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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Libero - L'Opinione - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - L'Unità - Il Manifesto Rassegna Stampa
03.09.2010 Negoziati: Abu Mazen e Netanyahu al tavolo ogni quindici giorni
Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Angelo Pezzana, Michael Sfaradi, Amy Rosenthal, Redazione del Foglio, Redazione della Stampa, Alix Van Buren, Umberto De Giovannangeli, Maurizio Matteuzzi

Testata:Libero - L'Opinione - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica - L'Unità - Il Manifesto
Autore: Angelo Pezzana - Michael Sfaradi - Amy Rosenthal - Maurizio Molinari - Redazione della Stampa - Alix Van Buren - Umberto De Giovannangeli - Maurizio Matteuzzi
Titolo: «La minaccia al tavolo della pace, oggi arriva dall'Iran nucleare - Scetticismo in Israele sui colloqui di pace - Non siate così scettici sui negoziati, ci dice l’ambasciatore Terzi»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 03/09/2010, a pag. 16, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo " La minaccia al tavolo della pace, oggi arriva dall'Iran nucleare ". Dall'OPINIONE, l'articolo di Michael Sfaradi dal titolo " Scetticismo in Israele sui colloqui di pace ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Lo scettico Abrams ", a pag. 3, l'articolo dal titolo " Non siate così scettici sui negoziati, ci dice l’ambasciatore Terzi ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Abu Mazen e Netanyahu al tavolo ogni quindici giorni ", a pag. 13, i due brevi articolo titolati "Barghouti: Lo Stato ebraico non manterrà gli impegni. Trattative destinate a fallire" e " Tredici gruppi estremisti si coalizzano: Coordineremo gli attacchi contro i sionisti ". Da REPUBBLICA, a pag. 15, l'intervista di Alix Van Buren a David Miller dal titolo "Ci sono distanze incolmabili remote le possibilità di intesa". Dall'UNITA', a pag. 27, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Sari Nusseibeh, rettore dell'università al Quds di Gerusalemme dal titolo " Bene l’impegno Usa ma sono pessimista. Non ci sarà accordo ", preceduta dal nostro commento. Dal MANIFESTO, a pag. 1-9, l'articolo di Maurizio Matteuzzi dal titolo " Il peso di Obama ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

LIBERO - Angelo Pezzana : " La minaccia al tavolo della pace, oggi arriva dall'Iran nucleare "


Angelo Pezzana

Per valutare i colloqui di Washington ci sono due modi, c’è l’interpretazione che considera gli aspetti positivi di un trattato di pace fra Israele e l’Autorità palestinese, ne apprezza i benefici ma considera anche con grande preoccupazione le connessioni che possono portare ad una caduta del livello di sicurezza, indispensabile per la sopravvivenza dello Stato ebraico. E c’è quella negativa, perchè vede nell’inevitabile rinuncia di territori che sono la radice della storia ebraica in questa regione, la perdita di una identità, soprattutto religiosa, che è il motivo profondo per cui molti israeliani hanno scelto di vivere in avanposti, in condizioni pericolose e, più che altro, precarie. Qui non c’entrano più destra e sinistra, Netanyahu è il leader del Likud, il partito che fu di Begin, quindi la destra laica, che però è stata più pronta della sinistra per arrivare alla pace con l’Egitto (1979). Poi toccò a Rabin, primo ministro laburista, quando nel 1994 Israele firmò la pace con la Giordania. Due avvenimenti che è bene ricordare oggi, perchè dimostrano quanto Israele, non importa chi è al governo, sia sincero quando afferma di volere la pace, costi quello che costi. Fa apparire sincero anche Bibi, il quale ha affermato, prima di partire per Washington, che ‘ avrebbe stupito i critici e gli scettici’, un modo per dire qual’era il risultato che voleva portare a casa.

Ma i problemi più gravi non stanno a Washington, dove le parti hanno reagito all’attentato di Kiriat Arba ragionando più con le testa che con il cuore, uno smacco per Hamas, che si aspettava ben altro. Le reazioni più emotive si sono avute in Israele, dove chi si oppone a qualsiasi divisione territoriale ha reclamato la ripresa immediata delle costruzioni, subito, senza aspettare la scadenza del 26 settembre. E in Cisgiordania, dove, assente Abu Mazen, la parola è passata a chi ragiona come Muhamad Dahlan, disoccupato dopo la fuga da Gaza, dove rischiava la vita in quanto rappresentante dell’Anp, che ha addossato agli Stati uniti la colpa di essere sbilanciati a favore di Israele, il che segnerà il fallimento dei colloqui. Tutto verrà fatto per evitarlo,ma il risultato è possibile  se solo si esce dalla Casa Bianca e si torna in Medio Oriente. Qui ci si chiede come Obama potrà garantire la sicurezza di Israele, come afferma di continuo, quando l’Iran, il pericolo maggiore, sta per disporre dell’arma nucleare. La politica americana nei confronti dell’impero dei mullah non ha dato segni di un vero cambiamento, il tira e molla va avanti come prima. Il rapporto con la Siria, altalenante come sempre, sembra non rendersi conto della sempre più stretta alleanza con il Libano di Hezbollah, un fatto che in Israele viene visto come una preparazione ad una guerra imminente. Persino Michael Oren, l’abilissimo ambasciatore israeliano a Washington, che ha lavorato nelle retrovie per portare al successo i colloqui, ritiene che non ci sarà nessuna pace se l’Iran avrà la bomba.  Conterà poco che l’Anp di Abu Mazen arrivi ad un accordo condiviso con Israele, quando Gaza con Hamas a sud, il Libano con Hezbollah e Siria al nord, e con l’Iran a dirigere, Israele si troverà a dover affrontare una guerra prevista e annunciata in condizioni di accerchiamento. Sono questi i segnali che arrivano dalle analisi di intelligence delle Forze di Difesa di Israele, quel Tzahal al quale anche il più acceso sostenitore pacifista guarda con fiducia pensando a quando suonerà la sirena della guerra. Fino a quel momento vedremo la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania ?  E la separazione fra arabi e israeliani, il che vuol dire un buon accordo sui confini, garantirà la sicurezza di Israele ? E da che parte staranno i palestinesi in caso di guerra ? E’ vero che l’estate è trascorsa tranquilla, ma il nuovo anno, il 5771, che Israele festeggia tra pochi giorni, di problemi da affrontare ne avrà non pochi.

