Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Con il referendum la Turchia s'è avvicinata all'Iran, non all'Europa Commenti di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti, Luigi De Biase
Testata:Il Giornale - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Giulio Meotti - Luigi De Biase Titolo: «La Turchia s’avvicina all’Iran, non all’Europa - Secolarismo turco - L’epoca Erdogan»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 14/09/2010, a pag. 14, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La Turchia s’avvicina all’Iran, non all’Europa ". Dal FOGLIO, a pag. 1-II, gli articoli di Giulio Meotti e Luigi De Biase titolati " Secolarismo turco " e " L’epoca Erdogan ". Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La Turchia s’avvicina all’Iran, non all’Europa "
Fiamma Nirenstein
Il nominalismo dell’attuale percezione internazionale di ciò che è buono e giusto è davvero formidabile. Sembra un diritto umano al Consiglio d’Europa l’uso del burqa, appare indispensabile ai liberal americani, compreso il presidente, costruire una moschea a Ground Zero, appare quasi irrinunciabile iscrivere all’islam moderato personaggi palesemente intenti a stabile il califfato universale, come Tarik Ramadan. Adesso è la volta di lodare il risultato del referendum turco, come destinato a condurre per mano in Europa il Paese di Kemal Atatürk, ed è infatti l’Ue la più dedita ad applaudire la vittoria. Peccato che si possa dire che il referendum appena conclusosi segna la fine del kemalismo, e dà il benvenuto istituzionale non a una Turchia più laica e democratica, ma all’erdoganismo avanzante.
Anni fa, da inviata, cercai di capire che cosa era la Turchia e se era pronta a entrare in Europa come chiedeva: incontrai la migliore borghesia turca in un lungo viaggio per il Paese, professionisti colti ed eleganti, donne raffinate. Ma una volta tornata a Istanbul nel «giorno del korban», il sacrificio di pecore agnelli e mucche nelle strade della città, trovai uno spettacolo in così estrema contrapposizione con ciò che avevo visto fino a quel giorno da sconcertarmi completamente. L’islam più antico occupava e tingeva di rosso le piazze e le moschee, abaragliava sul campo della modernizzazione.
Gli articoli della Costituzione che sono stati aboliti sono quelli che consentivano al militare e al giudiziario di avere un potere inconsueto in una democrazia. Ma inconsueto era anche stato il passato dell’Impero Ottomano, straordinario il suo senso di sé, e grande la rivoluzione con cui Atatürk aveva sorretto sul filo dell’impossibile una società che aveva abolito la scrittura araba, il capo coperto, la discriminazione sessuale e il canto dei muezzin. La Turchia ce l’ha fatta a conservarsi laica e filoccidentale con uno sforzo che è stato spesso anche caratterizzato da azioni di prepotenza e da violazioni di diritti umani. È stato un male? Certamente è stata inflitta sofferenza, ma l’atteggiamento dei militari e dei giudici non è stato mosso da interessi personali, elettorali, economici.
Contro il potere laico è sorto il perenne vincitore Erdogan. Non c’è dubbio che il suo cavallo di battaglia sia stato l’islam, le accuse e l’arresto dei militari, l’adozione di una politica mediorientale che lo hanno portato fino a votare contro le sanzioni all’Iran. La sua retorica anti-israeliana ha raggiunto e promosso nel Paese punte spaventevoli. Gli Stati Uniti hanno bloccato la nomina di Francis Ricciardone alla carica di ambasciatore ad Ankara perché ritenuto «troppo morbido per avere a che fare con l’attuale governo».
Capace in politica economica, la Turchia ha promosso incontri in serie e firmato accordi con i peggiori dittatori mediorientali. Il presidente siriano Bashar Assad ha proposto proprio ieri, per festeggiare la vittoria del suo alleato, che la Turchia riprenda il suo ruolo di mediazione con Israele; il ministro degli esteri Davutoglu ha incontrato a metà luglio il leader di Hamas, Khaled Mashal; la simpatia per Ahmadinejad non è un segreto. Ed è notizia recente che l’intelligence turca e la Guardia rivoluzionaria iraniana avrebbero firmato un accordo per assistere Hezbollah nel ricevere armi.
L’atteggiamento antisraeliano, culminato nella vicenda della flottiglia diretta a Gaza, è stato uno strumento di propaganda popolare fantastico per Erdogan: più che la sua politica di modernizzazione, che ancora si deve misurare, sono state le sue urla contro Shimon Peres a Davos e il film alla tv di stato in cui i soldati israeliani uccidevano innocenti bambini palestinesi che hanno riportato un senso di appartenenza militante islamica, la percezione di essere al centro di un mondo che in questi anni ha sofferto sotto il tallone liberale e laico.
