Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iran e Hamas contro i negoziati Cronache e commenti di Fiamma Nirenstein, Carlo Panella, Antonio Ferrari, Maurizio Molinari, Dimitri Buffa, Aldo Baquis, redazione del Foglio
Testata:Il Giornale - Libero - Corriere della Sera - La Stampa - L'Opinione - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Carlo Panella - Antonio Ferrari - Maurizio Molinari - Dimitri Buffa - Aldo Baquis - Redazione del Foglio Titolo: «Ahmadinejad trema: con la pace crolla tutto - L’Iran: niente pace con Israele - Damiri, il soldato poeta che combatte il piano di Hamas contro i negoziati»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 04/09/2010, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " La vera condizione: accettare il 'coinquilino' ". Da LIBERO, a pag. 19, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Ahmadinejad trema: con la pace crolla tutto ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 58, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Non si deve cedere ad Hamas, bisogna seguire la lezione di Rabin ". Dalla STAMPA, a pag. 15, gli articoli di Maurizio Molinari e Aldo Baquis titolati " L’Iran: niente pace con Israele " e " La trasformazione di Bibi da falco a colomba ". Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Damiri, il soldato poeta che combatte il piano di Hamas contro i negoziati ". Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La vera condizione: accettare il 'coinquilino' "
Fiamma Nirenstein
Di fronte alla parola pace anche noi cercheremo di essere speranzosi, positivi. Di fatto ce ne sono alcune ragioni: la determinazione dell’amministrazione Obama ad ottenere un risultato; l’evidente passaggio di Netanyahu dal ruolo del politico a quello dello statista che con sguardo ampio sul Medio Oriente agisce anche in base al pericolo iraniano; e per Abu Mazen l’idea che la debolezza interna causata da Hamas possa essere curata solo dall’enorme supporto internazionale che la partecipazione al processo di pace gli può fornire. Ma è impossibile fare finta di non aver mai visto lo spettacolo di pompa e circostanza offerto a Washington, impossibile dimenticare i tappeti rossi su cui hanno marciato con i leader protagonisti, anche i loro fallimenti. Se aveste chiuso gli occhi durante la cerimonia di Washington, avreste potuto credervi a Madrid nel ’91, sul prato della Casa Bianca nel ’93, a Wye Plantation nel ’98, a Camp David nel 2000, a Aqaba nel 2003, a Annapolis nel 2007... In tutte le occasioni, e la cronista non ne ha mancata una, fra strette di mano e sorrisi si è esaltato il ruolo della leadership «dei bravi», la speranza per «il futuro dei nostri figli», il «futuro di pace per due popoli destinati a vivere fianco a fianco». Ogni volta l’illusione è stata la stessa, e il mondo ha spinto sempre sulla stessa strada: le rinunce territoriali di Israele avrebbero placato il mondo palestinese. Questo sentiero, che ha prodotto variegati ritiri, fra cui quello da tutte le città palestinesi e quello, unilaterale, da Gaza, ha visto il moltiplicarsi degli attentati. Lo spargimento di sangue è stato terribile proprio in conseguenza e a seguito delle trattative. La prospettiva della condivisione ha sempre moltiplicato il risentimento ideologico per la presenza ebraica sulla «ummah» islamica, e si è esacerbato, a volte in modo ridicolo, il diniego del fatto evidente che Israele non sia certo un’estraneo sulla terra divenuta cruciale proprio per la scoperta, quattromila anni fa, del monoteismo ebraico. Ma Netanyahu ha preparato una sua strada. Ha portato il Likud e il suo governo a accettare la formula «due stati per due popoli», con