L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " Scetticismo in Israele sui colloqui di pace "


Michael Sfaradi

Dopo il gravissimo attentato palestinese, dove quattro civili israeliani, due uomini e due donne (una delle quali al quinto mese di gravidanza) sono stati massacrati, un altro attentato nella stessa zona e modalità di esecuzione, è stato portato a termine da terroristi affiliati ad Hamas nella notte fra il primo e il due settembre. Il risultato di questa seconda azione, sempre contro civili israeliani inermi, è stato di due feriti: una donna in modo lieve e suo marito in prognosi riservata e attualmente ricoverato in sala rianimazione. La loro auto, che è stata fatta segno di numerosi colpi di arma da fuoco automatica, è uscita di strada andandosi ad infilare in uno dei canali di irrigazione paralleli alla via di comunicazione. Debbono la loro salvezza all’intervento di alcuni militari israeliani che pattugliavano la zona, e che, richiamati delle raffiche di mitra, sono arrivati prima che i terroristi riuscissero a dare alle due vittime il colpo di grazia. Il rischio che gli abitanti delle zone colpite dai recenti attentati decidano di farsi giustizia da soli è alto, ed è per questo che l'esercito ha rafforzato la sua presenza. Anche se questo potrebbe innescare scontri fra i terroristi di Hamas e le forze di sicurezza. Questo innalzamento della tensione è dovuto, non ci sono dubbi, ad ordini precisi che arrivano dalla striscia di Gaza: i capi di Hamas stanno boicottando i colloqui di pace, che si sono appena aperti a Washington, con il beneplacito del presidente statunitense Obama, fra il premier israeliano Netanyahu e il presidente dell’Anp Abu Mazen. In Israele sono in pochi a credere che questa tornata di colloqui possa portare da qualche parte, la maggioranza, infatti, crede che alla fine tutto si risolverà con un nulla di fatto di grande impatto mediatico. Proprio quello che serve a recuperare consensi al Partito Democratico, al momento in caduta libera, in vista delle elezioni di Medio Termine. E’ anche pensiero comune che, sia Netanyahu che Abu Mazen, personaggi con esperienza politica notevolmente superiore a quella dell'attuale inquilino della Casa Bianca, abbiano dovuto fare buon viso a cattivo gioco e siano volati a Washington pur sapendo che questa tornata di colloqui è, probabilmente, solo ad uso e consumo della politica interna statunitense. La maggioranza della popolazione israeliana, anche se la stampa ha usato in questi giorni toni di attesa, basandosi sulle esperienze passate e visto il momento storico che sta vivendo (è impossibile non tenere in considerazione il peso delle continue minacce iraniane che possono giocare a sfavore di un qualsiasi accordo), è convinta che questa tornata di colloqui andrà ad infrangersi contro i soliti nodi irrisolti ed irrisolvibili: lo status di Gerusalemme, la situazione degli eredi dei profughi palestinesi e del loro eventuale ritorno solo per citare i più importanti.

Il FOGLIO - Amy Rosenthal : " Lo scettico Abrams "


