Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Le sanzioni all'Iran sono inefficaci e favoriscono il mercato nero E Obama si illude ancora di dialogare con gli ayatollah
Testata:Il Foglio - La Stampa Autore: La redazione del Foglio - La redazione della Stampa Titolo: «Chi si arricchisce con le sanzioni - Ora i pasdaran accumulano profitti astronomici sul mercato nero»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/08/2010, a pag. I, gli articoli titolati " Chi si arricchisce con le sanzioni " e " Ora i pasdaran accumulano profitti astronomici sul mercato nero ". Dalla STAMPA, a pag. 14, la breve dal titolo "Terrorismo, l’Iran in cima alla lista nera 'Aiuta Hezbollah' ".
Il FOGLIO - " Chi si arricchisce con le sanzioni "
Recep Erdogan continua a opporsi alle sanzioni contro l'Iran
Il tentativo del presidente americano, Barack Obama, di “globalizzare” le sanzioni economiche contro l’Iran, per costringere Teheran a negoziare sul suo programma nucleare, si sta scontrando con la determinazione delle potenze emergenti di sfruttare il vuoto lasciato dagli occidentali. Cina, India e Russia – ma anche paesi alleati degli Stati Uniti come Turchia e Corea del sud – stanno firmando contratti con la Repubblica islamica e elaborando strategie per aggirare le sanzioni internazionali e americane. C’è chi lo dice apertamente: Pechino intende continuare con il “normal business” con l’Iran, ha annunciato il ministero degli Esteri cinese; “non siamo obbligati” a rispondere positivamente alla richiesta di misure supplementari contro l’economia iraniana, ha spiegato il governo di Ankara. C’è chi elabora “meccanismi creativi”: Nuova Delhi ha ipotizzato la creazione di società di copertura, che non facciano affari negli Stati Uniti, per evitare rappresaglie americane. C’è chi esita di fronte al dilemma iraniano: “Stiamo studiando l’impatto sulle nostre imprese”, ha detto Seul. La corsa per conquistare l’Iran, le sue risorse energetiche e il suo mercato, è lanciata. Il Congresso americano ha da poco approvato una legge che prevede misure punitive per le imprese straniere che investono più di 20 milioni di dollari in progetti che “contribuiscono al rafforzamento della capacità dell’Iran di sviluppare risorse petrolifere”. E’ finito il “business as usual”, ha detto alla Bbc PJ Crowley, il portavoce del dipartimento di stato. Secondo Stuart Levy, lo zar delle sanzioni del dipartimento del Tesoro, le società straniere hanno una scelta: “Fare affari in Iran oppure con gli Stati Uniti”. Negli ultimi mesi, i colossi petroliferi europei – Eni, Total, Royal Dutch Shell, Bp, Repsol – hanno volontariamente rinunciato a sviluppare nuovi progetti nel settore energetico. I governi del Vecchio continente hanno tagliato le garanzie alle esportazioni e spinto le loro multinazionali – come la tedesca Siemens o i Lloyds di Londra – a ridurre o annullare le loro attività in Iran. Il 26 luglio l’Unione europea ha adottato sanzioni unilaterali “senza precedenti”, che colpiscono le banche iraniane e i settori energetico, marittimo e aereo, oltre ai leader dei Guardiani della Rivoluzione. Anche Australia e Canada si sono adeguati alle richieste americane. Ma il “business as usual” delle potenze emergenti in Iran continua e si rafforza, a cominciare dalla Cina. Robert Einhorn, il consigliere del dipartimento di stato per la non proliferazione, è stato inviato in missione in Asia, medio oriente e Sud America per convincere il resto del mondo a globalizzare le sanzioni. Finora, ha spiegato Einhorn, “i nostri sforzi hanno portato risultati significativi: almeno 50-60 miliardi di dollari in accordi petroliferi e di gas sono stati congelati o interrotti negli ultimi anni, grazie alle nostre pressioni con le imprese sulla minaccia di sanzioni americane”. Martedì a Seul, prima tappa del suo viaggio, Einhorn ha chiesto alla Cina di essere “uno stakeholder responsabile nel sistema internazionale. Questo significa cooperare con le sanzioni del Consiglio di sicurezza e non riempire il vuoto, non approfittare del comportamento responsabile di altri stati”. La risposta della Cina è arrivata ieri, in coincidenza con una visita del ministro del Petrolio iraniano Massoud Mirkazemi e appena