Difficile dunque, anche se è bello sperarlo, immaginare che questa vittoria porti la Turchia in Europa, piuttosto che nell’orbita del nuovo polo strategico ispirato da Teheran. www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Secolarismo turco "
Giulio Meotti
Roma. Alimentando le peggiori paure della Turchia laica, domenica il primo ministro Tayyip Erdogan ha confermato che inizierà subito a lavorare a una nuova Costituzione. Dopo il successo del referendum che ha modificato la magistratura di Ankara, ultimo baluardo dell’ideologia kemalista, Erdogan adesso vuole riprendere il progetto di una nuova carta costituzionale abbandonato nel 2008. A guidarlo sarà un luminare del diritto in Turchia, Ergun Ozbudun, teorico della nuova “laiknik”, la laicità turca. Si chiama “secolarismo passivo” e la dottrina Ozbudun prevede uno spazio pubblico in cui c’è concorrenza fra i simboli religiosi. L’attuale Costituzione turca è stata redatta nel 1982, dopo l’ultimo colpo di stato dei militari per ostacolare la progressione dell’islam politico in Turchia. Nel 2007, il primo ministro Erdogan promise una nuova Costituzione, ma l’opposizione laica e nazionalista lo costrinse a tornare sui suoi passi e a immaginare di emendare quella esistente. Ci riprovò nel 2008, proponendo un ambizioso disegno costituzionale che dovette subito ritirare a causa dell’opposizione laica (e della Corte costituzionale turca) che portò l’Akp (il partito al governo) sull’orlo della messa al bando. Il mondo laico denuncia l’Akp di voler strumentalizzare i criteri democratici europei per giustificare l’abolizione dei principi kemalisti iscritti nella Costituzione del 1982. Ozbudun è un grande sostenitore dell’eliminazione della messa al bando del velo islamico. La particolarità di Ozbudun è che usa un linguaggio puramente laico: “In Europa la magistratura protegge i diritti individuali. In Turchia, è il guardiano dello stato”, ha scritto Ozbudun, autore di dieci libri. Il giurista chiede la modifica dell’art. 10, che parla di azioni tese al rafforzamento della parità e dell’uguaglianza tra i sessi davanti alla legge. Una mossa che i kemalisti leggono come una misura tesa a eliminare il divieto sul velo nelle università, un grande tema nell’agenda dell’Akp. Ozbudun da parte sua non ha scheletri islamisti nell’armadio: nel 2001 fu lui a rappresentare la Turchia alla Corte europea dei diritti dell’uomo a favore della messa al bando del Refah, antenato del Partito della giustizia e dello sviluppo attualmente al potere ad Ankara. La bibbia di Erdogan sulla nuova Costituzione è il libro di Ozbudun, “Islamism, Democracy and Liberalism”. La tesi centrale è il bisogno di un “secolarismo passivo” e non autoritario come quello di Atatürk. E’ la differenza, dice Ozbudun, fra “laïcité de combat” e “laïcité plurielle” in Francia. E’ la via turca alla separazione di stato e chiesa: “Distanza dello stato da ogni religione”, dice Ozbudun. Il tema del türban (velo) Ozbudun lo formula in nome della “libertà individuale” e del “diritto alla differenza” e non in quello della sharia. Nel 1982, l’Università di Istanbul vietò per la prima volta le lezioni alle studentesse velate. Da allora, l’uso del türban non ha mai smesso di accendere polemiche. Il 14 aprile del 2007, quasi in una atmosfera di guerra civile, un milione e mezzo di manifestanti laici – 150.000 secondo gli scettici – fra antislamici, kemalisti, femministi o pro militari, hanno sfilato ad Ankara gridando “gli ayatollah e i mullah vadano in Iran”. Il problema, secondo gli oppositori delle riforme di Erdogan, è che la teoria liberale di Ozbudun sarà il grande cuneo per la reislamizzazione dell’intera società turca e sarà usata dai seguaci del turbante, della poligamia e dalla pena dell’adulterio. O, come insinua Omer Tarkan, ex diplomatico oggi editorialista del sinistrorso Radical, “un cavallo di Troia per riportare nel sistema politico le forze islamiche”. Accademico di fama internazionale con cattedre a Princeton e alla Sorbona, Ozbudun per scrivere la Costituzione si è scelto soltanto giuristi non conservatori, come Levent Koker, Serap Yazici e Zuhtu Arslan. Se Erdogan decidesse davvero di proporre una nuova Costituzione, sarebbe la prima Carta civile della Turchia, dopo quella varata dai militari. La Carta scritta da Ozbudun nel 2008 era composta da 137 articoli e si apriva così: “Questa Costituzione garantisce diritti universali ed è stata adottata dalla libera volontà della nazione turca come simbolo di devozione all’obiettivo di una civiltà moderna e fondata da Mustafa Kemal Atatürk”. Fra le novità che sarebbero introdotte nella Costituzione di Ozbudun si parla di un rafforzamento dell’immunità per il presidente, di garanzie costituzionali ai curdi, della libertà di portare il velo a scuola, della ridefinizione della “Turkishness” (l’identità turca) in senso non nazionalistico e di una maggiore indipendenza agli organi giudiziari. La “turkishness” è la dottrina del famigerato articolo 301 del codice penale turco, quello che condanna le offese alla “turchicità” e che in passato è servito per esercitare un’occhiuta censura sugli scrittori e gli intellettuali.
