Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Colpire duro e trattare, la strategia americana a Kabul L'analisi di Davide Frattini
Testata: Corriere della Sera Data: 10 ottobre 2010 Pagina: 6 Autore: Davide Frattini Titolo: «Colpire duro e trattare, la strategia per andare via»
"Alpini altruisti e coraggiosi", titola il CORRIERE della SERA di oggi, 10/10/2010, unico fra i giornalonia non avere scelto "strage di italiani", come hanno fatto gran parte dei quotidiani (con le solite, benemerite eccezioni). Citiamo, ma ci accontentiamo del titolo, "Ritirarsi subito", l'editoriale di apertura del MANIFESTO, toh, guarda un po' la firma, Giuliana Sgrena, No comment. Riprendiamo invece dal Corriere l'analisi di Davide Frattini, dal titolo " Colpire duro e trattare, la strategia per andare via", un rapporto della squadra americana che studia le mosse future a Kabul. Ecco il pezzo:
I professori della Squadra Rossa convivono in una base laboratorio a Kabul. «Ribelli della conoscenza» è la carica autoassegnata, i gradi sono quelli della gerarchia militare. Il tenente colonnello Brian Hammerness deve spronare i suoi uomini a pensare fuori da quella scatola sempre più angusta che sta diventando la guerra afghana. Come verrà passato il controllo delle province . C’è bisogno di idee nuove e i cinque del pensatoio le vanno a dissotterrare dal passato recente del Paese. Il loro primo rapporto studia come i talebani abbiano conquistato il potere all’inizio degli anni Novanta, come un gruppo di studenti pii e barbuti sia riuscito a estendere l’influenza dalle province del Sud, a maggioranza pashtun, fino alla presa di Kabul nel 1996. «I fondamentalisti hanno sfruttato la rabbia contro gli eccessi dei signori della guerra e hanno rimpiazzato il governo, fornendo i servizi e costruendo una rete di contatti locali», spiega il capitano Jeffrey Mars. Conclusione: così devono muoversi anche gli americani e gli alleati. La dottrina di contro-insorgenza del generale David Petraeus e del predecessore Stanley McChrystal segue questa strategia. Che si dispiega lenta e richiede tempo, come avverte il sergente Steven Dietz, riservista dell’esercito e docente all’università del Texas: «E’ elementare. Non è possibile passare in una notte da un sistema feudale a una democrazia partecipativa, senza le tappe intermedie: industrializzazione, crescita della classe media... Non succederà solo perché noi vogliamo che succeda». Gli intellettuali-soldati chiedono pazienza a una Casa Bianca che è ormai inquieta quanto le quarantasette nazioni della coalizione, stringe i tempi e gli incontri. Fra una settimana a Roma, si riuniscono gli inviati speciali per la regione, ci saranno anche Petraeus e Zalmai Rassoul, il ministro degli Esteri afghano. A novembre, la Nato si ritrova a Lisbona (e si discuterà di truppe, il generale americano potrebbe chiedere un altro sforzo). A dicembre, il presidente Barack Obama dovrà valutare i progressi (o gli arretramenti) da quando ha concesso ai suoi comandanti trentamila soldati in più. «I militari stanno già esercitando pressioni per ottenere altri dodici-diciotto mesi rispetto a quel luglio 2011, fissato per l’inizio del ritiro», scrive l’analista pachistano Ahmed Rashid sul Financial Times. «Potrebbe essere troppo da mandar giù per il Congresso americano e per la maggior parte dei Paesi impegnati nel conflitto». Thomas E. Donilon, il neo-nominato consigliere per la sicurezza nazionale, è un civile che prende il posto di un generale, James L. Jones. Ed è un civile che ha sempre contrastato le richieste dei generali, come racconta Obama’s War, il nuovo libro di Bob Woodward. Donilon era contrario al «surge» di truppe e ha avvertito il presidente di non infilarsi in una «guerra senza fine». Il piano Petraeus si formula in quattro parole: ripulire, tenere, costruire, trasferire. L’ultima è la più importante — fa notare Rashid — perché presuppone che il controllo, la sicurezza e l’amministrazione vengano lasciati città dopo città agli afghani. Sul calendario di questa transizione, si stanno