Amy Rosenthal, Elliott Abrams 

New York. “E’ difficile essere ottimisti. Il problema è lo stesso da tempo e non mi pare che le cose siano cambiate: quello che gli israeliani possono offrire è decisamente inferiore rispetto a quello che i palestinesi possono accettare”. Parla così Elliott Abrams, uno dei consiglieri più ascoltati dall’ex presidente americano George W. Bush, nel giorno in cui cominciano i negoziati diretti fra il premier di Gerusalemme, Benjamin Netanyahu, e il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen. I due sono arrivati mercoledì sera a Washington e sono stati accolti dal capo della Casa Bianca, Barack Obama. L’incontro è salutato con favore dalle principali cancellerie dell’occidente. Eppure, sostiene Abrams, “c’è una cosa che i diplomatici europei devono sapere. Uno stato palestinese decente, democratico e pacifico non si costruisce stando seduti intorno a un tavolo. Non succederà a Washington come non è accaduto a Ginevra, Taba e Camp David. L’unico modo per portare a termine l’obiettivo è lavorare sul campo. Per questo, credo che sia stupido concentrare tutti gli sforzi sulla parte negoziale anziché sul mondo reale”. Quando Bush era alla Casa Bianca, Abrams dirigeva il comitato per il vicino oriente e aveva incarichi di responsabilità nel Consiglio per la sicurezza nazionale. Oggi è fra gli analisti del Council on Foreign Relations, il think tank americano che pubblica la prestigiosa rivista Foreign Affairs. L’apertura dei negoziati si incrocia con una scadenza importante per la politica americana: a novembre il paese torna alle urne per il voto di midterm e alcuni analisti ritengono che l’invito di Obama a Netanyahu e Abu Mazen serva a rilanciare l’immagine un po’ appannata dei democratici, soprattutto agli occhi dell’elettorato di origine ebraica. “Credo che questa sia una delle poche cose positive che il presidente può provare a fare con la sua politica estera vis-à-vis – spiega al Foglio Abrams – Quello che Obama ha fatto sinora con l’Iraq e l’Afghanistan non è stato molto soddisfacente. In più, ora, c’è la minaccia dell’Iran. Il confronto fra israeliani e palestinesi è una possibilità importante per lui: per questo motivo la Casa Bianca concede grande spazio al dossier medio oriente”. Tuttavia, dice Abrams, è troppo presto per un giudizio politico sui colloqui fra Netanyahu e Abu Mazen. “Se, al termine delle trattative, la situazione sarà la stessa di sei mesi fa, quando pareva che Obama facesse più pressione sugli israeliani che sui palestinesi, il presidente non riceverà l’aiuto degli elettori ebrei e neppure quello delle comunità evangeliche che sostengono con forza l’esistenza di Israele”. Qualche settimana fa, il Wall Street Journal ha pubblicato un intervento di Abrams sui rapporti fra l’Iran e gli Stati Uniti che aveva per titolo “Il nemico del mio nemico”. Nell’articolo, l’analista ha spiegato che l’opinione secondo la quale qualcuno dovrebbe bombardare Teheran per impedire che il regime degli ayatollah sviluppi armi atomiche “è molto diffuso nei paesi arabi”, soprattutto nel Golfo. “Si tratta di una operazione difficile, ma io direi di sì – spiega al Foglio – A questo punto, la situazione in Libano e i rapporti fra Israele e la Siria dipendono dall’Iran”. Gerusalemme e Damasco “non raggiungeranno alcun accordo sinché Teheran influenzerà i leader siriani e armerà gruppi come Hezbollah in Libano. Credo che non ci sia alcuna chance di stabilire una pace fra Israele e la Siria sino a quando la questione Iran non sarà risolta. Questa è la realtà”. Per Abrams, c’è la possibilità che “anche Israele” sia pronto a un attacco: “Ovviamente, a Gerusalemme preferirebbero non prendere questa decisione da soli, così aspettano il più a lungo possibile nella speranza che le sanzioni economiche raggiungano il loro obiettivo”. Obama ha annunciato martedì la fine delle operazioni militari in Iraq: la partenza dei marine potrebbe fornire all’Iran una nuova opportunità di espandere la propria influenza sulla regione. “Dobbiamo aspettare un po’ di tempo per dirlo – dice Abrams – Il contingente delle forze speciali americane è ancora numeroso e può fare molto. Per esempio, possono addestrare i soldati iracheni e unirsi a loro nelle operazioni militari in futuro. Obama non vuole vedere l’Iraq finire in pezzi, ma, al tempo stesso, una parte della sua base elettorale vuole la fine della missione a tutti i costi. Ora il presidente sta cercando di bilanciare lo sforzo”.

Il FOGLIO - " Non siate così scettici sui negoziati, ci dice l’ambasciatore Terzi"


