Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
C'è qualcosa che nessuno dice. S'insiste nel parlare di democrazia (parola sul cui senso nessuno riflette veramente, perché viene sempre surrettiziamente dato per scontato), ma non ci si chiede mai perché, ad esempio, proprio il paese in cui tale termine viene sviluppato nella sua accezione più classica (il regno unito) sia pure il paese all'avanguardia nella trasformazione dell'Europa in eurabia. Forse la dicotomia schematica dittuture/democrazia mostra un po' la corda, e fa dimenticare che le democrazie moderne - in quanto fondate sulla sovranità popolare - sono appunto sostanziate da una sovranità, cioè da una forma di dispotismo. Montesquieu le avrebbe sicuramente considerate dispotiche, stante la mancanza di un vero controllo sul governo (sovrano, appunto), e l'insindacabilità delle decisioni governative in qualunque materia (non parliamo poi della Scuola e del suo attuale dittatore, la ministra gelmini, altrimenti si rischiano sanzioni appunto per lesa gelmini, che l'opinion maker liberal-democratico per eccellenza, sua maestà galli della loggia, stima pur così tanto, da par suo). Forse invece la scarsissima sensibilità che nelle democrazie si riscontra riguardo agli arbitri nell'iran o altrove può essere fatta risalire anche o principalmente al fatto che nelle democrazie medesime non esiste la possibilità effettiva di esercitare una resistenza al potere costituito; la resistenza e la partecipazione politica vengono anzi scoraggiate, dato che obbedendo al rappresentante o alla volontà generale io obbedisco a me stesso (che bisogno avrei, dunque, se obbedisco a me stesso, di esercitare una qualunque resistenza?). Sarà quindi la desuetudine a resistere che crea l'insensibilità per i misfatti delle dittature. Ma in fin dei conti qual è la differenza che da queste ultime ci separa? Da noi c'è lo stato di diritto, mentre da loro regna lo stato di arbitrio: non è una differenza da poco. Tuttavia Hannah Arendt (vedi Sulla rivoluzione, ed. Comunità) c'insegna che una vera istituzione della libertà va ben al di là del semplice stato di diritto, cioè di non arbitrio. Non sembra, dunque, che dai tempi di neville chamberlain si sia imparato molto circa la subalternità delle democrazie alle dittature. Lungi quindi dal sostenere che le democrazie sono troppo "autocritiche" (cosa su cui sembrerebbe invece insistere l'on. Fiamma Nirenstein), si può dire che soffrano di un marcato deficit di autocritica, o megli di indagine sulla propria natura. (E questo avviene in tutte le zone della politica ufficiale o ufficiosa: dall'estrema sinistra pacifinta alla destra dal sig. berlusconi).