grave rischio per la sicurezza ha tolto un gran numero di check point, ha promosso le riforme economiche del premier Fayyad, e ha compiuto il gran gesto del congelamento degli insediamenti. Ramallah è una bella città dove vale la pena vivere in pace; a Jenin, culla del terrore, è stato aperto un cinema multisala... Ma il comma di questo atteggiamento è il cambiamento strategico di Bibi, che a Washington ha posto due condizioni per la pace, mai state prioritarie: la sicurezza, ovvero la garanzia che un nuovo Stato Palestinese non diventi una succursale missilistica iraniana come Gaza, e che sia demilitarizzato; e il riconoscimento dello Stato d’Israele come stato del popolo ebraico. Abu Mazen ha subito risposto dicendo che non può accettare, e ha riproposto i suoi temi: l’occupazione, Gerusalemme, i profughi. Lui che è un profugo di Safed, non potrebbe fare diversamente. Ma forse si tratta di una prima dura risposta di facciata, come la precondizione di riconfermare il congelamento per proseguire i colloqui. Anche su questo punto c’è già stato il no di Netanyhu. Ma lo stop alle costruzioni, l’ammissione dei profughi, il ritiro territoriale... tutto questo può essere frastagliato, negoziato, selezionato, per fasi, per zone, per tempi. C’è solo una cosa che deve essere scelta una volta per tutte, e Bibi l’ha capita bene: la decisione di accettare il proprio vicino. Abu Mazen non l’ha ancora fatto. Anche se usa duramente la sua polizia contro Hamas, lo dimostra in tante occasioni come quando ha recitato la sura del Corano per l’apoteosi dell’anima di Amin Al Hindi, il capo dell’eccidio di Monaco del ’72, quando undici atleti israeliani furono trucidati. O quando accetta che una piazza di al Bireh venga intitolata a Dalal Mughrabi, la terrorista che uccise 37 civili israeliani e ne ferì 71 su un autobus. Questo è il nodo: sicurezza e accettazione. Altrimenti i ragazzi palestinesi cresceranno nell’idea che sia la violenza contro gli israeliani la vera soluzione, e non un trattato di pace. Abu Mazen sa che gli ebrei hanno sempre abitato a Safed senza mai andarsene, nei millenni. Che hanno affrontato condizioni molto dure pur di non lasciare la loro terra. Forse non vuole rinunciare all’idea di tornare a Safed, ma sa di aver sempre avuto un appassionato, ben radicato coinquilino.
LIBERO - Carlo Panella : " Ahmadinejad trema: con la pace crolla tutto "
Carlo Panella
Non stupisce la notizia che 13 organizzazioni estremiste palestinesi - tra cui quella Hamas che tanti in Italia e in Europa indicano come interlocutore affidabile - abbiano annunciato una nuova ondata terrorista per far saltare le già difficili trattative tra Israele e Anp. Si sono già viste all’ope - ra negli anni e nei mesi scorsi e non è un caso che l’ultima loro vittima, pochi giorni fa, sia stata una donna israeliana incinta: questo è il loro stile. Non stupisce anche perché tutte queste organizzazioni, a iniziare da Hamas, sono sponsorizzata e armate dall’Iran di Ahmadinejad. Viste da Teheran, infatti, queste trattative sono ben più pericolose e inquietanti di quanto non siano le sanzioni dell’Onu che non funzionano perché decine di stati (incluse Cina e Turchia) sono impegnati ad eluderle. Se mai si arrivasse infatti ad un accordo tra Abu Mazen e Bibi Netanyahu e nascesse, con l’accordo di Israele, uno Stato palestinese, il regime di Teheran si troverebbe enormi difficoltà. BASTA INSTABILITÀ Innanzitutto perché cesserebbe quello stato permanente di instabilità che da 62 anni caratterizza tutto il Medio Oriente, favorendo la strategia degli ayatollah: esportare la rivoluzione khomeinista. È grazie a questa instabilità che Teheran è già riuscita a