Durante lo Shabbat in Israele non escono i giornali, per cui l'informazione è limitata a internet e a pochi altri canali. L'annuncio alquanto trionfale che proviene dalla Casa Bianca sulla ripresa a Washington dei colloqui diretti sembra essere lontano dalla realtà che appare dalle dichiarazioni dei leader palestinesi. Intanto le precondizioni ci sono tutte, nessuna esclusa, per cui non si capisce quale significato abbia il si di Abu Mazen alla ripresa dei colloqui.
Riportiamo da LIBERO di oggi, 21/08/2010, a pag. 19, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Obama cede a Israele: via al vertice per la pace", l'articolo di Glauco Maggi dal titolo " Barack si ricorda di essere premio Nobel ". Dal GIORNALE, a pag. 14, l'articolo di R. A. Segre dal titolo " Israele e Palestina tornano a parlarsi, non ad ascoltarsi ". Dalla STAMPA, a pag. 7, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Gaza Sinai e colonie. il risiko degli scambi ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-18, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Obama ora riapre il tavolo di pace tra Israele e i palestinesi ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-27, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo " La scommessa ", preceduto dal nostro commento. Dall'UNITA', a pag. 23, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Yasser Rabbo dal titolo " Il leader dell’Olp: Questa volta proibito fallire ", preceduta dal nostro commento. Dal SOLE 24 ORE, a pag. 9, l'articolo di Ugo Tramballi dal titolo " Obama riporta al tavolo dei colloqui Israele e palestinesi ", preceduto dal nostro commento. Dal MANIFESTO, a pag. 8, la cronaca di Michele Giorgio dal titolo " Appuntamento al buio ", preceduto dal nostro commento.
Ecco gli articoli:
LIBERO - Carlo Panella : " Obama cede a Israele: via al vertice per la pace"

Carlo Panella
Hillary Clinton ha annunciato ufficialmente ieri che colloqui diretti tra israeliani e palestinesi, dovrebbero ripartire a Washington il 2 settembre, con un vertice a tre tra Barack Obama, Bibi Netanyahu e Abu Mazen. La Clinton ha poi aggiunto una postilla fondamentale, in cui è racchiuso il pieno fallimento politico sul tema da parte di Obama e il senso drammatico delle vere ragioni per cui Abu Mazen, obtorto collo, li ha accettati: «I negoziati avranno luogo senza precondizioni». Il disastroèchesin dall’inizio della sua presidenza Obama aveva tentato di imporre una determinate e vincolante “pre - condizione”, che ora si è dovuto rimangiare. Incontrando infatti per la prima volta alla Casa Bianca Netanyahu il 12 maggio del 2009, Obama gli aveva detto che per accedere ai negoziati Israele avrebbe dovuto congelare completamente la politica di insediamenti, anche aGerusalemme. Questa erala precondizione chiesta da Abu Mazen e dagli arabi. Ma quando Netanyahu ha risposto picche e ha rifiutato di congelare gli insediamenti, Obama non ha più saputo che fare, tranne che tirarla per le lunghe, impegnando il suo fiduciario George Mitchell in una serie infinite di viaggi tra Gersualemme, Ramallah e le capitali arabe. Obama insomma ha fatto perdere 16 mesi di tempo alle trattative, mentre precipitava verso lo zero il patrimonio di credibilità che si era conquistato in un mondo arabo convinto che fosse il primo presidente Usa a saper imporre condizioni a Israele.Ora Obamaprende atto di avere sbagliato,e nonsolo ritira le precondizioni richieste a Netanyahu, ma è costretto a imporre ad Abu Mazen e alla Lega araba a rinunciarvi. La ragione di questa poco onorevole giravolta da dilettante è semplice. Obama ha dovuto prendere atto di avere sbagliato completamente strategia nei confronti dell’Iran, basata sulla sua certezza che gli iraniani avrebbero corrisposto alla sua politica di mano tesa. L’Iran invece è andato dritto per la sua strada, mentre la Siria (pedina fondamentale nello schema obamiano) ha rafforzato invece che allentare la sua alleanza con un Ahmadinejad che ha continuato nel suo classico gioco di rilancio di trattative sempre più truffaldine (l’ultima disponibilità a trattare l’ha rilanciata ieri, ma senza offrire alcuna seria proposta che eviti che l’ura - nio arricchito all’estero, non venga poi ulteriormente arricchito in Iran, sino a essere impiegabile per una bomba atomica). Un quadro tanto fosco che i paesi arabi (innanzitutto Arabia Saudita, Egitto, Emirati del Golfo e Giordania). sono entrati nel panico di fronte alla prospettiva di un Iran che - grazie alla inefficacia della strategia di Obama - da qui a qualche decina di mesi possa minacciarli con un armamento atomico supportato da un apparato missilistico aggressivo di primo ordine. Da qui, il fiorire di autorevoli indiscrezioni sul concreto (ma ipocrita e clandestino) appoggio militare che Ryad e il Cairo si apprestano a dare ad Israele se la situazione imponesse una reazione militare contro Teheran. Da qui, la decisione (condivisa da Ryad e Cairo) di forzare su un accordo tra Abu Mazen e Netanyahu, anche al ribasso (dal punto di vista arabo), che emargini e isoli gli alleati dell’Iran (Siria, Hamas ed Hezbollah) e che permetta loro però di presentarsi innanzitutto sul piano interno, ma anche su quello dellaumma musulmana, come coloro che hanno imposto la fine e la pace in un conflitto che lacera il mondo islamico da 90 anni. Percorso tortuoso, premessa per trattative complesse e con poche speranze di buon esito, anche perché Iran e Siria hanno tutto l’agio di sabotare la trattativa facendo incendiare i confini di Israele (come hanno fatto nei giorni scorsi) da Hamas e Hezbollah.
