Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/08/2010, a pag. 17, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " I computer rubati ai pacifisti Arrestati 4 militari israeliani ".
Quando la Mavi Marmara è stata fermata, l'esercito ha portato via del materiale (computer compresi) per le indagini. I computer sono stati esaminati e sarebbero stati rispediti al mittente una volta finite le indagini.
Alcuni sono stati venduti illegalmente, i colpevoli saranno sanzionati, secondo quanto prevede la legge.
Casi del genere, purtroppo, si verificano in tutto il mondo, Italia compresa. Stupisce che Battistini faccia un articolo di queste proporzioni per una notizia del genere.
Per quanto riguarda il titolo, facciamo notare che quelli a bordo della flottiglia non erano 'pacifisti', ma attivisti politici armati intenzionati a forzare il blocco navale di Gaza per raggiungere Hamas.

Mavi Marmara
«Ah, se i militari fossero quelli d'una volta!...», sospirò una volta Ariel Sharon, in piena conferenza stampa e in piena intifada, quando gli mostrarono i dati sull'illegalità, l'indisciplina, le violenze che affliggevano Tsahal, l'esercito israeliano. Dal suo letto di coma, dovrebbe vedere che cosa sono diventati oggi: un covo d'intrighi, complotti, bugie, una repubblica delle banane», s'indigna un famoso editorialista, Nahum Barnea, commentando la guerra dei dossier che da dieci giorni oppone i capi di stato maggiore e imbarazza perfino i politici; «una serie di comportamenti oggettivamente vergognosi», riconosce un portavoce militare, di fronte allo scandalo Facebook delle foto-souvenir di riservisti in posa con prigionieri palestinesi; «una storia da verificare», ha dovuto tagliar corto un altro portavoce, ieri, quand'è uscita l'ultima storia di quattro militari che si sono rivenduti sei computer dei pacifisti arrestati sulle navi della strage, a fine maggio. Tsahal, che succede? Il tenente e i tre soldati, che la Polizia militare ha messo agli arresti mercoledì sera, sono sospettati d'avere rubato di persona PC della Flotilla Free Gaza.
Approfittando della confusione, quando sul ponte della Mavi Marmara si coprivano i cadaveri dei nove turchi uccisi dai marò israeliani, qualcuno pensò bene di fare sparire un po’ del materiale sequestrato agli attivisti. Un regista italiano, Manolo Luppichini, denunciò subito sul Corriere che la sua carta di credito era stata usata in alcuni autogrill israeliani, mentre lui stava in carcere, e di non sapere nulla delle videocamere requisite. Ora salta fuori che i soldati, incuranti delle polemiche internazionali sul caso, avevano organizzato un mercatino dei laptop, prezzo d’asta 200 euro. E questo dopo il caso della soldatessa in orgogliosa posa su internet, Eden Abergil, fotografata vicino a palestinesi bendati e ammanettati. E mentre i giornali pubblicano altri autoscatti di suoi commilitoni: la guardia di frontiera che ride mentre picchia un vecchio arabo (didascalia: «figlio di p...»), quell’altro che addita un paralitico al check-point («cammina, cane!»), uno che sventola una bandiera palestinese trasformata in quella del Gay Pride... Amnesty, Haaretz, i blogger non dubitano: «Questa crisi è il risultato di anni d’impunità», scrive il giornale liberal d’Israele. «Questo — chiosa Roi Katz su Walla.co.il — è un esercito d’occupazione che non riesce più a mantenere i livelli etici, i criteri di trasparenza che la sua missione impone».
Il male oscuro di Tsahal non è di ora. Ogni 30 minuti, dicono i pacifisti israeliani di Break the Silence, un soldato nei Territori compie una piccola o grande illegalità: molte volte vengono denunciate e punite. Altre volte, no. Inutile prendersela troppo con la truppa, però: l’esempio viene dall’alto. Proprio in questi giorni, è scoppiato l’affaire per la nomina a capo di Stato maggiore: un documento mostrato in tv, falso o vero non si capisce, in cui uno dei pretendenti (il generale Yoav Galant) incarica un famoso pubblicitario d’ordire una campagna stampa per screditare il principale rivale, il generale Benny Gantz, con pesanti apprezzamenti anche sul ministro della Difesa, Barak. La procura ieri s’è affrettata a scagionare i vertici militari, nonostante tutti i generali abbiano riconosciuto d’essere a conoscenza della lettera da almeno sei mesi. Il premier Netanyahu ha finto d’accontentarsi. Ha preso atto. Ha chiesto a tutti un passo indietro «nel nome della sicurezza del Paese». Ha sospirato anche lui, come Sharon. E non di sollievo.
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