costruirsi due formidabili teste di ponte sul Mediterraneo (la Gaza di Hamas e il sud Libano di Hezbollah) e tenta ora di impiantarsi in Yemen (là dove i ribelli sciiti di al Houti, già controllano la regione di Sada), negli Emirati Arabi (in cui sobilla le forti minoranze sciite) e soprattutto di giocare le proprie carte nella crisi di passaggio del regime dell’Egitto dalle mani di Hosni Mubarak e quelle, inesperte, di suo figlio Gamal. Ma quello che più teme il regime di Teheran è altro. Come spiega da anni l’eccellente re di Giordania Abdullah II, se nascesse uno Stato palestinese, si creerebbe la possibilità di far crescere in pochissimi anni una formidabile area di sviluppo economico con due poli all’avanguardia sia sotto il profilo industriale che economico (Turchia e Israele), e con una grande area di estensione che comprende anche Stato palestinese, Giordania, Iraq e lo stesso Egitto. Non va dimenticato che già ora, sotto la guida del premier palestinese, l’economista Salam Fayyed, e col pieno appoggio del governo di Gerusalemme, l’economia della Cisgiordania - pur occupata - si sviluppa ad un ritmo di crescita addirittura superiore a quello di Israele stesso. Ma questa nuova macroregione, non sarebbe solo, tenuta assieme da straordinari (e produttivissimi) interessi economici, perché costituirebbe un formidabile contrafforte al disegno strategico iraniano. SVILUPPO E CRESCITA Se si dimostrasse, nei fatti, che collaborando con Israele e sotto il patrocinio degli Usa e dell’Occidente è possibile costruire nei paesi arabi sviluppo, crescita economica e sociale, agiatezza e infine stabilità politica (quindi riforme), si sarebbe creato il principale anticorpo per arrestare la capacità di espansione in Medio Oriente del regime di Ahmadinejad. Questa, peraltro, è anche l’unica, vera ragione di ottimismo sull’esito della trattativa iniziata alla Casa Bianca. La mediazione tra Israele e Anp è piena di nodi apparentemente non risolvibili. Ma tutti i paesi arabi, a iniziare dall’Arabia Saudita e dall’Egitto, per la prima volta fanno oggi pressione su Abu Mazen perché ceda, non certo per amore di Israele, ma perché sanno che solo Israele li può difendere dall’Iran. Ennesimo paradosso a cui li ha portati la cecità strategica dei Paesi arabi negli ultimi 62 anni.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Non si deve cedere ad Hamas, bisogna seguire la lezione di Rabin "
Antonio Ferrari
L’errore più grave sarebbe di lasciarsi intimidire dalle minacce terroristiche degli estremisti palestinesi e di permettere che queste indeboliscano un negoziato che è appena nato e si trova ancora nella culla delle intenzioni. Buone intenzioni, si spera.
Ora l’annuncio, con tanto di conferenza stampa a Gaza, di Abu Obeidah, portavoce delle brigate Ezzedim al Qassem, braccio militare di Hamas, in rappresentanza delle 13 formazioni estremiste «pronte a colpire violentemente i sionisti in ogni luogo e in qualsiasi momento», non deve sconvolgere né condizionare.
Era previsto, anzi quasi scontato che il passo compiuto a Washington dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dal presidente dell’Anp Abu Mazen avrebbe scatenato i fanatici palestinesi e provocato l’ira dei coloni ebrei più estremisti, anch’essi contrari a compromessi e concessioni.
È un film che abbiamo visto decine di volte. E che dimostra quanto sia grande il coraggio di due nemici che hanno deciso di sedersi allo stesso tavolo e di stringersi la mano. Costretti ad assistere alle baruffe politiche di casa nostra, forse dimentichiamo che a due o tre ore di volo dalle nostre vacanze c’è chi, impegnandosi in delicati colloqui di pace, rischia davvero la vita.
Le minacce dell’ala militare di Hamas, che non riconosce il ruolo del presidente Abu Mazen, sono la prova che a Washington l’avvio dei colloqui è stato importante e significativo. Il presidente palestinese sa bene di compromettere le speranze di ricucire i rapporti con i fondamentalisti di Hamas. E Netanyahu sa che farà infuriare l’estrema destra del suo governo. Ma insieme hanno deciso di andare avanti seguendo la lezione del premier Yitzhak Rabin, ucciso mentre cercava di costruire la pace: «Negoziare come se il terrorismo non ci fosse, e combattere il terrorismo come se non esistesse il negoziato».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " L’Iran: niente pace con Israele "
Maurizio Molinari
L’Iran e gli Hezbollah tuonano contro il negoziato di pace ripreso a Washington mentre israeliani e palestinesi lavorano per preparare l’agenda del prossimo summit, che si svolgerà a Sharm el-Sheik. Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha definito i negoziati «nati morti e condannati al fallimento» parlando a Teheran durante una manifestazione pro-palestinese per il «Giorno di Gerusalemme» celebrato dagli sciiti. «Abu Mazen è un ostaggio dei sionisti e i colloqui che ha iniziato a Washington sono illegittimi» ha aggiunto Ahmadinejad, ammonendo il presidente dell’Autorità nazionale palestinese a «non fare concessioni in nome di un popolo che non rappresenta». «Chi gli ha dato il diritto di svendere un pezzo di terra palestinese? Il popolo palestinese e quelli della regione non glielo consentiranno» ha tuonato, assicurando la folla che «la sorte della Palestina sarà decisa dalla resistenza e non a Washington, Parigi o Londra, se i leader della regione non ne hanno la forza saranno i popoli a rimuovere il regime sionista dalla faccia della terra». I manifestanti erano decine di migliaia ed hanno gridato «Morte all’America, morte a Israele» innalzando caricature offensive di Barack Obama e cartelli con la scritta «Gerusalemme è nostra». In marcata convergenza di toni e termini con Ahmadinejad, ha parlato dal Libano Hassan Nasrallah, leader del partito filo-iraniano Hezbollah, durante un discorso tv nel quale ha affermato che «tutta la Palestina dal Mediterraneo al fiume Giordano appartiene solamente ai palestinesi, agli arabi e ai musulmani e nessuno ha diritto a cederne un grano di terra o una goccia d’acqua». L’affondo contro il negoziato è stato ripetuto, duro e diretto: «Neanche una singola strada di Gerusalemme potrà mai essere la capitale di uno Stato immorale e illegale chiamato Israele, queste trattative sono nate morte perché la grande maggioranza dei palestinesi è contraria al principio di negoziare con Israele così come lo siamo noi». Da qui l’appello a «continuare la resistenza che è l’unica via alla vittoria» anche perché «Israele è in grande crisi» e «gli Usa non sono più in grado di combattere guerre in questa regione del mondo». Le parole di Ahmadinejad e Nasrallah confermano come Teheran sia l’avversario strategico dichiarato del processo di pace, e l’Egitto di Hosni Mubarak ha reagito cancellando la visita al Cairo che lunedì avrebbe dovuto fare il ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki. Proprio Mottaki aveva definito nei giorni scorsi «traditori» i leader arabi come Mubarak che sostengono il negoziato diretto e l’Egitto ha voluto mandare un segnale che si sovrappone alla conferma che sarà Sharm el-Sheik, nel Sinai, ad ospitare il 14 e 15 settembre il prossimo summit fra Netanyahu, Abu Mazen e Hillary Clinton. In preparazione di tale vertice i negoziatori israeliano, Yizhak Molcho, e palestinese, Nabil Shaat, si vedranno lunedì a Gerico, in Cisgiordania, per discutere degli aspetti del dossier sicurezza che dovranno essere inclusi nel «Framework Agreement» sulla base del quale si dovrebbe arrivare all’accordo finale entro un anno. Il premier israeliano ha fatto sapere di essere disposto a prendere in considerazione l’ipotesi di un referendum sui contenuti del «Framework Agreement» prima della sigla finale. Da Ramallah invece si è appreso che Abu Mazen, durante l’incontro bilaterale con Netanyahu a Washington, gli ha consegnato copia degli accordi raggiunti con il precedente premier Ehud Olmert per fargli sapere «fino a dove eravamo arrivati». Netanyahu ha reagito prendendo appunti e commentando: «Mi interessa ogni cosa che dici».