LIBERO - Glauco Maggi : " Barack si ricorda di essere premio Nobel "

Via libera a colloqui di pace diretti tra israeliani e palestinesi, che partiranno in settembre e dureranno un anno, e rassicurazione da parte del governo Obama che l’Iran è ancora lontano, almeno un anno, dal disporre della quantità di uranio arricchito per potersi fare una bomba nucleare. Due buone notizie per Gerusalemme o l’ennesima, doppia, illusione? Il passato non induce ad alcun ottimismo, ma la diplomazia è un gatto dalle sette vite e oggi ci riprova. Speriamo bene. In Palestina, i tentativi di ricomporre il dissidio tra i duepopoli, promossi per decenni dai presidenti americani fin dai tempi di Carter, sonosempreabortiti in crescente animosità e radicalizzazione; e oggi, dal rilanciato tavolo per la pace annunciato dal segretario di Stato Hillary Clinton, è peraltro assente la fazione di Hamas che controlla Gaza ehagiurato di voler combattere fino alla distruzione di Israele. La Casa Bianca, insomma, dopo mesi di irrigidimento, torna a essere un centro di mediazione per il Medio Oriente. Anche se i critici sottolineano come Obama si sia ricordato di essere Nobel per la Pace quando mancano pochi mesi al voto, e potrà presentare all’elettorato il vertice come un successo personale. Quanto all’Iran, gli Usa avevano tutto l’interesse a convincere il premier Netanyahu che la corsa di Teheran a diventare una potenza atomica va a rilento: negli ultimi giorni erano circolate voci insistenti che Israele stesse valutandounraid militare per distruggere gliimpianti iraniani, per precedere il prossimo annunciato avvio delle procedure di arricchimento dell’uranio. Un bombardamento delle centrali a quel punto si sarebbe risolto in una contaminazione radioattiva nell’intera regione, e ciò avrebbe di fatto impedito a Gerusalemme di intervenire. Il governo israeliano pare ora che si sia convinto delle prove portate dagli uomini di Obama, e quindi l’azione di forza che avrebbe incendiato il mediooriente è stata per ora scongiurata. Israele-Palestina.Hillary Clinton ha invitato ufficialmente le due parti, che hanno accettato, a tenere colloqui diretti a Washington dal prossimo 2 settembre. Il premier israeliano Netanyahu e il presidente della Autorità Palestinese Abu Mazen hanno concordato di porre il limite di un anno ai negoziati, che verteranno su tutti i problemi alla base del conflitto: i confini del nuovo stato palestinese che dovrebbe convivere in pace fianco a fianco con Israele; lo stato politico di Gerusalemme, che gli uni e gli altri considerano come la propria futura capitale; le garanzie di sicurezza per Israele, perennemente minacciata dai razzi e dagli attentati degli estremisti palestinesi e da Hamas; l’allungamento per un anno della moratoria alla costruzione di nuovi insediamenti; il diritto del ritorno a casa per i rifugiati palestinesi. Israele-Iran. Per l’amministrazione Obama ci sono prove di problemi e ostacoli che stanno frenando la marcia di Teheran al nucleare, e ciò avrebbe persuaso Netanyahu a riporre l’idea di una azione militare immediata. Hanno davanti ancora almeno un anno, ha detto Gary Samore, il consigliere di Obama per le questioni nucleari. Entro qualche settimana gli ispettori internazionali dovrebbero poter definire quanto manca al traguardo della conversione dell’uranio attualmente stipato nelle centrali iraniane in uranio arricchito e utilizzabile per diventare una bomba. Se Teheran impedisse agli osservatori della agenzia nucleare dell’Onu l’acces - so, ovviamente, ciò sarebbe la prova che il tempo stringe e Israele ed Usa dovrebbero decidere la risposta. Per ora, i tecnici americani sono convinti che le operazioni iraniane hanno mostrato un certo rallentamento, anche se non sanno quali fattori abbiano inciso di più.
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Israele e Palestina tornano a parlarsi, non ad ascoltarsi "

R. A. Segre
Se la notizia della ripresa a Washington, in presenza del presidente americano, di negoziati diretti fra israeliani e palestinesi in autunno sarà confermata si verificherà una paradossale situazione: Barack Obama, Benjamin Natanyahu e Abu Mazen agiranno in funzione delle loro politiche interne mentre il futuro del conflitto dipenderà dalla situazione in Irak e Turchia. Per il presidente americano l’importante è che questi incontri avvengano prima delle elezioni di metà mandato in novembre. Nessuna iniezione di popolarità sarebbe per lui più utile di una stretta di mano, in suo presenza, fra Abu Mazen e Netanyahu sul prato della Casa Bianca. Quello che succederà dentro all’immobile presidenziale non avrà molta importanza poiché usare colloqui per guadagnare tempo è meglio che assumersi la responsabilità di un (probabile) fallimento.
Per il premier israeliano, si tratta di evitare che il partito di destra Israel Beitenu, guidato da Avigdor Lieberman, lasci la coalizione. Ma il ministro degli Esteri non intende favorire l’entrata del partito d’opposizione di Tzipi Livni, Kadima, al suo posto mentre partiti religiosi accetteranno il prolungamento del congelamento delle costruzioni in cambio di favori economici.
Per Abu Mazen, trattare direttamente con Netanyahu significa andare a Canossa a Washington nonostante le minacce dei rivali di Hamas, da Gaza. L’alternativa è perderne il loro sostegno politico assieme agli aiuti economici di Paesi arabi convinti che il prolungarsi del conflitto giochi a favore del radicalismo islamico e dell’Iran.
Se le considerazioni di politica interna appaiono determinanti se non altro per la ripresa dei colloqui, lo sviluppo della situazione in Irak e la posizione della Turchia potrebbe avere influenza sui loro risultati. La ritirata dell’America dall’Irak aumenta certo - come spiegava Gian Micalessin sul Giornale - il rischio della sua balcanizzazione. Ma anche quello della sua dirigenza di finire ammazzata e dunque spingerla a una maggiore collaborazione. Ciò che questa ritirata cambia è la dipendenza dalla collaborazione turca necessaria per fare la guerra. Questo significa che la minoranza curda in Irak, la sola militarmente organizzata ed economicamente in sviluppo, non sarà più limitata come prima nel suo sostegno ai curdi di Turchia.