prima che Einhorn si imbarcasse sul suo aereo diretto a Pechino: “Il commercio cinese con l’Iran è business normale, che non danneggerà gli interessi di altri paesi e della comunità internazionale”, ha scritto la portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu sul China Daily. Massoud Mirkazemi è arrivato in Cina accompagnato da un viceministro delle Finanze e da un’ampia delegazione di funzionari. Secondo l’agenzia di stampa del ministero del Petrolio, Shana, Pechino ha espresso il desiderio di investire nel settore della raffinazione, quello preso di mira da Stati Uniti e Europa. Pur essendo il quarto produttore al mondo di petrolio, l’Iran è costretto a importare il 40 per cento della sua benzina. Per gli occidentali, una penuria di carburante e la fine dei sussidi del governo per l’acquisto di benzina potrebbero rafforzare lo scontento popolare contro il regime di Mahmoud Ahmadinejad e costringere la Repubblica islamica a negoziare sul programma nucleare. Lo scorso anno, la cinese Sinopec ha firmato un memorandum con la National Iranian Oil Refining and Distribution Company per investire 6,5 miliardi di dollari nella costruzione di raffinerie. Ma l’obiettivo di Teheran è di convincere i cinesi a investire in sette nuovi impianti, per un valore totale di 23 miliardi di dollari. In cambio, l’Iran aumenterà le sue forniture di petrolio alla Cina e l’accesso ai suoi giacimenti. Anche se la crisi economica ha ridotto le esportazioni energetiche iraniane verso la Cina – meno 30 per cento in un anno – Pechino rimane assetata di petrolio e gas. Nella prima metà del 2010, l’Iran ha esportato nove milioni di tonnellate di greggio: il terzo fornitore cinese, dopo Arabia Saudita e Angola. Nelle sue memorie, l’ex ambasciatore cinese a Teheran, Hua Liming, ha ammesso che la sua diplomazia in Iran è stata dedicata quasi esclusivamente alla politica energetica. Negli ultimi anni, la Cina ha investito circa 40 miliardi di dollari nel settore petrolifero e del gas. Secondo il viceministro per il Petrolio, Hossein Noqrehkar Shirazi, “il volume dei progetti di estrazione è di 29 miliardi di dollari”, a cui si aggiungono contratti per altri dieci miliardi nei progetti legati alla petrolchimica, alla raffinazione e alle pipeline. Così, sostituendosi ai paesi europei anche in altri settori, la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’Iran, superando la Germania, con uno scambio da 21,2 miliardi di dollari nel 2009, rispetto ai 10,1 miliardi del 2005 e ai 400 milioni di soli 15 anni fa. Nei primi sei mesi del 2010, c’è stata un’ulteriore crescita del 33,9 per cento. Almeno cento gruppi cinesi sono presenti in Iran, dove hanno contribuito alla costruzione della metropolitana di Teheran, di centrali elettriche e di industrie per riciclare i materiali ferrosi. Con un aumento delle esportazioni della Cina del 48,6 per cento nel primo semestre dell’anno, l’Iran si sta rivelando un mercato importante per i prodotti di consumo cinesi. Pur partendo svantaggiata, l’India è in diretta competizione con la Cina per approfittare delle sanzioni occidentali. Il ministero degli Esteri indiano ha appena pubblicato un documento – “International Sanctions on Iran and Way Forward for India-Iran Relations” – in cui sancisce che “l’engagement economico con l’Iran è necessario e contribuisce alla nostra sicurezza energetica, connettività e apertura di nuovi mercati, e a realizzare i nostri obiettivi politici”. Per Nuova Delhi la partita è doppia: oltre agli interessi economici, occorre arginare l’influenza geopolitica della Cina, che ha preso la “decisione cosciente di riempire il vuoto creato dalle imprese occidentali”. In risposta, l’India pensa a “meccanismi creativi” per isolare le imprese iraniane dall’impatto negativo delle sanzioni Onu e americane. Un’ipotesi prevede la creazione di consorzi con società russe, cinesi e del Kuwait, più difficili da sanzionare. Un’altra opzione è di creare nuove imprese indiane, che non siano presenti negli Stati Uniti e nell’Ue e che operino esclusivamente con l’Iran, per evitare il rischio rappresaglie. Nella finanza Nuova Delhi immagina un accordo rupia-rial per gli scambi monetari, in modo da evitare ritorsioni