Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Afghanistan: Petraeus vorrebbe posticipare il ritiro Intanto i talebani cercano l'appoggio dell'Onu. Cronache e commenti di Francesco Semprini, Carlo Nicolato, Redazione del Foglio
Testata:Libero - Il Foglio - La Stampa Autore: Carlo Nicolato - la redazione del Foglio - Francesco Semprini - Glauco Maggi Titolo: «La data del ritiro non si cambia - La guerra segreta degli Usa tra droni, spie e mercenari»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 17/08/2010, a pag. 19, l'articolo di Carlo Nicolato dal titolo " I talebani chiedono la benedizione dell’Onu ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo dal titolo " L’offensiva di Petraeus comincia sui giornali e contro Washington ". Dalla STAMPA, a pag. 11, gli articoli di Francesco Semprini e Glauco Maggi titolati " La data del ritiro non si cambia " e " La guerra segreta degli Usa tra droni, spie e mercenari ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - " L’offensiva di Petraeus comincia sui giornali e contro Washington"
David Petraeus
Kabul. Dopo sei settimane passate a studiare la situazione sul campo, a girare negli avamposti più remoti del paese – compreso quello italiano a Bala Murghab – e a tessere a palazzo i primi contatti con i politici afghani, su al secondo piano del comando Isaf di Kabul il generale americano David Petraeus ha deciso che è l’ora di cominciare la prima offensiva: contro Washington e la nozione, più volte ripetuta dall’Amministrazione Obama, che il ritiro dei soldati americani comincerà a partire dal luglio 2011. Petraeus è fin troppo consapevole che qualsiasi chance di successo del suo piano per vincere la guerra contro i talebani è pari a zero se la scadenza non sarà modificata. Ma il generale è anche consapevole che l’Amministrazione già sotto tiro è riluttante a rimangiarsi la promessa. Per questo ha concesso tre grandi interviste allo stesso tempo, ai due più grandi quotidiani del paese – New York Times e Washington Post – e alla trasmissione “Meet the press” sul canale Nbc. I commentatori hanno giudicato le sue apparizioni fin troppo sciape, s’è tenuto entro i canoni noiosi delle dichiarazioni da ufficio stampa del Pentagono: ma Petraeus è accorto nell’uso dei media – al contrario del suo predecessore, Stanley McChrystal, bruciato da un’intervista piena di scorrettezze con il quindicinale di musica “Rolling Stone” – ed è riuscito a far passare il concetto fondamentale a cui tanto tiene: undici mesi non mi bastano, non basterebbero a nessuno nella palude afghana, ho bisogno di più tempo. “Se i talebani contano su un nostro ritiro nel 2011, si sbagliano”, ha detto. Il suo superiore, il segretario alla Difesa Bob Gates, lo ha già sconfessato: “La data di inizio del ritiro, luglio 2011, è scritta nella pietra”. Ma due elementi stanno dalla parte di Petraeus. Due giorni dopo la sua assegnazione alla guerra in Afghanistan, dalla Casa Bianca hanno fatto sapere che il luglio 2011 non doveva essere considerato senza flessibilità come data assoluta del ritiro, ma piuttosto come “l’inizio di una nuova fase, in cui cominceremo gradualmente a passare la responsabilità ai talebani”: una definizione così ampia che tutti possono leggerci la propria opzione preferita. Il secondo elemento è che il segretario Gates è considerato da tutti ai suoi ultimi mesi di lavoro, sa già di essere destinato a durare meno del suo generale. Per questo è in condizione di poter fare e dire tutto. Oltre agli annunciati tagli dolorosi al budget della Difesa, Gates potrebbe essersi accollato anche il ruolo di garante della data di ritiro promessa dalla Casa Bianca: tanto se poi verrà cambiata, lui ha già raggiunto il punto più alto della carriera e può sacrificarsi per il bene dell’Amministrazione. Petraeus ha evitato l’ovvio rischio di apparire insubordinato. Ha detto che non è lui a scegliere i tempi, la decisione spetta al potere politico, ma che il suo compito è dare il “miglior consiglio militare possibile al presidente”. “Ma non c’è una collina da espugnare, una bandiera da piantare e dopo si può dichiarare vittoria: ci aspetta soltanto un duro lavoro”. “Del resto – aggiunge – non sono qui per una luna di miele”. Sa bene che non può prendere lui la decisione, ma che la sua presenza a Kabul, due anni dopo il clamoroso successo a Baghdad, esercita una davvero poco resistibile “moral suasion”. Il generale esercita anche parecchia pressione sul governo di Kabul: incontra il presidente Hamid Karzai più o meno una volta al giorno, molto più di quanto non faccia l’ambasciatore americano Karl Eikenberry. Alla domanda, ormai di rito, su un un suo possibile futuro in politica, Petraeus ha dato la risposta, ormai anch’essa di rito: “Non mi candiderò mai”.