In questo Ankara vede già l’influenza di Israele. Ha denunciato come un complotto di Tel Aviv il fatto che i curdi avessero la tregua unilaterale in coincidenza con il tentativo della nave Marmara di entrare a Gaza. Pensa all’intervento israeliano nella minaccia di Washington di limitare la fornitura di armi a causa del sostegno all’Iran. Teme che il Congresso di Washington riapra la questione del genocidio armeno e che la visita di Netanyahu ad Atene -nemico storico della Turchia ma con tradizionali rapporti di amicizia con i palestinesi - ostacolino gli sforzi di Ankara di erigersi a nuovo paladino della causa palestinese (oltre a rinforzare l’opposizione internazionale all’occupazione turca di un terzo di Cipro, principale ostacolo all’entrata della Turchia in Europa).
La Turchia assumerà la prossima presidenza del Consiglio di Sicurezza davanti al quale sono pendenti molte questioni contro Israele. Dal modo in cui la presidenza turca li tratterà sarà possibile capire se i rinnovati negoziati israelo-palestinesi resteranno un dialogo fra sordi. Finale quasi scontato, tra governanti interessati a guadagnare tempo piuttosto che prendere difficili decisioni in un conflitto che tutti affermano voler vedere finire ma nessuno lo desidera veramente.
La STAMPA - Aldo Baquis : " Gaza Sinai e colonie. il risiko degli scambi "



Ehud Olmert, Avigdor Lieberman, Giora Eiland
Circa i futuri confini dello Stato palestinese, il principale punto di riferimento per i mediatori statunitensi sono le proposte avanzate il 16 settembre 2008 dall’allora premier di Israele Ehud Olmert al presidente dell’Anp Abu Mazen. Ma Olmert era in quei mesi indebolito dal moltiplicarsi di inchieste giudiziarie e dai contraccolpi della guerra in Libano e Abu Mazen si limitò a prendere nota della proposte israeliane, che a suo parere impegnano anche il governo attuale di Benyamin Netanyahu.
L’offerta di Olmert
Olmert propose all’Anp uno scambio di territori in cui Israele avrebbe ricevuto il 6,3 per cento della Cisgiordania e ceduto in cambio zone limitrofe equivalenti al 5,8 per cento. Israele intendeva annettersi le aree cisgiordane più popolate da coloni, a Ovest della Barriera di sicurezza, mentre avrebbe sgomberato decine di migliaia di coloni residenti a Est della Barriera. La Cisgiordania avrebbe ricevuto zone agricole israeliane a Nord (in direzione di Beit Shean), in prossimità di Gerusalemme e a Sud nel deserto di Giudea, in direzione di Arad. Anche la Striscia di Gaza si sarebbe allargata, acquisendo zone agricole del Neghev. Olmert offriva inoltre un corridoio terrestre extraterritoriale fra la Cisgiordania e Gaza e la spartizione di Gerusalemme: anche nel cosiddetto «Sacro Bacino» attorno alle mura della Città Vecchia. «Purtroppo - ha lamentato Olmert mesi fa - dai palestinesi non abbiamo mai ricevuto alcuna risposta ufficiale».
Le revisioni di Lieberman
Più prudente è la posizione dell’attuale premier Netanyahu, favorevole allo costituzione di uno Stato palestinese disarmato accanto a un Israele «riconosciuto dai palestinesi come Stato ebraico». Il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman - suo principale alleato di governo - ha avvertito che accordi basati sul semplice scambio di territori non durerebbero a lungo e che essi vanno accompagnati da scambi di popolazione. Dal Caucaso ai Balcani, dal Belgio al Canada l’esperienza mondiale dimostra - secondo il partito di Lieberman, Israel Beitenu - che in conflitti etnici occorre puntare «alla massima separazione» possibile.
Come Olmert, anche Lieberman ritiene necessario che Israele annetta le colonie a Ovest della Barriera di sicurezza. Ma occorre in parallelo ridurre la percentuale degli arabi cittadini di Israele. Secondo Lieberman, dovrebbero passare al futuro Stato palestinese zone israeliane fittamente abitate da arabi e limitrofe alla Cisgiordania: il Wadi Ara, Baka el Gharbia e, nella zona centrale di Israele, l’area prevalentemente araba di Taybeh. Complessivamente 230 mila arabi ai quali, di fatto, verrebbe negata la cittadinanza israeliana.
La proposta di Eiland
L’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Giora Eiland è giunto alla conclusione che il massimo che una leadership israeliana possa offrire ai palestinesi restando al governo è molto lontano dal minimo che la leadership palestinese può accettare senza perdere la legittimità.