Il FOGLIO - Luigi De Biase : " L’epoca Erdogan "
Luigi De Biase
Roma. Il risultato ottenuto da Recep Tayyip Erdogan al referendum di domenica vale più di un successo elettorale. Venticinque milioni di turchi hanno sostenuto il suo piano di riforme e l’agenda del governo. Questa vittoria garantisce al premier una chance decisiva: può cambiare la Costituzione, lasciando il proprio marchio sull’ordinamento del paese. E’ dai tempi di Mustafa Kemal, il padre della patria, che un politico non ha tanto potere in Turchia. Erdogan, 56 anni, guida il partito Giustizia e progresso (Akp), un movimento di ispirazione filoislamica forte nella parte orientale del paese, quella più povera e più religiosa. L’Akp ha una maggioranza solida in Parlamento, controlla le città più importanti dell’Anatolia e ha vinto le quattro elezioni che si sono tenute negli ultimi otto anni. La maggior parte degli analisti pensa che la tendenza sarà confermata alle politiche del prossimo anno. Per questo, nei circoli di Istanbul, si comincia a parlare di “epoca Erdogan”: è come se la Turchia capisse di essere entrata in una fase nuova dopo settant’anni di kemalismo. Questa prospettiva solleva dubbi e sospetti: nessuno può dire con certezza come saranno i turchi di domani. La stampa è divisa in tre blocchi, dice il quotidiano Hurriyet. Ci sono testate “cheerleader”, in festa per il successo del premier, ci sono i neutrali e ci sono gli incazzati, che prevedono un futuro da regime islamico. Il referendum è stato votato dal 77 per cento dei turchi. Sei su dieci hanno scelto la proposta di Erdogan. Il grosso della riforma riguarda l’esercito e la magistratura, due pilastri della dottrina scritta da Kemal per mantenere il paese “laico”. Il governo aumenterà il controllo sulla Corte costituzionale e sulla Corte suprema, i militari saranno giudicati dai tribunali civili. L’Unione europea ha salutato con entusiasmo l’esito del voto. Per il commissario all’Allargamento, Stefan Füle, le riforme “sono un passo nella giusta direzione”, e la direzione è l’ingresso nell’Ue, un percorso che potrebbe cominciare ufficialmente nel 2015. Anche il presidente americano, Barack Obama, ha chiamato al telefono Erdogan e si è congratulato per il successo: “La democrazia turca è vibrante”, ha detto. Non sono le riforme, ma i riformisti, che alimentano le perplessità sulla nuova stagione di Istanbul. Erdogan è l’erede di una dinastia politica che ha avuto qualche fortuna e tanti guai. Uno dei suoi maestri, Necmettin Erbakan, è stato costretto a lasciare la politica nel 1997, all’apice della carriera, per evitare il carcere. Il leader dell’Akp ha corso lo stesso pericolo due anni fa, quando un tribunale di Ankara lo ha processato con l’accusa di attività sovversive. Accanto a lui c’erano il presidente della Repubblica, Abdullah Gül, e decine di ufficiali del partito. Da allora, la sua strategia è diventata più aggressiva: ha dato impulso alle riforme, ha mostrato favore per le inchieste contro i golpe di vecchi generali, ha tolto potere alle famiglie di Istanbul per lanciare gli imprenditori islamici dell’Anatolia. Con questa dottrina, il paese cresce al ritmo del dieci per cento ogni anno e trova nuovi partner sia in occidente, sia in oriente. Per gli investitori stranieri, la Turchia è diventata in fretta una delle piazze d’affari migliori al mondo. Il successo di domenica ha un significato particolare. Prova che i turchi non sostengono semplicemente il governo, ma si aspettano una svolta culturale. Nel corso degli anni, il kemalismo è diventato una religione di stato, un sistema che ha escluso una parte del paese dallo sviluppo. Questo fallimento ha trasformato un leader conservatore e filoislamico come Erdogan nel paladino del riformismo turco e dei cittadini più deboli, come spiega la distribuzione dell’ultimo voto. Il partito del “no”, quello che ha cercato di impedire la riforma, ha vinto a Istanbul, a Izmir, Antalya e Mersin, i centri più ricchi, quelli che hanno sempre ricevuto sostegno e denaro dalle élite kemaliste. Il resto ha i colori dell’Akp. Erdogan ha puntato sulla Turchia profonda, ha convinto le città dell’Anatolia alla rivolta, ha reso dignità all’enorme periferia della nazione. La sua scommessa è vinta: la Turchia lo ha ripagato con una fiducia clamorosa. C’è un particolare che rende il successo ancora più grande. Erdogan ha portato la riforma sui banchi del Parlamento in primavera, ma alcuni deputati dell’Akp hanno impedito che ottenesse la maggioranza qualificata, il requisito necessario per diventare legge. L’esito del referendum è stato ugualmente schiacciante, e questo significa che le proposte del premier raccolgono sulle strade ancora più consensi che nel partito. Ora Erdogan ha un compito difficile: deve convincere il paese – e gli alleati internazionali – che il suo riformismo non è uno strumento per togliere il potere ai rivali. Se sbaglierà, gli sforzi compiuti per superare il kemalismo saranno stati inutili.
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