La STAMPA - Francesco Semprini : " La data del ritiro non si cambia "
Barack Obama
«La data del primo luglio 2011 per l’inizio del ritiro degli Usa dall’Afghanistan non è negoziabile». E’ la posizione del presidente degli Stati Uniti, riferita dal portavoce aggiunto Bill Burton. Una dichiarazione che spazza via i dubbi sorti dopo le dichiarazioni che il generale David Petraeus aveva fatto qualche ora prima nel corso di alcune interviste. Secondo il capo dell’Isaf, l’inizio del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan programmato per il mese di luglio 2011 non è un imperativo categorico: se potrà cominciare per quella data dipenderà dalle condizioni sul terreno, deciderlo ora «sarebbe prematuro». Le dichiarazioni del militare arrivano nel giorno in cui inizia il dispiegamento dell’ultimo contingente Usa promesso da Obama, che segna l’inizio della fase decisiva di confronto con i taleban. L’arrivo delle truppe che porteranno il numero dei militari americani impiegati nel Paese a 100 mila entro dicembre, crea tuttavia tensioni all’interno dell’Amministrazione americana. Lo stesso Petraeus - successore di Stanley McChrystal, silurato da Obama per le sue dichiarazioni critiche nei confronti dell’Amministrazione - ha raccontato che durante una discussione nello Studio Ovale Obama gli aveva detto che quello che si attendeva «erano i miei migliori consigli militari» e di «lasciare a lui le decisioni politiche». «Sono uscito da quell’incontro - ha detto il generale - con la convinzione che Obama sia stato molto chiaro nello spiegare che si trattava di un processo, non di una scadenza, e che tutto dipenderà dalle condizioni» esistenti sul terreno. Anche il segretario alla Difesa Robert Gates ha confermato il luglio 2011 come data prevista per l’inizio del ritiro: «Penso che non ci sia alcun dubbio nella mente di nessuno su questa scadenza». Il capo del Pentagono ha aggiunto, in un’intervista a Foreign Policy, che «nel corso del prossimo anno ci saranno le condizioni per sapere se la nostra strategia in Afghanistan funziona». «L’invio di rinforzi sarà completato per il prossimo dicembre, e sarà possibile portare a termine l’offensiva in corso per procedere poi all’inizio del ritiro prima delle elezioni del 2012». Gates - noto per le sue posizioni filorepubblicane, e unica eredità a livello ministeriale dell’Amministrazione di George W. Bush - ha però anche fatto capire che il suo tempo al Pentagono sta per scadere. Entro la fine del 2011 potrebbe ritirarsi - spiega - a vita privata. Il presidente Barack Obama lo aveva confermato alla guida del Pentagono nella fase di transizione che prevedeva il ritiro dall’Iraq e il rafforzamento del contingente in Afghanistan. Mentre il numero dei soldati stranieri morti in Afghanistan dall’inizio della missione nel 2001 è salito a 2000, la data del primo luglio 2011 resta un traguardo difficile da raggiungere. Tanto che, mentre i taleban sul loro sito web respingevano le statistiche Onu sulle responsabilità degli insorti per la maggior parte delle vittime civili, e prospettavano la possibile «creazione di una commissione con rappresentanti speciali dell’Organizzazione della Conferenza islamica, dell’Onu, dell’Isaf e degli stessi insorti», lo stesso Petraeus per la prima volta non ha escluso la possibilità di una trattativa col nemico, «anche se ha le mani insanguinate».