«Occorre allargare la torta», ha spiegato mesi fa Eiland. La Striscia di Gaza (oggi 360 chilometri quadrati) dovrebbe ricevere nel Sinai dall’Egitto 700 Kmq: sulla costa del Mediterraneo i palestinesi allestirebbero un porto e un aeroporto. Israele si annetterebbe 700 Kmq della Cisgiordania, riducendo in numero sensibile il numero dei coloni da allontanare. L'Egitto riceverebbe una cospicua fetta del Neghev israeliano e un passaggio terrestre a Nord di Eilat, che consentirebbe il transito di persone e merci dal Sinai all’Arabia Saudita. E la Giordania si sentirebbe più protetta dal suo «incubo n. 1»: che dopo la costituzione di uno Stato palestinese Hamas ne assuma il controllo, destabilizzando il regime hashemita.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Obama ora riapre il tavolo di pace tra Israele e i palestinesi "

Guido Olimpio
Un tracciato quasi parallelo per riavviare il negoziato Israele-Palestinesi ed evitare che fiamme di guerra avvolgano l’Iran. Barack Obama ottiene la ripresa delle trattative di pace chiamando a Washington il 2 settembre l’israeliano Netanyahu e il palestinese Abu Mazen. Hillary Clinton annuncia che gli Stati Uniti si aspettano di «risolvere la questione entro un anno». E allo stesso tempo il presidente americano prova a rassicurare Gerusalemme sulla minaccia nucleare iraniana. Operazione non facile viste le informazioni contrastanti su quanto combinano i mullah nei loro siti segreti, protetti da tunnel e strati di cemento. Il dove, il quando e il perché sono le sole certezze. A Washington. Il 2 settembre. Per guardarsi in faccia e parlare, finalmente. Dopo 62 anni di conflitto, dopo un’infinita serie d’accordi firmati e quasi mai rispettati, da Oslo a Wye Plantation, da Camp David ad Annapolis, dopo venti mesi di gelido silenzio, d’insediamenti congelati e scongelati, di calde aperture e di docce ghiacciate, dopo una sfinente trattativa, riprendono i negoziati diretti fra palestinesi e israeliani: il presidente Abu Mazen e il premier Bibi Netanyahu hanno detto sì a Barack Obama. Colloqui «senza precondizioni». C’è l’annuncio solenne di Hillary Clinton: vogliamo «risolvere in un anno la questione dello status finale», dice il segretario di Stato americano, «con israeliani e palestinesi che vivono in pace e sicurezza, l’uno accanto all’altro». C’è l’invito formale del Quartetto, ovvero Usa, Ue, Onu e Russia. C’è l’adesione di Hosni Mubarak faraone d’Egitto e di Abdallah re di Giordania, invitati pure loro alla Casa Bianca «in considerazione del loro ruolo». C’è l’invito accettato dagl’israeliani, molto freddo: «Raggiungere un accordo è difficile, ma non impossibile», prevede Netanyahu prima di buttarsi nel riposo dello Shabbat. C’è il formalissimo ringraziamento palestinese: «Il documento del Quartetto contiene gli elementi necessari ad assicurare un accordo di pace», risponde il mediatore Saeb Erekat, rompendo il venerdì di Ramadan.
Vedersi, parlarsi. Per dirsi che cosa, è tutto da vedere. Fino a giovedì sera l’inviato di Obama per il Medioriente, George Mitchell, ha dovuto negoziare ogni parola dell’annuncio. Anche Usa e Ue, Russia e Onu erano divisi, c’era chi avrebbe preferito il Cairo come sede dei colloqui. Gli americani però avevano fretta — il 26 settembre finisce il congelamento delle nuove costruzioni israeliane a Gerusalemme Est e negl’insediamenti, impensabile sedersi a un tavolo con le ruspe al lavoro — e volevano giocare in casa. Senza nascondersi l’enormità dei nodi da sciogliere. «Ci sono state difficoltà in passato — avverte la Clinton —, ce ne saranno in futuro».
Le precondizioni, in realtà, esistono. E le posizioni sui due popoli e i due Stati, sui 600mila coloni israeliani, sul ritorno dei profughi palestinesi del ’48 e soprattutto su Gerusalemme, sono lontanissime.
Abu Mazen s’è lasciato convincere al negoziato diretto dall’emissario di Mubarak, Omar Suleiman, ma ha già fissato i paletti con la Lega araba: ritorno ai confini del 1967; Gerusalemme capitale anche della Palestina; fine dell’occupazione di Giudea e Samaria, come le chiamano gl’israeliani; proclamazione dello Stato nel 2012. Netanyahu ha dovuto cedere alle minacce di crisi dell’alleato laburista, Ehud Barak, ma ha chiesto che nell’invito a trattare non ci fossero troppi accenni alle risoluzioni Onu (e infatti il Quartetto, stavolta, evita di citare lo stop agl’insediamenti): Bibi è disposto a cedere il controllo del 90% della Cisgiordania e a ritirare 50mila coloni, ma non vuole il ritorno alle mappe del ’67 e, di conseguenza, nemmeno discutere sullo status di Gerusalemme «capitale unica e indivisibile» d’Israele. Non solo: i palestinesi chiedono che si stili un’agenda dei colloqui, come s’è sempre fatto da Madrid 1990 in poi, ma gl’israeliani — essendo i colloqui senza precondizioni — rifiutano scadenze e priorità. Molti se, troppi ma. Ad Abu Mazen, presidente dimezzato, è già arrivato il no di Hamas, che considera inutile ogni negoziato. Netanyahu deve rispondere alla sua fragile maggioranza: dei ministri che contano («la banda dei 7», la chiama in privato Mitchell), solo l’ala sinistra di Barak e Dan Meridor vuole un accordo flessibile sulle colonie, mentre le destre di Avigdor Lieberman, Moshe Yaalov, Benny Begin ed Eli Yishai sono contrarissime a ogni concessione sugl’insediamenti. Da Obama, i due negoziatori sembreranno strabici: fingeranno di guardarsi in faccia, ma si guarderanno bene le spalle.
La REPUBBLICA - Lucio Caracciolo : " La scommessa "

Lucio Caracciolo
Caracciolo scrive : " La scommessa di Obama non ha perciò nulla a che vedere con il "processo di Annapolis" allestito in extremis da Bush figlio e abortito dopo pochi mesi. In quel caso il mantra dei "due Stati" non intendeva spingere Gerusalemme a concessioni di fondo, ma a costruire una coalizione fra israeliani e arabi sunniti contro l´Iran.". Il processo di Annapolis non è fallito per colpa di Israele o di Bush, ma grazie ai rifiuti della controparte palestinese.
"Oggi, oltre a sciogliere il nodo israelo–palestinese, si tratta semmai di prendere altro tempo nella partita persiana, evitando un attacco preventivo dello Stato ebraico contro Teheran, dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.". Con questa frase Caracciolo trasforma la vittima in carnefice. Ora ad essere in pericolo sarebbe l'Iran? Ahmadinejad minaccia quotidianamente Israele e continua col suo programma nucleare nell'indifferenza globale. Un ipotetico intervento israeliano sarebbe a scopo difensivo, non aggressivo.
Caracciolo ripete la solita storia secondo la quale Netanyahu sarebbe in grado di far naufragare Obama : "Netanyahu poi non è solo il primo ministro di Israele, ma un attore della vita politica americana, da sempre schierato con i "falchi" repubblicani. Dunque un avversario interno di Obama. Ossia un amico di chi conta di mandarlo a casa nel 2012. Operazione cui Netanyahu darebbe volentieri il suo contributo. ". Una teoria assurda. Ciò che interessa al governo israeliano è raggiungere un accordo e la sicurezza dei suoi cittadini. Di sicuro il premier israeliano non è in grado di influenzare la vita politica statunitense.
"Per creare la Palestina mancano dunque le condizioni. Non c´è territorio sufficiente, perché Gaza resta in mano a Hamas mentre in Cisgiordania avanzano i coloni israeliani, contro i quali Netanyahu non ha certo intenzione di scatenare la guerra civile. Non c´è unità politica, né tantomeno una leadership presentabile. Esiste un popolo palestinese, sofferente e largamente in diaspora (?!?), non una nazione.". Caracciolo dimentica la condizione principale che ha impedito ai palestinesi di avere uno Stato: il rifiuto degli Stati arabi limitrofi nel '48. Col passare degli anni, nel corso delle diverse trattative, i palestinesi sono stati ad un passo dall'ottenere una nazione, ma grazie ai loro leader come Arafat, è fallito tutto.
Ecco l'articolo:
Adesso per Obama o la va o la spacca. O riesce a ottenere entro un anno da Netanyahu e da Abu Mazen un accordo di pace, o perde la faccia. E con essa, fra due anni, forse anche la Casa Bianca. La decisione di convocare il primo ministro israeliano e il presidente dell´Autorità nazionale palestinese a Washington il 2 settembre, per avviare il negoziato che dovrebbe sfociare entro un anno nell´ormai mitica soluzione "due Stati per due popoli", è un atto di coraggio del leader americano. Il coraggio della disperazione. Perché le possibilità di successo appaiono molto modeste. Tutto, sul terreno, sembra cospirare contro la pace. Eppure il presidente ha deciso di giocare il jolly, spingendo israeliani e palestinesi a discutere dello status finale dei Territori occupati. Comprese le questioni apparentemente irresolubili, a cominciare da Gerusalemme.
Della buona fede di Obama non merita dubitare. Così come della sua convinzione che il contenzioso israelo-palestinese sia il cuore di tutte le crisi mediorientali. Sicché risolverlo è priorità di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Solo disinnescando quella mina permanente, che alimenta il jihadismo e l´antimericanismo nel mondo islamico, si potrà stabilizzare il Medio Oriente e riaffermarvi il primato di Washington. Teorema forse troppo cartesiano, ma di cui questa Casa Bianca pare convinta.
L´impegno di Obama per la pace in Terrasanta scaturisce quindi dalla necessità di proteggere vitali interessi americani. Il presidente e la sua squadra diplomatica non intendono limitarsi a incoraggiare il dialogo a due. Si considerano mediatori attivi, con il sostegno di una variopinta coalizione di "amici e alleati", arabi filoccidentali in testa. Una rivendicazione importante, perché, se intesa seriamente, implica che per sbloccare lo stallo fra le parti gli Usa avanzeranno proprie proposte di soluzione. Con il rischio di vedersele rigettare e di fungere quindi da capro espiatorio del fallimento prodotto dalle altrui intransigenze. Distruggendo la residua credibilità di cui ancora dispongono in una regione dove negli ultimi anni sono passati da un disastro (Iraq) all´altro (Afghanistan).
La scommessa di Obama non ha perciò nulla a che vedere con il "processo di Annapolis" allestito in extremis da Bush figlio e abortito dopo pochi mesi. In quel caso il mantra dei "due Stati" non intendeva spingere Gerusalemme a concessioni di fondo, ma a costruire una coalizione fra israeliani e arabi sunniti contro l´Iran. Oggi, oltre a sciogliere il nodo israelo–palestinese, si tratta semmai di prendere altro tempo nella partita persiana, evitando un attacco preventivo dello Stato ebraico contro Teheran, dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.
Il problema oggi non sta più nella volontà della leadership americana, ma nel logoramento complessivo della superpotenza e nella personale debolezza di Obama, il cui declinante prestigio interno ed esterno parrebbe inadeguato all´altezza della sfida. Per gli israeliani – e soprattutto per buona parte dell´opinione pubblica Usa, che continua a identificarsi con lo Stato ebraico – il presidente non è un mediatore equilibrato. Molti lo dipingono come un cripto-musulmano.
Netanyahu poi non è solo il primo ministro di Israele, ma un attore della vita politica americana, da sempre schierato con i "falchi" repubblicani. Dunque un avversario interno di Obama. Ossia un amico di chi conta di mandarlo a casa nel 2012. Operazione cui Netanyahu darebbe volentieri il suo contributo. Mentre alla Casa Bianca brinderebbero se Netanyahu cadesse, o almeno accettasse di liquidare l´ala più oltranzista del suo governo (Lieberman) per formare una coalizione di "unità nazionale" allargata ai centristi di Tzipi Livni.
Ma il vero punto critico dell´architettura che la Casa Bianca sta allestendo è l´inesistenza di un credibile interlocutore palestinese. Nessuno considera Abu Mazen il rappresentante di tutto il suo popolo, nemmeno di una sua maggioranza. Qualsiasi accordo da lui firmato non varrebbe la carta su cui è scritto. Se si vuole davvero la pace, prima o poi sarà inevitabile coinvolgere Hamas. In un modo o nell´altro, la frattura tra Cisgiordania e Gaza dovrà essere sanata. Almeno una parte dell´amministrazione americana ne sembra convinta – oltre, per quel che (non) contano, a diversi leader europei. Ma mettere insieme le diverse bande e mafie che scorrazzano per la Palestina anche grazie alle regalie europee e alle manipolazioni israeliane e americane, è forse più difficile che imporre la pace allo Stato ebraico e ai suoi vicini arabi.
Per creare la Palestina mancano dunque le condizioni. Non c´è territorio sufficiente, perché Gaza resta in mano a Hamas mentre in Cisgiordania avanzano i coloni israeliani, contro i quali Netanyahu non ha certo intenzione di scatenare la guerra civile. Non c´è unità politica, né tantomeno una leadership presentabile. Esiste un popolo palestinese, sofferente e largamente in diaspora, non una nazione. Mentre ci sono, nel mondo arabo e in quello musulmano (Iran in testa), potenze e milizie pronte a far deragliare qualsiasi convoglio muova verso la pace.