già fronteggiando i diplomatici occidentali. Gli americani preferirebbero il pacchetto unico: se e quando il governo di Kabul sarà pronto (il presidente Hamid Karzai promette nel 2014), il controllo viene trasferito in blocco. Gli europei vorrebbero un passaggio graduale. L’obiettivo è evidente: l’area sotto il mio comando è stabilizzata, i miei soldati possono tornare a casa. Dei tempi della transizione ha parlato Ignazio La Russa, il ministro della Difesa, con Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato, una ventina di giorni fa a Roma. La mappa delle aree sicure è però instabile. La pressione a sud, nella zona di Kandahar, ha spinto i talebani verso nord (sotto controllo dei tedeschi) e ovest (dove c’è il comando italiano). L’offensiva nella roccaforte dei fondamentalisti (qui è nato il movimento, il mullah Omar predicava in una moschea di fango a una ventina di chilometri dalla città) non sembra dare i risultati promessi dagli strateghi. Hamid Karzai la lasciato ieri il palazzo di Kabul per volare nella valle dell’Arghandab, il serpente verde dove si stanno affrontando gli integralisti e i soldati della 101ª Divisione. La testa del rettile — per gli americani — è Kandahar. Dalla supremazia nei suoi quartieri — ripetono — passa il destino della guerra. Il presidente ha parlato a duecento boss tribali, la prima visita (e il primo segno di supporto ufficiale) da quando è stata avviata l’operazione Dragon Strike. Li ha esortati «a proteggere i villaggi, a bloccare le infiltrazioni»: «Dopo questi interventi della Nato sarà vostro dovere garantire la sicurezza». E’ in questa regione che le forze speciali americane stanno organizzando le milizie locali (volute da Petraeus e mal tollerate da Karzai), un tentativo di rafforzare il traballante esercito nazionale. Anche il leader afghano si prepara al dopo ritiro e ha intensificato i contatti con i capi talebani per cercare una via d’uscita politica al conflitto. L’Alto consiglio per la pace (sessanta uomini, otto donne più due ancora da indicare) è stato appena nominato e incarna il mandato presidenziale di riconciliare il Paese. «A meno che non voglia restare altri cinque-dieci anni in Afghanistan, l’Occidente deve accettare e promuovere i negoziati con i fondamentalisti — continua Rashid —. In dicembre, Obama non ascolti i consiglieri militari e basi le decisioni sui fatti e sulla realtà di quello che sta succedendo, non su speranze e obiettivi irraggiungibili». La via delle trattative passa dai sauditi (gli unici ad aver l’influenza economica e religiosa necessaria a convincere i talebani), quella per la stabilità futura dal Pakistan, dall’India, dalla Cina, dall’Iran. «Dobbiamo ridurre la presenza militare — scrive in un rapporto controverso l’Afghanistan Study Group — perché radicalizza l’etnia pasthun e favorisce il reclutamento da parte dei fondamentalisti. Gli sforzi diplomatici devono coinvolgere gli Stati vicini, anche avversari tra loro, e convincerli a lavorare per evitare il caos». Il dossier prova a sfatare gli undici «miti» sul conflitto. Al numero 1: «Gli Stati Uniti possono permettersi di rimanere tutto il tempo necessario a vincere». La risposta: «La nostra sicurezza nazionale dipende dalla nostra forza economica. L’impegno a Kabul distrae le risorse finanziarie e quelle dei nostri leader». Al numero 2: «L’amministrazione Obama ha una strategia chiara e una via d’uscita dalla guerra». La risposta: «La strategia non funziona. La Casa Bianca sta cercando di realizzare le circostanze minime che permettano un ritiro». Al numero 6: «Se ce ne andiamo, Al Qaeda sarà in grado di rafforzarsi e attaccare di nuovo gli Stati Uniti». Una delle ragioni più forti proclamate da George Bush prima e da Obama adesso. La risposta: «I soldi risparmiati con il ritiro vanno investiti nella sicurezza interna e nelle missioni delle forze speciali per impedire un attentato degli estremisti». La guerra che non finisce sta già costando agli americani 100 miliardi di dollari l’anno.
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