La STAMPA - Glauco Maggi : "La guerra segreta degli Usa tra droni, spie e mercenari "
Riposto il «martello» che George W. Bush aveva apertamente usato in Afghanistan e in Iraq, Barack Obama sta ricorrendo largamente a una nuova strategia di controterrorismo globale che il suo zar della sicurezza John Brennan ha ufficializzato come quella del «bisturi». Stop alle campagne militari lanciate con dichiarazioni formali, che si espongono all’opposizione dell’opinione pubblica pacifista, al rischio d’essere giudicate con il metro manicheo della vittoria o della sconfitta, e alle gaffe tipo «missione compiuta» di Bush nel 2003 dopo la caduta di Baghdad. Via libera invece alle missioni coperte, furtive, mordi e fuggi. Senza la bandiera del battaglione dei marines ma con la letale «precisione» dei droni, gli aerei senza pilota, o dei missili sparati dalle navi. Sono i colpi degli «scalpellini» di Obama che individuano i target da eliminare uno per uno. Se serve, incuranti dei confini degli Stati. Se possibile, con il tacito ok dei governi la cui sovranità viene formalmente violata. Per esempio in Pakistan o nello Yemen, i casi più noti, ma in almeno una decina di altri Stati dai deserti del Nord Africa al Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Somalia, dal Libano al Tagikistan, dal Kenya all’Algeria e al Marocco, nella ricostruzione dell’attivismo «discreto» della Cia e delle Forze Speciali dell’esercito Usa, pubblicata giorni fa dal New York Times. Il terrorismo ha indossato la «non divisa» transnazionale del radicalismo islamico e non è più identificabile con una nazione, dopo l’esperienza fallimentare dei taleban protettori di Osama Bin Laden? L’America ne ha preso atto e la Casa Bianca democratica ha intensificato l’approccio peraltro già utilizzato, e ipercriticato all’interno e all’estero, di Bush: contractors cui appaltare lavori di intelligence; eliminazione diretta dei soggetti sulla lista nera da parte di team clandestini; crescente uso dei droni contro obiettivi individuati sul campo da spie e doppiogiochisti. L’efficacia del nuovo indirizzo è nei risultati, positivi ma con inevitabili «danni collaterali»: nei tre raid missilistici dal dicembre scorso a metà marzo di cui è stata data notizia nelle province dello Yemen di Abyan e Shabwa, pericolose roccaforti di Al Qaeda, sono stati uccisi svariati militanti, tra cui Jamil al Anbari, ma anche alcuni civili. E nella provincia di Marib, il 25 maggio, un quarto bombardamento ha causato anche la morte del vice governatore Jabir al Shabwani e delle sue guardie del corpo. La guerra condotta «da lontano» è anche larga parte della strategia usata in Pakistan, dove le operazioni della Cia con i droni contro target talebani, di Al Qaeda e della rete degli estremisti di Haqqani si contano a dozzine negli ultimi mesi. La nuova strategia militare che espande il ruolo degli agenti coperti, o degli esterni assoldati per specifiche operazioni dirette o di fiancheggiamento nell’individuazione ed eliminazione dei nemici, sta trasformando la stessa natura della Cia, e parallelamente dell’esercito Usa. L’agenzia di intelligence, di fatto, è sempre più protagonista di iniziative paramilitari, come dimostrano le missioni degli aerei telecomandati che promuove e gestisce regolarmente sulle montagne del Pakistan. D’altro canto, il Pentagono sta affinando le sue capacità di raccolta di informazioni, il tipico lavoro delle spie, ampliando i ranghi delle Forze Speciali, team di soldati che operano sotto «ordini esecutivi» segreti autorizzati dal governo, che un tempo erano affidati solo alle cure del personale civile dell’intelligence. I critici del nuovo trend lamentano che il Congresso viene progressivamente espropriato del controllo politico sugli atti di guerra «secretati». Per la Casa Bianca la sicurezza esige questo, e altro.
