Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La strategia di Obama per l'Iraq non funziona Il Paese rischia di piombare nel caos totale. Commento di Carlo Panella, cronaca di Vincenzo Nigro
Testata:Il Foglio - La Repubblica Autore: Carlo Panella - Vincenzo Nigro Titolo: «CAP Iraq - L´appello di Tarek Aziz: Non lasciate l´Iraq ora»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 07/08/2010, a pag. XII, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " CAP Iraq ". Da REPUBBLICA, a pag. 17, l'articolo di Vincenzo Nigro dal titolo " L´appello di Tarek Aziz: Non lasciate l´Iraq ora ". Ecco i due articoli:
Il FOGLIO - Carlo Panella : " CAP Iraq "
Carlo Panella
Roma. Il presidente americano, Barack Obama aumenta il ricorso alla diplomazia epistolare, una scelta che serve a coprire le falle sempre più evidenti della sua costruzione strategica. Dopo le lettere informali inviate ai dirigenti di Teheran in coda al plateale fallimento delle trattative sul nucleare, l’autorevole rivista Foreign Policy rivela che il capo della Casa Bianca ha inviato una missiva al Grande ayatollah Ali al Sistani e lo ha esortato a sviluppare la sua moral suasion per risolvere la crisi governativa dell’Iraq. Il paese è andato alle elezioni cinque mesi fa, ma non si è ancora giunti alla formazione di un esecutivo. La ragione della crisi sta nelle insanabili tensioni tra l’alleanza capeggiata da Iyyad Allawi, prima forza relativa in Parlamento grazie ai due seggi di vantaggio rispetto all’alleanza guidata dal premier uscente, Nouri al Maliki. Questo stallo paralizza il paese e avvantaggia i terroristi, che hanno fatto centinaia di morti negli ultimi mesi. L’iniziativa di Obama, va detto, appare al limite dell’ignavia. Lo scontro tra le fazioni irachene ha una sola ragione: sino al 2008, le complesse trattative per la formazione degli esecutivi sono avvenute in una sede soltanto, quella dell’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad. Nel rispetto dell’autonomia dei partiti, a partire da quelli con sentimenti più antiamericani come lo sciita Sciri, il governatore dell’Iraq, Paul Bremer, e i vari ambasciatori a Baghdad sono stati mediatori autorevoli – e ascoltati – di ogni crisi. La nuova strategia di Obama, volta unicamente al disimpegno, comporta ora l’abbandono totale della funzione di catalizzatore per la soluzione delle crisi politiche. Il disastro è che il vuoto politico provocato dal disimpegno degli Stati Uniti è stato subito riempito da altre potenze regionali. In primis dall’Iran – sinora sempre tenuto ben lontano dalla scena politica di Baghdad – che usa una strategia tanto spregiudicata quanto intelligente. Dopo le elezioni, Ahmadinejad ha invitato a Teheran tutti i leader iracheni, escluso Iyyad Allawi, con l’obiettivo di concordare una nuova alleanza. Lì, Moqtada al Sadr ha proposto e ha stretto un clamoroso patto con i suoi acerrimi avversari iracheni, da Sayyed al Hakim dello Sciri allo stesso Nouri al Maliki, che sino a qualche mese prima lo aveva combattuto anche militarmente, forgiando un’alleanza parlamentare vicina alla maggioranza assoluta. I partiti curdi sarebbero determinanti per la vittoria di al Maliki o di Allawi, ma non si schierano a causa di alcune pressioni esterne fortissime. L’Arabia Saudita ha risposto a Teheran – suo storico avversario, oggi ancora più temibile e temuto a causa dell’atomica – convocando riunioni speculari a Riad con gli alleati di Allawi. Il gioco dei veti incrociati è diventato paralizzante. Per di più, tutte le tensioni regionali, a partire dallo scontro tra i paesi arabi e l’Iran, si sono scaricate sull’Iraq, che già subisce, senza alcun contrasto, l’iniziativa oltranzista di Teheran. Ora il regime islamico ha un nuovo terreno di azione e di intervento di importanza strategica. L’Amministrazione Obama non si è neanche resa conto di questo scenario nuovo e pericoloso: registra soltanto il fallimento di ogni sua mossa. Il recente viaggio a Baghdad del vicepresidente, Joe Biden, è stato fallimentare, ma il capo della Casa Bianca non cambia strategia. Il 2 agosto ha confermato che i militari americani inizieranno il rientro in patria da settembre. “Il nostro compito in Iraq sta cambiando, passiamo da un impegno militare guidato dalle nostre truppe a uno civile guidato dai nostri diplomatici ”, ha detto Obama. Ma senza la forza dell’impegno militare, la possibilità di pressione dei diplomatici tende verso lo zero, con il risultato che altre pressioni diventano determinanti. La situazione tende verso un caos che non sarà certo evitato con inutili epistole ad al Sistani, che è il grande teorico, in polemica con il khomeinismo, del totale disimpegno delle gerarchie sciite dal governo diretto delle nazioni.