Né pare possibile un´operazione di mero illusionismo, ossia il battesimo di una pseudo-Palestina con uno pseudo-governo, priva di fatto degli attributi della sovranità, come (forse) Netanyahu sarebbe disposto ad accettare e (forse) Abu Mazen ad autoproclamare. Un pasticcio del genere non reggerebbe. E soprattutto non risolverebbe il problema di sicurezza nazionale che interessa Obama. Perché fra arabi e musulmani – non solo jihadisti – una Palestina finta non avrebbe la minima credibilità. Anzi, rischierebbe di produrre l´effetto opposto, delegittimando ulteriormente gli Stati Uniti e i loro alleati mediorientali e occidentali che si prestassero a tale mascherata.
Parrà un paradosso, ma la vera forza di Obama in questa decisiva partita è di essersi tagliato tutti i ponti dietro le spalle. Il presidente degli Stati Uniti ha posto l´asticella talmente in alto che se la passerà sarà un trionfo. Altrimenti un disastro. Non solo personale. Se il negoziato abortirà, non si tornerà al precario equilibrio attuale. Nuove guerre in Medio Oriente sarebbero la probabile conseguenza della pace mancata.
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Il leader dell’Olp: Questa volta proibito fallire"

Yasser Rabbo
Ecco quali sono i fattori che, secondo Yasser Rabbo, permetterebbero una pace giusta e globale : " lo status di Gerusalemme, i confini, lo smantellamento delle colonie israeliane nei Territori dello Stato di Palestina, una equa soluzione sui rifugiati e sul controllo delle risorse idriche... ". Come al solito, solo pretese, nessuna garanzia in cambio. Per caso Rabbo ha proposto di trovare un sistema per neutralizzare Hamas e porre fine al suo terrorismo contro la popolazione israeliana? No. Ha proposto di bloccare le manifestazioni a Jenin contro Israele ? Macchè. Ha offerto qualche garanzia sul fatto che il futuro Stato sarà smilitarizzato e non cercherà di attaccare Israele ? No. Ha proposto che i rifugiati venissero assorbiti dal futuro Stato palestinese riconoscendo così Israele come Stato ebraico ? Nemmeno per idea.
E Israele dovrebbe accettare tutte le richieste, cedere territori conquistati dopo aver vinto delle guerre in cambio di niente?
Ecco l'intervista:
Quella che siamo chiamati a prendere è una decisione estremamente difficile, impegnativa. Per questo abbiamobisogno dellamassima condivisione tra tutte le forze palestinesi. Una cosa è certa: nessuno può permettersi un fallimento». A parlare è unodei più autorevoli esponenti della leadership palestinese: Yasser Abed Rabbo, segretario del Comitato esecutivo dell’Olp. «Il presidente Obama - annota Rabbo - ha inteso scendere incampo in prima persona fissando anche i tempi del negoziato. Sono due dati significativi che vanno nella giusta direzione. Discutere senza pregiudiziali - aggiunge il dirigente palestinese - non significa, almeno per noi, accettare le forzature unilaterali d’Israele. A cominciare dalla colonizzazione nei Territori occupati e a Gerusalemme Est». Il nostro colloquio con Yasser Abed Rabbo avviene prima della riunione straordinaria dell’Esecutivo dell’Olp convocata dal presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Siamo di fronte ad una svolta nel negoziato israelo-palestinese? «Siamo di fronte ad una assunzione diretta di responsabilità da parte del presidente Obama, che in questi negoziati avràunruolo di “parte attiva” e non solo di “arbitro”. Una scesa in campo da noi auspicata da tempo...». Il tempo. Fattore cruciale. Nell’annunciare la ripresa dei negoziati diretti, la segretaria di stato Usa, Hillary Clinton, ha fissato in un anno il tempo entro cui dipanare le trattative. «È l’altro aspetto positivo dell’invito americano. La trattativa non può essere proiettata in un futuro indeterminato. Deve avere dei paletti temporali. Gli Usa li hannofissati ». Negoziati senza pregiudiziali, ha puntualizzato Hillary Clinton. «Senza pregiudiziali significa per noi che tutte le questioni sono sul tavolo. Nessuna esclusa...». A cosa si riferisce in particolare? «A tutte le questioni che hanno a che fare con una pace giusta e globale, per usare gli stessi termini della signora Clinton: lo status di Gerusalemme, i confini, lo smantellamento delle colonie israeliane nei Territori dello Stato di Palestina, una equa soluzione sui rifugiati e sul controllo delle risorse idriche... ». Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu si è detto disposto a un negoziato «serio e globale». «Staremo a vedere. Netanyahu è abilissimo a giocare con le parole,. Ma ora è tempo di fatti. E dell’assunzione, vera, concreta, di responsabilità. Da parte di tutti. Non esiste una pace a “costo zero”». Fuori dall’ufficialità, continua a manifestarsi, nelledueparti,unabuona dose di scetticismo... «Non potrebbe essere altrimenti, visti i trascorsi. Non c’è niente di peggio che creare aspettative e poi non realizzarle. In passato questo è avvenuto troppe volte e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto del popolo palestinese». Quello dell’Olp è dunque un sì «condizionato » alla ripresa delle trattative dirette? «La discussione è aperta.Nonparlerei di condizioni ma di chiarezza d’intenti , senza la quale il dialogoperderebbe di senso e si risolverebbe in un fallimento. Abbiamo imparato dagli errori del passato ». Cosasi sente di chiedere all’Europa? «Di essere protagonista del negoziato. Alla pari con gli Usa».
Il SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi : " Obama riporta al tavolo dei colloqui Israele e palestinesi "

Ugo Tramballi
La tesi di Ugo Tramballi può essere riassunta con la frase del suo pezzo : " Israele, infatti, non dice mai no a una trattativa: anche quando non vi crede, soprattutto se la vuole affondare.". Secondo Tramballi, Israele boicotterà la trattativa già solo per il fatto di parteciparvi. Ovviamente silenzio su tutte le pretese della parte palestinese, che ha la strana abitudine di imporre come precondizione ai negoziati quello che dovrebbe essere il risultato.
Tramballi scrive : " se Bibi Netanyahu negoziasse sul futuro di Gerusalemme; se stabilisse di usare le vecchie frontiere precedenti alla guerra del 1967 come punto di partenza del negoziato sui confini palestinesi di domani; se ordinasse il congelamento delle colonie per altri 10 mesi: se, colpito in pieno da una folgore pacifista sulla via di Washington, Netanyahu facesse tutto questo, il suo governo ultra nazionalista si sfalderebbe.". Il governo Netanyahu non è ultra nazionalista, semplicemente antepone gli interessi di Israele a quelli di altre nazioni (e non) straniere. Israele non si oppone alla nascita di uno Stato palestinese, semplicemente desidera che i confini siano sicuri e che questo Stato non diventi un pericolo per la sua sicurezza, come è successo con la Striscia di Gaza quando Sharon l'ha ceduta ai palestinesi.
Secondo Tramballi le trattaive falliranno per colpa di Israele e del suo governo che si ostina a non voler accettare tutte le precondizioni palestinesi. Le difficoltà che arrivano da Abu Mazen non vengono quasi menzionate. Chissà perchè.
Ecco l'articolo:
È solo un inizio, qualcuno teme per il seguito e nessuno garantisce per il finale. Ma Barack Obama ha comunque rimesso in moto il più pericoloso, riluttante e difficile dei processi di pace al mondo: quello fra israeliani e palestinesi. Tutti a Washington il 2 di settembre per la grande apertura; negoziatori e sherpa faranno poi il loro lavoro oscuro che finirà entro un anno: categoricamente. Si dice sempre così, all'inizio.
«Ci sono state difficoltà in passato e ce ne saranno in futuro » dice Hillary Clinton, il segretario di Stato, distribuendo gli inviti ufficiali alla ripresa del dialogo diretto fra israeliani e palestinesi, 20 mesi dopo la volta precedente. «Chiedo alle parti di perseverare e andare avanti ». Fede, speranza e carità. Dovranno averne molta i due nemici e gli americani che sono evidentemente i mediatori unici di questa trattativa. Anche perché l'invito non chiarisce quale sia l'agenda del negoziato, se ce n'è una. Per mesi era stato questo a impedire la ripresa del dialogo. Il palestinese Abu Mazen voleva che la trattativa fosse su temi chiari: spartizione di Gerusalemme capitale di due stati, frontiere, insediamenti ebraici e profughi palestinesi. L'israeliano Bibi Netanyahu non voleva precondizioni: e per lui l'agenda palestinese lo era.
L'amministrazione Obama avrebbe trovato quella che crede sia una quadratura del cerchio: niente road map del negoziato per soddisfare Israele; ma un tempo limite per raggiungere risultati, come chiedono i palestinesi temendo che come altre volte gli israeliani partecipino a un negoziato per il negoziato.
Israele, infatti, non dice mai no a una trattativa: anche quando non vi crede, soprattutto se la vuole affondare.
È Hillary Clinton, invitando a Washington Netanyahu e Abu Mazen, oltre al re giordano Abdullah e al presidente egiziano Hosni Mubarak come testimoni, che svela l'assenza di un'agenda. Aggiungendo tuttavia che il vertice e poi il negoziato diretto devono servire «per risolvere tutte le questioni dello status finale che, siamo convinti, possiamo raggiungere». Non c'è status finale senza quei punti fondamentali per una pace, indicati da Abu Mazen: Gerusalemme, frontiere, insediamenti, profughi. Ora che la sua Autorità palestinese sta dimostrando di poter governare in Cisgiordania, creando istituzioni e garantendo sicurezza, è difficile per Israele girare attorno a quei punti necessari senza la soluzione dei quali - tutto il mondo lo sa- non ci sarà mai una pace.
Israele ha ottenuto che non ci fosse nemmeno la precondizione di un rinnovo del congelamento delle colonie ebraiche nei Territori occupati. Il 26 settembre infatti scade la moratoria. Ma è difficile che il negoziato di Washington possa andare avanti se a Gerusalemme est araba e in Cisgiordania a ottobre gli israeliani ricominceranno a costruire. Sembra lapalissiano.
Tant'è che nella notte il capo negoziatore dell'Autorità nazionale palestinese, Saeb Erekat, ha detto che «noi non saremo in grado di proseguire i colloqui di pace» nel caso in cui la moratoria non venisse protratta. Come appare ovvio che non ci possa essere negoziato senza i suoi unici, veri e controversi punti. Ma qui nulla è evidente. Perché il virtuoso Abu Mazen di Ramallah, a Gaza non conta nulla: laggiù è Hamas che comanda e che non vuole alcun negoziato. E a Gerusalemme se Bibi Netanyahu negoziasse sul futuro di Gerusalemme; se stabilisse di usare le vecchie frontiere precedenti alla guerra del 1967 come punto di partenza del negoziato sui confini palestinesi di domani; se ordinasse il congelamento delle colonie per altri 10 mesi: se, colpito in pieno da una folgore pacifista sulla via di Washington, Netanyahu facesse tutto questo, il suo governo ultra nazionalista si sfalderebbe.
La strada di questo processo di pace è lastricata di primi ministri israeliani senza maggioranze parlamentari né grande seguito elettorale; e di leader palestinesi deboli, incapaci di sopravanzare chi invoca la resistenza al nemico come condizione di vita del suo popolo. Con lo stesso entusiasmo di George Bush senior e di Bill Clinton e con più previdente anticipo di George Bush junior, anche Barack Obama è costretto a ripercorrere la stessa strada lastricata in modo così mediocre: è come un destino al quale i presidenti degli Stati Uniti non possono più sfuggire. Vanno in Afghanistan, combattono e si ritirano da Baghdad. Ma alla fine è sempre a Gerusalemme che devono tornare.