L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Hamas risponde a Obama: colpiremo Israele ovunque nel mondo "
Dimitri Buffa
“Colpiremo Israele e i suoi interessi e i suoi alleati ovunque nel mondo”. Hamas risponde così alla mano tesa di Barack Obama e alla ripresa dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, più o meno ragionevoli, dell’Anp. E per farlo convoca addirittura una conferenza stampa in quel di Gaza. Ed infatti ben tredici gruppi palestinesi armati hanno deciso di unire le proprie forze per dare vita a un'escalation di attacchi contro Israele. Ad annunciarlo è stato proprio il portavoce delle Brigate Ezzedin al-Qassam, gruppo armato che prende ordini dai vertici di di Hamas, Abu Ubeyda. L’obiettivo dichiarato è di far fallire i negoziati diretti tra Anp e Israele, iniziati l’altro ieri a Washington. Le 13 fazioni terroristiche armate palestinesi hanno organizzato un coordinamento delle loro attività contro lo Stato ebraico. “Annunciamo che siamo entrati in una nuova fase della resistenza palestinese - ha affermato Abu Ubeyda - si tratta di una fase avanzata del lavoro jihadista che lascerà il segno sul nemico occupante”. Oltre ad Abu Ubeyda, hanno preso parte alla conferenza stampa altri uomini a volto coperto in rappresentanza dei vari gruppi armati tra cui le Falangi di al-Quds, braccio armato della Jihad islamica, le Brigate Abu Ali Mustafa, le Brigate Jihad Jibril, le Brigate al-Nasr, le Brigate Saif al-Islam, le Brigate dei martiri di al-Aqsa - sezione Nabil Masoud e altre piccole formazioni di criminali sciolti. Particolarmente allarmanti le dichiarazioni, alle precise domande di alcuni cronisti, di Abu Ubeidah che ha proclamato che “il nemico sionista sarà colpito in ogni luogo e in qualsiasi momento”. Cosa che fa temere anche dirottamenti aerei e attacchi in paesi stranieri sul modello di Monaco 1972. “Tutte le opzioni sono aperte”, ha aggiunto, rispondendo a una domanda sulla possibilità che siano lanciati razzi contro Tel Aviv a partire dalla striscia di Gaza. Il portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam ha inoltre chiesto all'Autorità nazionale palestinese di “cessare gli arresti” di simpatizzanti di Hamas in Cisgiordania, prefigurando l’apertura di un ulteriore fronte terroristico interno, la cosiddetta “intrafada”. D’altronde che l’aria fosse questa si era capitato già dal tono della rivendicazione dell’agguato mortale ai quattro cittadini ebrei di Hebron nei giorni scorsi, quelli che la pubblicistica del pensiero unico conformista si compiace di chiamare “coloni”, come a giustificarne o sminuirne l’uccisione. In quella triste occasione Hamas aveva infatti detto che “Abu Mazen non può negoziare la pace per tutti i palestinesi”. E per ribadire il concetto il giorno dopo erano stati feriti seriamente altri due cittadini israeliani. Solo Obama sembra non capire che il binario su cui si sta muovendo è “morto”.
La STAMPA - Aldo Baquis : " La trasformazione di Bibi da falco a colomba "
Bibi Netanyahu
Il volto è indubbiamente quello ben noto del leader del Likud, Benjamin Netanyahu. Ma i testi da lui lanciati da Washington avevano un sapore antico: «Abu Mazen - ha esclamato - vedo in lei un partner di pace». E ancora: «Il terrorismo non ci impedirà di avanzare sulla strada verso la pace». E ancora: «Sono venuto qua per cercare di conseguire una pace stabile, che duri per generazioni...». Possibile, si sono chiesti ieri non pochi israeliani, che il «falco» di sempre stia trasformandosi in una «colomba»? Un nuovo Rabin? O almeno un nuovo Sharon? Fra quanti scommettono che questo sia il caso vi è il presidente Shimon Peres, che negli ultimi mesi ha conversato a lungo con Netanyahu a quattr’occhi. Ottimista a prova di bomba, Peres fu fra i primi ad intuire che Sharon non era più quello di una volta e il ritiro da Gaza del 2005 gli diede poi ragione. Adesso Peres è persuaso