Il Foglio- " Un botto svela l'arsenale che Hezbollah prepara contro Israele "

Hassan Nasrallah
Beirut. Uno scantinato nel sud del Libano salta in aria ed è subito circondato dai miliziani in borghese di Hezbollah. E’ accaduto venerdì nel villaggio di Shehabiyeh, 15 chilometri da Tiro. A Beirut, fonti del governo rivelano che è esploso un deposito di munizioni e granate anticarro. Da Gerusalemme denunciano che 15mila razzi sono stati nascosti lungo la frontiera per colpire Haifa e le altre città della costa israeliana. Secondo Hezbollah si è trattato di un generatore che ha preso fuoco, ma l’esplosione di venerdì ha fatto fuggire gli abitanti di una palazzina di tre piani. All’inizio, alcuni civili con walkie talkie e barbette islamiche hanno creato un cordone di sicurezza. Erano i miliziani in borghese onnipresenti nel Libano meridionale. I giornalisti sono stati allontanati e i loro filmati sequestrati. Poi è arrivato sul posto il generale Giuseppenicola Tota, comandante del settore ovest della missione Unifil e del contingente di 1600 caschi blu italiani. “Tota ha visto lo scantinato con le pareti annerite, ma prima di giungere a conclusioni bisognerà aspettare il rapporto di una squadra specializzata di caschi blu che sta investigando con i militari dell’esercito libanese”, spiega al Foglio il tenente colonnello Francesco Tirino, portavoce del contingente italiano. Non è la prima volta che un deposito nascosto di Hezbollah salta in aria a sud del fiume Litani. Un altro arsenale è andato in cenere vicino a Khirbet Silim nell’ottobre 2009, quando un razzo è esploso in un garage di Tayr Felsay. La portavoce dell’esercito israeliano, Avital Leibovich, ha confermato che l’esplosione di venerdì è legata al Partito di Dio, come dimostrano alcune immagini riprese dai droni di Tsahal. Secondo Leibovich, i miliziani sciiti mantengono almeno 160 arsenali nascosti nel Libano meridionale, una palese violazione rispetto alle risoluzioni approvate dall’Onu dopo la guerra del 2006. Alcuni analisti ritengono che i razzi a disposizione di Hezbollah siano molti di più rispetto ai 15 mila messi in conto dall’esercito israeliano. Si parla di 40 mila razzi, in parte dislocati in Siria, che potrebbero essere usati in un ipotetico (ma non impossibile) scontro con Israele. L’arsenale comprenderebbe anche gli M600, che hanno una gittata di 250 chilometri. “Hezbollah possiede il quadruplo di missili che aveva nel 2006 – denuncia l’ambasciatore israeliano alla Nato, Michael Oren – Tutte le città israeliane sono nel loro raggio d’azione, comprese quelle più meridionali, come Eilat”. Gli sciiti in armi potrebbero lanciare ottocento missili al giorno in caso di conflitto. “I loro arsenali sono nascosti nelle case dei civili, negli ospedali e nelle scuole – spiega Oren – Se li colpiremo per difenderci, ci accuseranno di crimini di guerra”. Un altro pericolo sono i tunnel scavati al confine, che possono essere usati dai commando di Hezbollah per rapire soldati israeliani, piazzare trappole esplosive o asserragliarsi in qualche villaggio ebraico. Il comandante degli sciiti in armi del fronte meridionale ha confermato che Hezbollah ha una lista di obiettivi da colpire in Israele. A Beirut, le forze di sicurezza sono in strada dagli scontri di fine agosto tra i miliziani sunniti ed Hezbollah. Il primo ministro, Rafik Hariri, ha lanciato la proposta di una capitale “libera” dalle armi dei miliziani. La situazione potrebbe aggravarsi con il nuovo rapporto sull’assassinio del padre di Hariri, l’ex premier Saad, ucciso nel 2005. In passato, Rafik ha attribuito le responsabilità dell’uccisione alla Siria e a Hezbollah, ma ieri ha ritrattato. Anche l’Onu accusa Hezbollah, ma il leader del movimento, Hasan Nasrallah, ribatte che si tratta di una macchinazione di Israele e che non consegnerà mai i suoi uomini alle Nazioni Unite.
Il Foglio- Giorgio Israel: " I nuovi dirigenti palestinesi devono accettare il principio di realtà "


Salam Fayyad Abu Mazen
Se i negoziati tra israeliani e palestinesi che si sono aperti negli Stati Uniti vedono ancora di fronte volti non nuovi – Netanyahu da una parte, Abu Mazen e Saeb Erekat dall’altra – è stato spiegato con molta efficacia da Ariel David sul Foglio del 2 settembre che qualcosa di nuovo si è mosso sul fronte palestinese (l’articolo di David è disponibile sul sito del giornale). Questa novità si concentra attorno alla persona del premier dell’Anp, Salam Fayyad. Non è semplice soppesarne le speranze di successo e tuttavia è possibile indicare gli elementi a favore e gli ostacoli da superare. Tra gli elementi a favore non sembra che si debba troppo insistere sul decollo dell’economia palestinese, con una crescita del sette per cento del prodotto interno lordo, in cui può aver giocato la competenza di Fayyad acquisita nella Banca mondiale, ma anche la poderosa entità degli aiuti esteri. Già nel passato, dopo gli accordi di Oslo, si è puntato con tutte le forze sul versante economico, con scarso successo. Checché ne dicano i pragmatisti, la valutazione dei vantaggi del benessere materiale dipende da fattori di carattere ideale o ideologico. Piuttosto, l’elemento nuovo e potenzialmente assai positivo è riassunto nella definizione che Shimon Peres ha dato di Sayyad come il “David Ben Gurion palestinese”. La definizione allude alla scelta cruciale fatta da Ben Gurion di disarmare i gruppi armati ebraici, in un momento in cui l’esistenza del nuovo stato di Israele era appesa a un filo: un atto quasi temerario ma assolutamente necessario perché uno stato esiste in quanto unico detentore del potere di usare la forza. Israele poteva essere distrutto da un attacco esterno, ma non sarebbe neppure nato, o si sarebbe dissolto da sé, se Ben Gurion non avesse compiuto quell’atto. Del resto, la nascita di tutti gli stati porta il segno di una scelta di quel tipo: lo stato unitario italiano ha avuto molti momenti fondativi, tra cui anche il proiettile sparato in una gamba di Garibaldi sull’Aspromonte. Pertanto, se Sayyad ha deciso di imporre la legalità con la polizia dell’Anp, ha fatto l’unica scelta possibile per stabilire le basi di un futuro stato palestinese e legittimarne l’esistenza. Il fatto che questo venga fatto senza precondizioni, rovescia decenni di politica arafattiana e rende possibile la nascita di un clima di fiducia. Naturalmente, resta aperta la domanda: imporre una legalità con la forza di un’autorità centrale, per fare che? Domanda legittima, visto che nessuno ha mai cancellato dallo statuto di Fatah l’obbiettivo della distruzione di Israele e che ancora il 10 agosto scorso Abu Mazen ha dichiarato in un’intervista che “i palestinesi non riconosceranno mai Israele come stato ebraico”. A ciò si aggiunge il fatto che negli ultimi tempi l’atteggiamento di Fayyad pare subire una certa radicalizzazione. Forse non serve a molto porsi domande che non trovano una risposta chiara: si potrebbe replicare che certi discorsi sono fatti strumentalmente, per evitare l’accusa di servilismo nei confronti di Israele. La misura della novità sarà data sia dall’atteggiamento che verrà assunto durante la trattativa, sia – e soprattutto – dal grado di consenso che avrà nella popolazione palestinese una politica volta a stabilire le basi di uno stato il cui fine sia la pace, il benessere e il progresso e non la perpetuazione della prospettiva della lotta armata in vista di un obbiettivo “finale”. Si dice che Gaza languisce nella miseria con un 50 per cento di disoccupati mentre Hamas si occupa soltanto di armarsi per un’altra tappa bellica. Ma non è chiaro se a ciò corrisponda un crescente discredito di Hamas nella popolazione. A giudicare dal fatto che l’Anp rinvia continuamente le elezioni temendo di perderle – persino in quella Cisgiordania che conosce una crescita economica superiore a quella di Israele – c’è da dubitarne. E torniamo al discorso iniziale. Il benessere non basta. L’imposizione della legalità con la forza non verrà accettata se la popolazione non assumerà come obbiettivo la costruzione di uno stato fondato sulla pace e sul progresso. Viceversa, proprio le vicende di questi anni ci insegnano che le aspirazioni escatologiche e irrealistiche possono essere più forti di ogni realismo e sopraffare la ragione. Una