Il MANIFESTO - Michele Giorgio : " Appuntamento al buio "

Michele Giorgio
Basta leggere il sottotitolo del pezzo per capire quale sia la posizione di Michele Giorgio e del quotidiano comunista riguardo i prossimi negoziati tra Israele e palestinesi : " «Senza condizioni». Sì del governo israeliano, i palestinesi nell’angolo ". Le trattative, secondo Michele Giorgio, saranno un fallimento. Non per colpa dei rifiuti che opporrà di volta in volta la controparte palestinese, ma per colpa di Israele. Giorgio fa finta di ignorare, in passato, tutte le trattative sono naufragate perchè o alla fine, o sin dal principio, la parte palestinese ha rifiutato tutte le proposte. E' dal '48 che gli arabi rifiutano lo Stato palestinese, non è Israele a farlo.
Sulla stessa falsariga di Michele Giorgio, Ugo Tramballi, Lucio Caracciolo, Yasser Rabbo, un pezzo di Alessandro Logroscino (che non riportiamo) pubblicato dall'ANSA.
Ecco il pezzo di Michele GIorgio:
Il Comitato esecutivo dell’Olp, presieduto da Abu Mazen, si è riunito ieri a Ramallah per decidere la risposta alla dichiarazione del Quartetto - Usa, Ue, Onu e Russia –, e all’annuncio del Segretario di stato Hillary Clinton, sulla ripresa dei negoziati diretti con Israele il 2 settembre a Washington allo scopo di arrivare ad una soluzione entro 12 mesi. Il voto favorevole era dato per scontato, la decisione di andare al negoziato diretto con il premier israeliano Netanyanu, il presidente AbuMazen l’aveva presa già da settimane, sotto l’urto delle pressioni americane ed europee ma anche in considerazione del fallimento della sua strategia volta a imporre a Israele il blocco totale della colonizzazione ebraica, in Cisgiordania come a Gerusalemme Est. AbuMazen ieri sera voleva la benedizione dell’asfittica Olp alle sue mosse, per abbinarla a quella già ricevuta dalla Lega Araba. Con le spalle coperte il presidente palestinese (il suo mandato scaduto da oltre un anno), si prepara a prendere parte ad una trattativa di fatto al buio, che ben pochi credono possa concludersi entro un anno,come vorrebbe Barack Obama per dare slancio alla campagna per il suo secondo mandato. «Palestinesi e israeliani devono unirsi per lanciare i negoziati diretti per risolvere la questione dello status finale, dando soddisfazione alle aspirazioni di entrambe le parti», afferma la dichiarazione diffusa a Bruxelles dall’Ue per conto del Quartetto che insiste per «una soluzione» che «metta fine all’occupazione iniziata nel 1967 e permetta la nascita di uno Stato palestinese indipendente, democratico e vitale, che viva fianco a fianco, in pace e sicurezza con Israele e con gli altri vicini». Nessun riferimento al blocco della colonizzazione israeliana, uno dei punti della Road Map, sostenuta proprio dalQuartetto. Per Abu Mazen è un colpo basso. La dichiarazione diffusa a Bruxelles si limita a rivolgersi ad entrambe le parti, israeliani e palestinesi, per esortarle «a mantenere la calma e il controllo, a rinunciare ad azioni provocatorie e alla retorica infuocata». Un appello ad «evitare le provocazioni » dovrebbe lanciarlo anche Barack Obama che, come ha annunciato Hillary Clinton, accoglierà il 2 settembre a Washington Netanyahu e Abu Mazen. In sua presenza le parti, ha aggiunto il Segretario di stato, avvieranno colloqui «per la soluzione di tutte le questioni relative allo status finale (confini, rifugiati e Gerusalemme ndr.), che noi crediamo possano concludersi in un anno», ha aggiunto. Sono stati invitati ad assistere all’incontro anche il presidente egizianoMubarak e il re di Giordania Abdullah II. Lo scetticismo è forte. È arduo immaginare che Netanyahu e Abu Mazen possano trovare in 12 mesi un accordo definitivo su nodi che non sono stati sciolti in 19 anni di trattative, dalla Conferenza di Madrid ad oggi.Ma il punto sul quale batterà di più il premier israeliano, con l’appoggio anche del partito Kadima all’opposizione, è il riconoscimento da parte dell’Anp e dell’Olp di Israele quale «Stato del popolo ebraico ». Senza quel passo palestinese – di fatto richiesto anche da Usa e Ue - Israele bloccherà lo sviluppo della trattativa. E’ una questione molto delicata per AbuMazen che conosce le conseguenze di quel passo. Riconoscere Israele quale «Stato del popolo ebraico» potrebbe dare fiato a quelle forze israeliane che intendonomettere in discussione i diritti, a partire dalla cittadinanza, della minoranza palestinese (araba israeliana). Nonsolo, rappresenterebbe anche la rinuncia definitiva al diritto al ritorno nella loro terra d’origine (oggi Israele) dei profughi palestinesi espulsi o fuggiti nel 1948, che a distanza di 62 anni continuano ad appellarsi alla risoluzione 194 dell’Onu. L’avvio della trattativa diretta avviene peraltro mentre rimane irrisolto il contrasto tra il partito Fatah (spina dorsale dell’Anp) e Hamas che controlla Gaza. Il sospetto è che americani e israeliani, e a questo punto anche la leadership dell’Anp, abbiano in mente una soluzione «definitiva»masolo per la Cisgiordania, lasciando il movimento islamico blindato e isolato negli stretti confini della minuscola Gaza, e con esso un milione emezzo di palestinesi, fino ad una ipotetica «resa». Hamas ieri ha ribadito la sua condanna di un negoziato diretto che, spiegano i suoi dirigenti, farà solo gli interessi di Israele. Grande è stata la soddisfazione con la quale Netanyahu ha reagito all’annuncio di Clinton e alla dichiarazione del Quartetto.Meno di anno fa era sotto pressione da parte degli Usa. Oggi non solo Washington e il Quartetto non gli hanno chiesto di estendere la (presunta) moratoria sull’espansione delle colonie nei Territori occupati ma il Segretario di stato ha escluso qualsiasi precondizione all’avvio delle trattative.Unsuccesso pieno per il premier israeliano.
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