che un processo simile sia in corso nell’intimo di Netanyahu. «Il vertice di Washington - ha commentato - è stato molto promettente». «Netanyahu ha adottato a Washington la retorica di Rabin, e anche alcune delle sue posizioni politiche», sostiene Ari Shavit, un commentatore politico di Haaretz. Che però aggiunge: «Ma il premier è nato a Gerusalemme, mentre Abu Mazen è un profugo di Safed, in Galilea. Con radici del genere dovranno dare prova di grande pragmatismo, sarà difficile». Una settimana fa Netanyahu si era concesso due giorni di relax con la moglie, in Galilea. Si è poi appreso che nelle ore di riposo ha voluto rileggere la biografia di Winston Churchill, sentendosi forse a tu per tu con la Storia. E prima di decollare per Washington ha chiesto la benedizione del padre: lo storico, centenario, Ben-Zion Netanyahu che ha grande influenza su di lui. «Netanyahu - conferma il ministro laburista Avishai Braverman - ha adesso l’opportunità di svolgere un ruolo storico per Israele. Se non spartiremo adesso questa terra con i palestinesi, saremo condannati a vivere in uno Stato binazionale. Un pericolo immenso per il futuro del sionismo. Netanyahu beneficia di un forte sostegno politico: occorre assolutamente che attraversi il Rubicone». Ma la biografia politica del premier è ben nota in Israele e dunque sulla ipotesi che Netanyahu inverta la propria linea politica tradizionale i commentatori vanno con i piedi di piombo. «Può darsi che a Washington abbia solo fatto una sceneggiata», ipotizzano Maariv e Yediot Ahronot. Eppure, malgrado tutto, in Israele si respirava ieri un cauto ottimismo: perché gli americani hanno organizzato un incontro modesto, ma realistico; perché al fianco di Abu Mazen c’erano importanti leader arabi, e perché Hillary Clinton e George Mitchell seguiranno i colloqui da vicino. Anche l’ira espressa dall’Iran e dai dirigenti di Hamas riguardo al vertice potrebbe significare che, malgrado tutto, un accordo anche parziale fra Israele e Anp non sia da escludere.
Il FOGLIO - " Damiri, il soldato poeta che combatte il piano di Hamas contro i negoziati "
Salam Fayyad
Roma. Il generale Adnan Damiri ha trascorso tutta la vita a dare la caccia agli uomini di Hamas. E’ l’“Intrafada”, la guerra fra Hamas e Fatah per il controllo di West Bank che si è intensificata mentre a Washington Abu Mazen e Bibi Netanyahu siedono al tavolo del negoziato. L’Intrafada è una guerra a colpi di arresti, uccisioni, sparizioni, torture e persecuzioni di cui Damiri sarebbe il grande tessitore. Il generale è responsabile della sicurezza in Cisgiordania per conto del primo ministro palestinese Fayad. Suo il recente blitz in cui, dopo la strage dei coloni ebrei a Hebron, sono stati arrestati trecento membri di Hamas. E’ facile capire perché gli islamisti lo vogliano morto. A fine agosto Damiri, pragmatico e cinico come pochi altri nella leadership di Fatah, ha bandito gli imam più fondamentalisti dalle moschee di Ramallah. Il loro incitamento all’odio mal si confà con il pragmatismo economico di Fayad. Anche Damiri ha le sue cicatrici, avendo trascorso sedici anni in carcere in Israele, da quando fu arrestato nel 1975 nei fuochi dell’Intifada. Noto come “il poeta” per i suoi versi sulla Palestina, Damiri non ha esitato a sbattere in galera gli amici più stretti, come il leader di Hamas a Nablus Jamal Mansour. Nel 1991 Damiri scrisse un articolo su al Fajr: “Il sogno dell’Intifada è diventato un incubo”. Oggi i capi di Hamas lo accusano di averli “venduti” a Israele. Nel 1995 il generale andò a seguire un corso di addestramento negli Stati Uniti. “Ho sempre visto l’America come il nemico, ma ora è d’aiuto ai palestinesi”, dirà al ritorno nella sua Tulkarem. Pare che negli States abbia appreso le migliori tecniche di interrogatorio “duro”. Le stesse che oggi tornano utili a Fayad.
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