leadership palestinese vincente deve battere l’ideologia che ha come unico obbiettivo la cancellazione dello stato ebraico e il ritorno impossibile a una condizione “precedente”. Se Ben Gurion avesse disarmato l’Irgun accettando, in tutto o in parte, il suo programma per compiacere gli estremisti, avrebbe perso comunque. Così, l’obbiettivo della riconquista del Grande Israele fino alle rive dell’Eufrate o della ricostruzione del Tempio a Gerusalemme costituirebbero un fattore dissolutivo di Israele. La grande scommessa di una nuova classe dirigente palestinese è di vincere la battaglia “culturale”, sradicando nel suo popolo l’aspirazione a preferire obbiettivi escatologici a quello concreto di fabbricare uno stato e un paese.
Libero- Carlo Panella: " Servo di Israele, truffatore, il processo di pace fa litigare Ahmadinejad e Abu Mazen "


Ahmadinejad Abu Mazen
Sullo sfondo del difficilissimo inizio delle trattative tra Israele e l’Autorità palestinese cresce al calor bianco la polemica tra la dirigenza palestinese e l’Iran. Il giorno dopo l’incontro alla Casa Bianca il presidente iraniano Mohammed Ahmadinejad aveva sprezzantemente definito Abu Mazen «un servo di Israele», nelmomento stesso in cui aveva preconizzato che i colloqui di pace sarebbero falliti. Eco perfetta e non casuale di identiche accuse elevate sempre contro Abu Mazen dalla dirigenza di Hamas, fedelissima alleata dell’Iran di Ahmadinejad nell’area. Ieri, Nabil Abu Rudeina, portavoce di Abu Mazen ha risposto per le rime al presidente iraniano: «Ahmadinejad non rappresenta il popolo iraniano: ha falsificato i risultati delle elezioni impadronendosi del potere e non ha dunque il diritto di criticare Abu Mazen che è invece giunto al potere tramite elezioni libere». A stretto giro di posta il portavoce del ministero degli esteri iraniano Ramin Mahmanparast ha definito “imprudenti” queste critiche: «Roudeina Dovrebbe essere più prudente nella scelta delle parole ». Gioca indubbiamente in questa polemica la trentennale ruggine che separa la dirigenza palestinese da quella di Teheran. L’ayatollah Khomeini e i suoi successori, infatti, hanno non poche e buone ragioni per odiare la Olp di Yasser Arafat, che nel suo tourbillon di complotti e pessime alleanze, si schierò toto corde con Saddam Hussein quando questi aggredì e invase l’Iran nell’autunno del 1980. Fu uno dei soliti voltafaccia del leader palestinese che pochi mesi prima, all’indo - mani della rivoluzione vittoriosa, era volato a Teheran a stringere la mano a Khomeini (che regalò in quell’occasione all’Olp la sede dell’ambasciata di Israele), ma che poi aveva impiegato i numerosi palestinesi che lavoravano nell’industria petrolifera iraniana in attentati e nel ruolo di “quinta colonna” nei confronti dell’esercito di Saddam Hussein quando questi aveva passato il confine iraniano. Non solo, Arafat ripeté lo stesso sbaglio alleandosi col feroce dittatore iracheno nel 1990, quando questi invase il Kuwait Da allora i rapporti tra Teheran e la dirigenza palestinese - di cui Abu Mazen è sempre stato importante esponente - non si sono mai più sanati - anche dopo la morte di Arafat - tanto che la forte alleanza stretta dagli ayatollah con Hamas (che èinpermanentestato di guerra civile sotto traccia conAbuMazen e la sua Olp) ha proprio questa origine. Oggi dunque questa ostilità viene esaltata proprio dalla pur confusa possibilità della definizione di una qualche pace tra Israele e Palestina. L’Iran ha assoluto bisogno che la questione palestinese rimanga sanguinante, che la occupazione blasfema di al Qods (Gerusalemme) si perpetui, per mobilitare all’interno e all’estero i non pochi simpatizzanti della espansione della rivoluzione khomeinista. Se l’esistenza di Israele venisse legittimata da un solenne accordo con la leadership palestinese, garantito per di più da Egitto, Arabia Saudita, Giordania e Lega Araba, l’intera prospettiva oltranzista iraniana verrebbe fortemente fiaccata. Il mondo musulmano si troverebbe infatti spaccato in due, tra una maggioritaria componente araba che riconosce la legittimità di Israele e solo una minoritaria componente (Siria, Sudan e Libia, a fianco dell’Iran), attestata su posizioni di Jihad permanente. Da qui le offese verbali iraniane ad Abu Mazen, da qui l’appoggio alle iniziative terroristiche - anche contro Abu Mazen - preannunciate da Hamas e altre 12 organizzazioni palestinesi.
L'Opinione- Dimitri Buffa: " Khaled Meshal ha progettato di fare fallire le trattative dirette Israelo-palestinesi "

Khaled Meshal (a destra) con il suo amico Carter
“Se falliscono i colloqui diretti con gli israeliani questo determinerà il fallimento dell'Autorità nazionale palestinese e la vittoria di Hamas”. Con una insolita onestà intellettuale, il negoziatore palestinese, Saeb Erakat, citato dal giornale arabo 'al-Quds al-Arabi’, ha messo le carte in tavola. E ha aggiunto: “speriamo di poter arrivare alla nascita di uno stato palestinese ma se non dovessimo riuscirsi, è meglio che ce ne andiamo tutti a casa. Uno scenario simile porterebbe alla fine dell'Anp, rappresentata da Mahmoud Abbas e alla vittoria di Hamas che controlla la Striscia di Gaza”. Viceversa, secondo Erakat, un accordo con gli israeliani “porterebbe invece alla sconfitta di Hamas ed è per questo che vogliamo che ci sia l'accordo”. Peccato però che già in un’intervista rilasciata ad “al Jazeera” lo scorso 2 agosto, l’”oste” con cui vanno fatti i conti, cioè Khaled Meshal, il vero capo dell’organizzazione terroristica chiamata Hamas, da anni al sicuro a Damasco, avesse preannunciato la ripresa del terrorismo diffuso pur di fare fallire questi negoziati diretti, voluti da Obama soprattutto per riscattare la propria pessima politica estera fin qui priva di risultati. E che diceva Meshal ad Al Jazeera lo scorso 2 agosto? Ad esempio che “il processo di presa di decisioni indipendente deve essere difeso con il fucile. Si acquisisce sul campo di battaglia e riflette la volontà del popolo. Per quanto riguarda i negoziati, questi vi renderanno sottomessi alle decisioni americane ed alle pressioni e minacce israeliane.” Un linguaggio più da vecchie Brigate Rosse che da jihadisti islamici, e infatti Meshal è un terrorista formatosi nella vecchia scuola sovietica e solo di recente riconvertitosi obtorto collo alla jihad globale. Nella stessa intervista Meshal ha rivolto un appello a quelle stesse fazioni di guerriglia che pochi giorni orsono in una conferenza stampa hanno preannunciato che colpiranno obiettivi ebraici in tutto il mondo: “il mio fratello Abu Jihad ed i miei fratelli comandanti delle varie fazioni e della Shabiba, e tutti i rappresentanti dell’amata Siria, del Libano, la terra della resistenza e della Palestina della sacra Gerusalemme… voglio dire a loro: è questo il cammino. Noi non dovremo mai vergognarci, anche se loro cercano di intimorirci con accuse di terrorismo. Se il nostro jihad è terrorismo, lasciate che dicano quello che vogliono. Noi resteremo fedeli al jihad, alla resistenza ed al fucile come cammino verso la liberazione ed il ritorno, se Allah vorrà.” La speranza, quindi, è che Allah non voglia.
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