La REPUBBLICA - Vincenzo Nigro : " L´appello di Tarek Aziz: Non lasciate l´Iraq ora "
Tareq Aziz con Saddam Hussein
LONDRA - La chiave per interpretare l´intervista e la logica del suo ragionamento è in questo passaggio: «Finché non sarò un uomo libero non dirò nulla contro il presidente Saddam: se ora parlassi di rimorsi la gente mi considererebbe solo un opportunista». Nella lunga intervista che Tarek Aziz, l´ex numero due del regime iracheno, ha concesso ieri al Guardian di Londra, aleggia soprattutto questo, un senso di solidarietà politica ma anche di quasi rispetto mafioso per il suo ex capo, per il regime di cui ha fatto parte e che ha contribuito a costruire per 30 anni. Per la prima volta dall´aprile del 2003, da quando è in carcere, parla Tarek Aziz, cristiano, ministro degli Esteri e vice premier iracheno, consigliere ascoltatissimo di Saddam: lancia un avvertimento duro agli americani che si preparano ad evacuare il paese. «L´America e la Gran Bretagna hanno ucciso l´Iraq, noi siamo loro vittime. Ma quando si fanno degli errori bisogna correggerli e non lasciar morire un paese: pensavo che Obama volesse correggere alcuni degli errori di Bush, ma è un ipocrita, non ci può abbandonare così. Sta abbandonando l´Iraq alla mercè dei lupi». La lunga intervista ha avuto bisogno di lunghi mesi di negoziato e di preparazione; è uscita ieri mattina, proprio alla vigilia dell´inizio del ritiro delle forze da combattimento Usa, fissato per il 31 agosto. Alla vigilia della scadenza Obama, soffocato dai sondaggi che lo vedono perdente nelle elezioni di mid-term, ha preso perfino carta e penna per scrivere una lettera al grande ayatollah Ali Sistani, massima autorità religiosa degli sciiti iracheni. Il presidente americano - ha rivelato Foreign Policy - invoca il religioso perché persuada i politici a formare un governo. Da marzo, dopo le elezioni politiche, i due fronti guidati dall´ex premier Allawi (sciita ma appoggiato anche dai sunniti) e dall´attuale primo ministro Al Maliki (espressione di una vasta coalizione sciita) si fronteggiano senza risultati. L´appello di Obama a Sistani aggiunge una sensazione di fragilità ancora maggiore alla politica americana per l´Iraq. Tanto che Tarek Aziz quasi spadroneggia: «Per 30 anni Saddam aveva costruito l´Iraq, e ora è distrutto. Ci sono più persone malate, più affamati oggi che ai tempi delle sanzioni americane: allora ogni donna, vecchio e bambino riceveva almeno 2000 calorie al giorno, adesso solo fame e morte. Gli errori di Saddam? Chi non ha fatto errori? Churchill non ha fatto errori? Brown?» L´unica rivelazione particolare sul suo rapporto con Saddam, Aziz la fa sulla decisione di invadere il Kuwait, esattamente 20 anni fa, in agosto: «Io chiesi di non invadere, ma poi sostenni la decisione della maggioranza. Ero il ministro degli Esteri e feci tutto il possibile per difendere le nostre ragioni». «Sì, certo, anche noi abbiamo fatto degli errori», ammette il vecchio amico di Saddam: «Io per esempio non mi riconsegnerei più agli americani. Dopo quello che ho visto, forse sarebbe stato preferibile scegliere il martirio».
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