Giulio Terzi di Sant’Agata

Washington. “Il processo di pace è una priorità dell’Amministrazione Obama dal suo insediamento”, dice al Foglio l’ambasciatore d’Italia a Washington, Giulio Terzi di Sant’Agata, contraddicendo le opinioni di chi vede nei dialoghi diretti fra israeliani e palestinesi l’ennesimo rituale destinato al fallimento, e in Obama un pragmatico equilibrista poco interessato a una visione di respiro globale. Terzi conosce bene l’ambiente diplomatico dei negoziati, essendo stato ambasciatore in Israele dal 2002 al 2004, durante la seconda Intifada, e rilegge i colloqui di questi giorni attraverso la lente della diplomazia di Washington. “La sensazione che ho registrato in queste ore – spiega Terzi –, anche fra colleghi non proprio allineati su posizioni occidentali, è la fiducia che questa volta ci siano delle opportunità nuove. Naturalmente il processo di pace è una sfida epocale con otto precedenti che sono falliti e ci sono attori che fanno di tutto perché la crisi rimanga aperta. Ma qui a Washington c’è un senso di novità, anche fra i nostri interlocutori alla Casa Bianca, e la direzione dei colloqui fa balenare l’esistenza di una strategia”. Un senso di novità che va però bilanciato con la sensazione che mai come ora la base delle trattative sia estremamente fragile. Terzi ammette che “gli ultimi mesi non sono stati semplici: a marzo il vicepresidente Joe Biden ha dovuto fronteggiare l’annuncio di nuovi insediamenti israeliani e ci ricordiamo tutti i momenti di freddezza fra Obama e Netanyahu qui a Washington. A maggio l’incidente della flottiglia diretta a Gaza sembrava potesse seppellire definitivamente la possibilità di trattative. Invece l’Amministrazione ha potuto organizzare questo giro di colloqui, che a loro volta sono stati segnati dal terribile attentato contro quattro cittadini israeliani a sud di Hebron e da un altro attacco analogo, fortunatamente senza vittime. E’ una situazione delicatissima che il governo americano gestisce con un giusto misto di motivazioni forti e obiettivi realistici”. E l’ambasciatore non manca di sottolineare quanto sia stato significativo il contributo dell’Italia: “L’intervento di Berlusconi alla riunione della Lega araba ha aiutato la giusta disposizione verso i colloqui, così come l’iniziativa di Frattini per caldeggiare una missione umanitaria e diplomatica a Gaza; poi c’è il lavoro quotidiano con il dipartimento di stato e i nostri contatti con Dennis Ross, Jim Steinberg e tutto l’apparato diplomatico sono costanti e proficui”. C’è un trait d’union paradossale nella composizione del tavolo delle trattative: la crisi di leadership dei singoli attori. Con la fine del congelamento degli insediamenti, il 26 settembre, Netanyahu avrà molto da fare per tenere buone le parti più conservatrici della fragile coalizione di governo; il presidente palestinese, Abu Mazen, è assediato da avversari interni ed esterni; l’Egitto si sta preparando a una delicatissima tornata elettorale che coincide con la successione di Mubarak; lo stesso Obama è al minimo della popolarità e le elezioni di mid-term non promettono niente di buono per i democratici. Non è che i colloqui servano anche per scaricare all’esterno le pressioni domestiche? “Le ragioni della politica interna sono un quadro di fondo costante della diplomazia – dice Terzi – ma non esagererei con le interpretazioni machiavelliche: tutti cercano di guadagnare consensi e di rafforzare la propria leadership, ma nello stesso tempo si espongono alla possibilità del fallimento”.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Abu Mazen e Netanyahu al tavolo ogni quindici giorni "


Benjamin Netanyahu, 
 Abu Mazen

Benjamin Netanyahu e Abu Mazen lavorano ad un «Framework Agreement» per porre le basi all’accordo finale e torneranno a incontrarsi il 14 e 15 settembre, forse in Egitto, dando vita a summit ogni due settimane. E’ il primo risultato del rilancio del negoziato diretto fra Israele e Autorità palestinese da parte degli Usa e ad annunciarlo è il mediatore George Mitchell, specificando che l’«accordo quadro» servirà per enumerare i «difficili compromessi» da risolvere nei mesi seguenti. Argomenti che hanno già fatto fallire precedenti negoziati e Mitchell evita perfino di specificarli sebbene tutti sappiano di cosa si tratta: confini definitivi, garanzie di sicurezza, ritorno dei rifugiati, suddivisione delle risorse idriche, sorte dei detenuti palestinesi e status di Gerusalemme.
La piattaforma che esce dal primo incontro al Dipartimento di Stato, dopo la cena alla Casa Bianca della sera prima, è dunque ristretta. Mitchell la riassume così: «Netanyahu e Abu Mazen concordano sulla condanna della violenza di Hamas contro i civili, sull’obiettivo dei due Stati in pace e sicurezza, sulla durata massima di un anno per i negoziati, sul prossimo passo del “Framework Agreement”, su un’atmosfera di fiducia e sul fatto che torneranno ad incontrarsi il 14 e 15 settembre in Medio Oriente per poi vedersi ogni due settimane». La cautela si spiega con il fatto che «sedersi a questo tavolo è stato difficile», riconosce Hillary accogliendo i due leader, ed a confermarlo sono le loro parole subito dopo. Per il premier israeliano i punti di partenza devono essere il «mutuo riconoscimento fra uno Stato palestinese per i palestinesi e uno Stato di Israele per gli ebrei» nonché «garanzie di sicurezza per impedire attacchi contro i civili» mentre il presidente palestinese pensa a tutt’altro: «Nessun’attività di costruzione negli insediamenti e la liberazione dei nostri detenuti». Le differenze sono «molte e profonde», ammette Mitchell ma proprio per questo Hillary parla di un «importante primo passo verso un futuro di pace e dignità per entrambi i popoli» assicurando che «l’America non imporrà soluzioni ma aiuterà a superare gli ostacoli».
L’intesa al momento sembra soprattutto basata sulla comune volontà di arrivarci. «Il popolo di Israele e il suo premier è pronto a fare molta strada in breve tempo per uno storico compromesso» assicura Netanyahu impegnandosi a raggiungere «Shalom, Salam, Pace», e Abu Mazen vuole «dare inizio ad una nuova era». Il leader dell’Anp tuttavia fa sempre attenzione a non parlare a nome dei «palestinesi» ma solo dell’Olp - che esprime Al Fatah, al potere in Cisgiordania - nell’evidente tentativo di non esporsi agli affondi di Hamas che controlla Gaza.
Ciò che conta per Hillary è che il negoziato diretto sia ripreso dopo due anni perché «il processo è sostanza». Gli Usa, con il sostegno di Egitto e Giordania, cercano di spingere i Paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita, a sostenere il negoziato per garantire ad Abu Mazen l’ombrello politico necessario per le scelte difficili che lo attendono. Hillary lo fa capire: «Vi sono Stati che si dicono a favore della nascita dello Stato palestinese ma fanno molto poco per renderlo possibile». Per spingere le capitali arabe Mitchell mette sul piatto il fattore-Iran: «Gli aiuti che fa avere a Hezbollah e Hamas ci ricordano quanto è importante centrare l’obiettivo della pace» per evitare che Teheran sfrutti un eventuale fallimento per rafforzare la propria influenza in Medio Oriente.

La STAMPA - " Tredici gruppi estremisti si coalizzano: Coordineremo gli attacchi contro i sionisti "


Hamas

La risposta dell’ala dura palestinese alla stretta di mano fra Netanyahu e Abu Mazen è arrivata in tarda serata da Gaza. Tredici gruppi estremisti, fra cui il braccio armato di Hamas, hanno annunciato di aver unito le loro forze per coordinare i prossimi attacchi contro Israele. «Abbiamo deciso di creare un centro di coordinamento per le nostre operazioni contro il nemico», ha dichiarato Abu Obeidah, il portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam.
Durante una conferenza stampa a Gaza, Abu Obeidah ha proclamato che «il nemico sionista» sarà colpito «in ogni luogo e in qualsiasi momento». «Tutte le opzioni sono aperte», ha aggiunto, rispondendo a una domanda sulla possibilità che siano lanciati razzi contro Tel Aviv a partire dalla Striscia di Gaza.

La STAMPA - "Barghouti: Lo Stato ebraico non manterrà gli impegni. Trattative destinate a fallire "


Marwan Barghouti

Barghouti dichiara : " Israele  non ha seriamente intenzione di arrivare alla pace e non rispetterà gli impegni presi ". Non si capisce in base a quali elementi Barghouti possa dichiarare una cosa del genere, ma è la solita linea palestinese, attaccare Israele e attribuirgli colpe non sue per affossare il processo di pace.
Ecco il pezzo:

«I negoziati in corso tra Anp e Israele sono destinati al fallimento». È questa l’opinione espressa sulle colonne del giornale arabo Al-Hayat da Marwan Barghouti, leader di Fatah in prigione dal 2002. Barghouti afferma di «sostenere i colloqui in via di principio, ma i palestinesi hanno accettato di avviare le trattative dirette solo in seguito alle pressioni internazionali». A suo giudizio, «Abu Mazen ha accettato di riprendere i colloqui solo per le pressioni arabe, ma non perché sia convinto della serietà dell’iniziativa».
Barghouti ha guidato l’Intifada dopo il fallimento dei negoziati del 2000. «Israele - ha concluso - non ha seriamente intenzione di arrivare alla pace e non rispetterà gli impegni presi».

La REPUBBLICA - Alix Van Buren : "Ci sono distanze incolmabili remote le possibilità di intesa"


Aaron David Miller

«Perché il negoziato fra israeliani e palestinesi approdi a un risultato, il primo ministro Netanyahu e il presidente Abu Mazen devono essere disposti ad avventurarsi su un terreno dove nessuno prima di loro s´è spinto. Un percorso lastricato di incognite». Aaron David Miller sa tutto o quasi di quel «rompicapo», dice, che è il conflitto arabo-israeliano. La sua esperienza come consigliere di sei segretari di Stato americani, il decennio trascorso nella squadra dei negoziatori, dalla Conferenza di Madrid a Camp David, gli suggeriscono «un approccio sobrio» alla nuova tornata di colloqui sul futuro di «una terra troppo promessa. Tanto che finora nessuno è riuscito nell´elusiva ricerca della pace».
Signor Miller, il presidente americano Obama ha dato alle due parti un anno di tempo per sciogliere i nodi più intrattabili del conflitto: Gerusalemme, le frontiere, la sicurezza, i profughi, l´acqua. Ce la faranno?
«Sì, ma solo se vivessimo in un mondo ideale, solo se Netanyahu e Abu Mazen fossero davvero determinati, privi di limitazioni e pressioni esterne, insomma solo se fossero chiusi dentro una stanza sigillata. Siccome siamo in un mondo reale, le possibilità di un´intesa sono remote. Tutt´al più si può sperare in un accordo quadro sui punti centrali. In questo modo, però, l´obiettivo sfugge ancora una volta. In più, resterebbe inesplorata una enorme quantità di dettagli».
I parametri di un accordo sono già noti, e da tempo. Cosa resta ancora da esplorare?
«S´illude chi pensa che la soluzione sia nota a tutti. Il fatto che israeliani e palestinesi discutano da lunghi anni non significa che si siano mai avvicinati a una soluzione, tantomeno una che sia proponibile alla loro base elettorale. Dopo tanto parlare, la distanza sui punti essenziali resta incolmabile, a cominciare da Gerusalemme e i profughi. E i 19 anni trascorsi dall´inizio del processo di pace non sono serviti a migliorare le cose. Anzi, il contrario».
Vale a dire?
«Che l´abisso da colmare s´è approfondito: l´occupazione, la violenza hanno lasciato il segno. È scomparsa la fiducia reciproca, la credibilità dei negoziati è svaporata».
Lei riferì l´esasperazione di Bill Clinton nel ´96, nei confronti di Netanyahu. Sono cambiati ora i rapporti con il premier israeliano?
«In un briefing con noi, il presidente Clinton sbottò: "Chi è la fottuta superpotenza qui?". Ma Netanyahu oggi è un leader molto più maturo. E non si tratta di valutare la sincerità delle singole persone. La questione centrale è la volontà di entrambe le parti nell´affrontare scelte difficili. È la disponibilità a cogliere le necessità e le richieste dell´altro. Questioni che toccano nervi sensibilissimi come la sicurezza fisica, l´identità dei due popoli. Serve coraggio. Non dimentichiamo che trattare la pace è un´attività ad alto rischio, politico ed esistenziale».
A cosa sta pensando, signor Miller?
«Penso al tributo di sangue estratto dagli accordi precedenti: a Sadat e Rabin la pace è costata la vita. Anche noi americani abbiamo pagato, nella storia. Per questo nessuno, neppure Obama, malgrado lui creda nei negoziati, può imporre la propria volontà a chi vive sul filo del rasoio».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Bene l’impegno Usa ma sono pessimista. Non ci sarà accordo "


Sari Nusseibeh

Quando Udg fa notare a Nusseibeh che Netanyahu ha dichiarato di volere che i negoziati con i palestinesi vadano a buon fine, risponde Vede, il problema resta sempre lo stesso: dare contenuto alle parole. Stato palestinese, bene,ma su quali territori, con quale sovranità reale.. I problemi nascono quando si cerca di dare sostanza ai principi. La mia impressione è che, sia pure in modo brillante, Netanyahu faccia il solito gioco delle parti...». Con quale intento? «Quello di guadagnare tempo, trascinando le trattative e intanto con la politica dei fatti compiuti svuotarle di significato ".
Come al solito accuse contro Netanyahu, colpevole di non lasciare che il suo Stato venga cancellato dai terroristi di Hamas.
Il giudizio di Nusseibeh sul fatto che Hamas continui a sparare razzi : "
È quello che gli riesce meglio. Da sempre, purtroppo ". Un po' poco, per definire il terrorismo di Hamas, specie quando i termini che usa per definire il governo israeliano sono più forti.
Ecco l'intervista:

Non bastano le belle parole per scaldare gli animi e ridare speranza ai tanti che l’hanno persa da tempo. Credo nella volontà di cambiamento manifestata dal presidente Obama, ma so anche che la pace non può essere imposta dall’esterno. Per maturare ha bisogno di leadership forti, autorevoli, determinate, capaci di praticare il linguaggio della verità anche se questo significa andare contro corrente. Francamente non mi sembra che queste caratteristiche si addicano ai protagonisti del negoziato apertosi a Washington». A parlare è uno tra i più autorevoli intellettuali palestinesi; Sari Nusseibeh, colomba palestinese e rettore dell’Università «Al Quds» di Gerusalemme Est. Inegoziatidiretti sisonoaperti trasperanza e pessimismo. Come si colloca tra questi due estremi? «Mi iscrivo al partito dei realisti. E dunque portati ad esercitare il pessimismo della ragione. Naturalmente spero di essere smentito dai fatti, ma dubito che ciò avverrà». In campo è sceso Barack Obama... «Un fatto importante che non sottovaluto affatto. Il suo predecessore (George W.Bush) aveva scoperto la centralità della questione israelo-palestinese al termine del suo secondo mandato. Nei tempi, almeno, Obamaha invertito l’agenda mediorientale. Mada solo non può bastare...». Eppure per tanto tempo in passato si è invocata un’azione più stringente da parte americana... «Io sono tra gli invocatori”. E non faccio autocritica per questo. Al tempo stesso, però, ho sempre pensato che una pace giusta e duratura non potrà mai essere imposta dall’esterno. Questa è una visione giacobina delle cose che non mi appartiene. La pace ha bisogno di realizzarsi dal basso e per poterlo fare necessita di leadership forti, autorevoli, motivate, che hanno il coraggio di parlare alla loro gente il linguaggio della verità e di andare controcorrente se ciò è necessario. Francamente non mi sembra che queste caratteristiche si addicano ai protagonisti del negoziato di Washington». NetanyahuhariconosciutoAbuMazen come partner di pace. «Vorrei vedere che non lo avesse detto. Abu Mazen è riconosciuto dagli Stati Uniti: sconfessarlo in questa solenne occasione da parte di Netanyahu sarebbe stato un affronto clamoroso adObama.Troppo anche per il primo ministro di un governo, quello israeliano, di cui fanno parte ministri e leader di partito che ritengono l’attuale presidente Usa un avversario se non addirittura un nemico». Insisto:Netanyahu haparlato di una pace vera, definitiva... «Vede, il problema resta sempre lo stesso: dare contenuto alle parole. Stato palestinese, bene,ma su quali territori, con quale sovranità reale.. I problemi nascono quando si cerca di dare sostanza ai principi. La mia impressione è che, sia pure in modo brillante, Netanyahu faccia il solito gioco delle parti...». Con quale intento? «Quello di guadagnare tempo, trascinando le trattative e intanto con la politica dei fatti compiuti svuotarle di significato». Il dialogo resta un’illusione? «Ritengo che non ci sia niente di più sbagliato che impelagarsi nella diatriba trattative sì-trattative no..Per quanto mi riguarda, il dialogo non ha alternative. Ma allo stesso tempo, occorre imparare dai fallimenti del passato per non imboccare la stessa strada...». In concreto? «Non basta mettere su carta un punto di intesa. Quell’intesa va poi applicata e dunque occorre indicare tempi, modi, responsabilità per la sua realizzazione». Abu Mazen ha chiesto lo stop della colonizzazione dei Territori... «Netanyahuha glissato, anche perché se accettasse si troverebbe di fronte a una cisi di Governo. E non credo che il primo ministro israeliano intenda pagare questo prezzo ». Hamas spara, non metaforicamente sul negoziato... «È quello che gli riesce meglio. Da sempre, purtroppo»