LIBERO - Carlo Nicolato : " I talebani chiedono la benedizione dell’Onu "
La domenica lapidano due amanti, il lunedì si indignano perché accusati di essere i principali responsabili delle vittime civili in Afghanistan. Ovvio, per i talebani tra le due cose non c’è alcun legame: gli amanti hanno peccato, entrambi impegnati, lui sposato e lei fidanzata, e quindi fedifraghi. Meritano, secondo la loro coranica morale, la morte inflitta per lapidazione. Mentre le vittime civili sono, fino a prova contraria, innocenti. Non importa se gli stessi innocenti siano stati usati di volta in volta come scudi umani, fatti esplodere dai kamikaze e ridotti in brandelli, di mezzo ci sono cose più importanti come la jihad, l’ono - re di Allah, il paradiso delle vergini. Insomma, si sono risentiti, gli Studenti di Allah, perché un recente rapporto Onu li accusa del 76% delle vittime civili del conflitto in Afghanistan, e così hanno chiesto all’Onu, la Nato e la Conferenza islamica di avviare un’inchiesta congiunta, comprendente anche i talebani stessi (che per l’occasione si definiscono “Emirato islamico dell’Afghani - stan”), per fare luce sulla questione. Fermiamo tutto, hanno detto, smettiamo per un po’ di scannarci, giusto il tempo per indagare, chiedere in giro, fare tutto il necessario perché la verità salti fuori: «Noi non ammazziamo » sostengono, «donne e bambini ». Non meno di due giorni fa però un razzo sparato dai talebani contro la base Nato di Khost nel settore orientale del Paese, ha colpito per sbaglio una famiglia, uccidendo tre bambini piccoli e ferendo la madre. Quel che si dice il caso. Essendoci di mezzo anche il parere della Nato difficile che la richiesta del talebani passi, ma fosse per l’Onuil “no” non sarebbe così scontato. Basti ricordare che l’anno scorso la 64a sessione dell'Assemblea Generale dell'Onu è stata presieduta dalla democratica Libia. Nell’occa - sione si discuteva di lotta al terrorismo e sviluppo, due fiori all’occhiel - lo della repubblica, si fa per dire, nordafricana. Il maggio scorso l’Iran, sì proprio l’Iran di Ahmadinejad, è stato eletto per acclamazione, e non con regolare votazione, nella Commissione on Status of Women dell’Onu, deputata alla difesa e alla tutela delle donne di tutto il mondo. Non stupirebbe dunque che anche il mullah Omar sedesse in quella per il rispetto dei diritti umani, eletto per acclamazione da quella stessa folla che domenica ha lanciato le pietre contro i due fedifraghi di Mulla Qoli del distretto di Dasht-i-Archi nel nord dell’Afghanistan. I due, lui un pashtun di 28 anni, lei una uzbeka di 23, avevano l’unica colpa di amarsi nonostante fossero già sposati o quasi. La loro lapidazione è stata eseguita nel bazar della cittadina, un agglomerato di case di fango e polvere. Di fronte a un centinaio di persone, i talebani eretti a giudici hanno letto la sentenza, peraltro giustificata dalla presunta confessione di entrambi. I due sono stati uccisi, uno di fianco all’altro, con le mani e i piedi legati. Hanno usato, come vuole la tradizione islamica, con sassi non troppo piccoli, che non fanno male abbastanza, ne troppo grossi, che uccidono troppo in fretta. I corpi maciullati sono stati pori riconsegnati alle loro famiglie. Nel pieno rispetto del diritto, incivile, islamico.
Per inviare la propria opinione a Libero, Foglio, Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti