega con quadro: il preferito da Petraeus. "The Stampede" è uno dei capolavori di Frederic Remington e mostra un cowboy che sotto il diluvio riporta a casa la mandria in fuga. L´immagine, spiega il generalissimo, richiama sì una situazione di caos: ma non vedete come il cowboy galoppa sicuro nella tempesta? Peccato che la dottrina Petraeus preveda anche più perdite. «Guardate all´Iraq: la primavera del 2007 è stata il periodo più sanguinoso. Ma con quel sacrificio siamo riusciti a venirne fuori». Tra un mese a Lisbona gli alleati Nato si vedranno chiedere dagli Usa nuove truppe. E a dicembre Obama proporrà «piccoli aggiustamenti» al piano. I repubblicani ringalluzziti dalle elezioni accontenteranno i generali: e dell´inizio del ritiro - che Barack voleva l´estate prossima - non se ne parlerà più.
Ma c´è anche un´altra ipotesi che si sta rafforzando negli ultimi tempi. Ed è quella del dialogo tra Hamid Karzai e i Taliban. Perché certo che sono dei terroristi: ma rappresentano il 50 per cento della popolazione. La guerra d´Afghanistan ormai è guerra civile che può finire soltanto con un accordo: in fondo anche in Iraq Al Maliqui sta per formare un governo alleandosi con quell´Al Sadr le cui milizie facevano guerra agli yankees. Il dialogo con i Taliban, poi, sarebbe benedetto anche dai pachistani: oggi costretti nel ruolo di alleati riluttanti. Certo è un quadro più opaco di quello che piace a Petraues: nessun cowboy brilla nella tempesta. Ma duemila morti dopo - e cento miliardi di dollari all´anno - forse è l´unica strada per tirar fuori da quel pontano il soldato Williams.

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