Il MANIFESTO - Maurizio Matteuzzi : " Il peso di Obama "

Matteuzzi scrive : "dopo che Ben Gurion aveva proclamato unilateralmente la nascita di Israele ". Israele non è stato fondato con una proclamazione unilaterale di Ben Gurion, ma in base a una risoluzione dell'Onu.
L'alleanza fra Israele e Usa viene definita "
rapporto speciale, e perverso", non è ben chiaro perchè. Forse perchè per Matteuzzi l'unica cosa non perversa sarebbe stata permettere ai Paesi arabi limitrofi di cancellare Israele nel giorno stesso in cui è nato.
Matteuzzi continua : "
Non tutti i presidenti sono stati uguali ma, alla fine e finora, tutti quelli da Johnson a Obama tutti ugualmente succubi della poltica espansionista, annessionista e razzista di Israele.". Questa teoria assurda di Israele che manovra il mondo grazie a una potentissima lobby è, oltre che un pregiudizio antisemita, una menzogna. 
Ciò che interessa a Israele è la pace. Non è stato Israele a rifiutare lo Stato palestinese nel 1948, nè ad attaccare i Paesi confinanti.
La formula adottata per anni dallo Stato ebraico è stata 'territori in cambio di pace', una formula che non ha portato a risultati positivi, Gaza ne è l'esempio più lampante.
Matteuzzi continua : "
Ora, a Washington, ci riprova Obama che – dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan, la riforma sanitaria, la crisi economica e il salvataggio delle banche, il golfo del Messico e in attesa dell’Iran – si prova a mettere mano a un altro nodo spinosissimo. Con poche o nulle probabilità di successo.". Sant'Obama, pensaci tu. Curioso come Matteuzzi abbia trasformato gli insuccessi di Obama in successi, pur di screditare Israele.
Iraq, Afghanistan, riforma sanitaria semiabortita, crisi economica, disastro ecologico nel golfo del Messico, nucleare iraniano, sarebbero successi di Obama? Se i risultati positivi sono questi...
Secondo Matteuzzi i negoziati sono destinati a fallire, per colpa di Israele, ovviamente...la controparte palestinese non è mai responsabile di nulla, si capisce : "
Perché lo stato di Israele, e – please, non prendiamoci in giro – i suoi governi di sinistra o di destra non hanno mai voluto davvero arrivare a una pace minimamente equa con i palestinesi (con le uniche eccezioni, forse, dei premier Moshe Sharrett a metà degli anni cinquanta e Yitzhak Rabin a metà degli anni novanta, prima di essere assassinato da un estremista ebreo), né sulla base della formula «due popoli per due stati» o «la terra in cambio della pace», né sulla base, più ambiziosa, di «uno stato unico binazionale». ". Il progetto di uno stato unico binazionale non è 'ambizioso', ma un modo per cancellare Israele.
Matteuzzi scrive : "
Obama ci prova come ci hanno provato altri presidenti americani prima di lui ". Se i negoziati falliranno, non sarà per colpa di Israele, come non lo è stata in passato. Ricordiamo allo smemorato Matteuzzi che, dal '48 fino ad oggi, sono stati gli arabi a rifiutare qualunque compromesso.
Consigliamo allo smemorato Matteuzzi la lettura di un buon manuale di storia, gli sarà d'aiuto per districarsi meglio nel conflitto mediorientale e per evitare sfondoni negli articoli che scrive.
Ecco il pezzo:

Quando il presidente Truman il 14 maggio 1948, solo 11 minuti dopo che Ben Gurion aveva proclamato unilateralmente la nascita di Israele, fu il primo a riconoscere l’indipendenza de facto dello stato ebraico, cominciò quel rapporto speciale, e perverso, che nei successivi 62 anni ha portato a una sorta di alleanza ancora prima che strategica, automatica fra gli Usa e Israele. Da allora, rispetto alle relazioni con Israele, non si può certo dire che i presidenti Usa, repubblicani o democratici, siano stati tutti uguali. La politica Truman fu di simpatia e di «acquiescenza ». La politica di «neutralità» e di contrasto (di fronte all’avventura di Francia-Inghilterra e Israele durante la crisi di Suez nel cinquantasei) dell’amministrazione Eisenhower, fu del tutto diversa – e opposta - a quelle successive all’assassinio di J.F.Kennedy nel sessantatre a Dallas. Il «turning point» nei rapporti Usa-Israele e Usa-paesi arabi arrivò con la guerra dei Sei giorni nel sessantasette e con l’amministrazione Johnson, «una presidenza tragica» l’ha definita qualcuno, in cui gli Stati uniti persero la loro immagine di potenza positiva e «imparziale» per acquisire quella di paese «più odiato del Medio Oriente». Non tutti i presidenti sono stati uguali ma, alla fine e finora, tutti quelli da Johnson a Obama tutti ugualmente succubi della poltica espansionista, annessionista e razzista di Israele. Ora, a Washington, ci riprova Obama che – dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan, la riforma sanitaria, la crisi economica e il salvataggio delle banche, il golfo del Messico e in attesa dell’Iran – si prova a mettere mano a un altro nodo spinosissimo. Con poche o nulle probabilità di successo. E portandosi sulle spalle il peso dei fallimenti, subiti o cercati, dei suoi predecessori. Perché, nonostante quello che ci sentiamo ripetere da molte parti e «la causa palestinese» abbia perso molto del suo appeal, il conflitto Israele-Palestina è stato sempre – e resta – all’origine dell’impossibile pacificazione del mondo arabo-islamico, dell’insorgere del fondamentalismo terrorista e dello «scontro di civiltà» in questi ultimi dieci-vent’anni. Perché lo stato di Israele, e – please, non prendiamoci in giro – i suoi governi di sinistra o di destra non hanno mai voluto davvero arrivare a una pace minimamente equa con i palestinesi (con le uniche eccezioni, forse, dei premier Moshe Sharrett a metà degli anni cinquanta e Yitzhak Rabin a metà degli anni novanta, prima di essere assassinato da un estremista ebreo), né sulla base della formula «due popoli per due stati» o «la terra in cambio della pace», né sulla base, più ambiziosa, di «uno stato unico binazionale». Perché lo stato di Israele, con la sua deriva confessional- militar-estremista – il premier Netanyahu, il ministro degli esteri Lieberman ma anche il laburista Barak e il «compagno» Peres presidente della repubblica – e grazie alla sua alleanza automatica con gli Usa, è riuscito ad annegare la lotta dei palestinesi per un proprio stato e per i diritti civili e umani nel grande e indistinto mare del «terrorismo islamico» (come se la vittoria elettorale e il «successo» di Hamas a Gaza fossero dovuti al terrorismo...). E anche perché - sia chiaro – il campo palestinese è stato via via corroso e minato da errori, divisioni, corruzione, eccessi, debolezze. Fino al punto di arrivare a Washington con la faccia da eterno sconfitto di Abu Mazen, un personaggio ormai privo di qualsiasi autorità e rappresentatività (che non sia quella conferitagli, non gratis, da israeliani e americani). Obama ci prova tenendo fede e cercando di dare un seguito pratico al famoso discorso prununciato all’unversità del Cairo nel duemilanove. Ma la sua è una missione impossibile, stando così le cose e visti i rapporti di forza fra israeliani e palestinesi. Il primo punto che Netanyahu ha voluto mettere in chiaro arrivando a Washington è che non fermerà l’avanzata delle colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme che si sono già divorate l’ottanta per cento della West Bank e della parte araba della maledetta città santa. Obama ci prova come ci hanno provato altri presidenti americani prima di lui. Il democratico (e vituperato) Carter con l’israeliano Begin e l’egiziano Sadat nel settantotto a Camp David; il repubblicano (e amico) Reagan con il suo «piano di pace» dell’ottantadue (respinto da Israele); il segretario di stato reaganiano Shultz con la «iniziativa di pace» nell’ottantotto (respinta da Israele); il repubblicano Bush padre con la sponsorizzazione della conferenza di pace a Madrid nel novantuno; il democratico (e fotogenico) Clinton a Oslo e a Washington nel novantatre quando fece da padrino alla famosa stretta di mano fra Rabin e Arafat, poi a Wye Plantation nel novantotto con Netanyahu e Arafat, poi a Camp David nel duemila con Arafat e Barak; il repubblicano Bush figlio, dopo l’incontro ad Aqaba fra Sharon e Abu Mazen, con il lancio della «Road map» nel duemilatre e poi ad Annapolis nel duemilasette con Abu Mazen e Olmert. Carta straccia. Ora è il turno del generoso Obama. Che dice che si può arrivare alla pace entro un anno...

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