americane contro le banche indiane. Nel frattempo si stanno elaborando progetti bilaterali nei settori non oggetto di sanzioni: investimenti indiani nell’estrazione di minerali e nell’industria dei fertilizzanti, dell’alimentare, della farmaceutica e dell’automobilistica; depositi indiani nelle Free Trade Zone in Iran; investimenti nel porto iraniano di Chabahar; una ferrovia che colleghi la Repubblica islamica all’Afghanistan e all’Asia centrale. Intanto, la scorsa settimana, il governo di Nuova Delhi ha avvicinato l’Amministrazione americana per chiedere di applicare all’India la clausola di esenzione sulle sanzioni indirette alle imprese straniere che fanno affari con Teheran. Nell’ambito della sua nuova dottrina neo-ottomana, la Turchia non solo ha votato contro le sanzioni Onu, ma sta offrendo anche una rete di sicurezza economica all’Iran. Ankara “implementerà pienamente le risoluzioni Onu, ma quando si tratta di richieste di singoli paesi per sanzioni extra, non siamo obbligati”, ha detto il ministro delle Finanze turco, Mehmet Simsek, in un’intervista al Financial Times a fine luglio. La Turchia – attraverso la società di raffinazione Tupras, che ha ripreso le consegne in giugno dopo una pausa di 18 mesi – sta vendendo all’Iran metà delle importazioni di benzina di cui ha bisogno (il resto arriva legalmente dalla Cina e illegalmente dal Kurdistan iracheno). Nel momento in cui gli Emirati arabi stanno riducendo i loro legami con Teheran, Ankara propone i porti di Mersin e Trabzon in alternativa a quello di Dubai come hub per i commerci iraniani. La Turchia spera di attrarre gli investimenti dei risparmiatori iraniani per alimentare il suo mercato immobiliare. Martedì scorso, Iran Air ha annunciato la creazione di un consorzio aereo con Turkish Airlines. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, si è posto l’obiettivo di triplicare gli scambi commerciali entro il 2015 portandoli a 30 miliardi di dollari. Intanto una società turca semisconosciuta – Som Petrol – ha firmato un accordo da 1,3 miliardi di dollari con la National Iranian Gas Export per la costruzione di un gasdotto che dovrebbe alimentare la pipeline progettata dagli europei, Nabucco. “Il gasdotto riguarda molto più la politica che le transazioni commerciali di gas”, spiega Paul Stevens, ricercatore alla Chatham House di Londra: “Sospetto che la Turchia voglia irritare gli israeliani”. Erdogan ha appena nominato a capo dei suoi servizi segreti l’ex ambasciatore turco all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Hakan Fidan, considerato da Israele come un “sostenitore dell’Iran”. La Corea del sud è oggetto di particolari pressioni da parte americana. “Suggeriamo al governo (di Seul) di dare un’occhiata a ciò che hanno fatto gli europei come un esempio molto positivo e di considerare l’adozione di misure analoghe”, ha detto Robert Einhorn durante la sua tappa sudcoreana. Il consigliere del dipartimento di stato avrebbe chiesto di chiudere la sussidiaria sudcoreana della banca iraniana Bank Mellat. Ma la posta in gioco economica è molto più alta. L’Iran è il maggiore partner commerciale mediorientale della Corea del sud. Lo scambio tra i due paesi lo scorso anno ha raggiunto i 10 miliardi di dollari. I colossi sudcoreani – LG, Hyundai Heavy Industries, Samsung, Daewoo, GS Engineering and Construction, Daelim Industrial Company – sono ben impiantati in Iran. Nei primi cinque mesi del 2010, in coincidenza con la riduzione della presenza europea, le esportazioni della Corea del sud verso l’Iran sono raddoppiate. A Seul è ancora vivo il ricordo del 2004 quando, dopo il voto positivo a una risoluzione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Teheran vietò tutte le importazioni dalla Corea del sud fino al marzo del 2005. “Stiamo studiando l’impatto (della richiesta americana) sulle nostre imprese”, ha detto un funzionario del ministero degli Esteri alla Reuters. Secondo Alon Levkovitz, professore all’Università ebraica di Gerusalemme, le sanzioni unilaterali hanno “un prezzo economico che Seul non è pronta a pagare”. La Russia ha condannato come “inaccettabili” le sanzioni unilaterali adottate dall’Unione europea il 26 luglio. In quegli stessi giorni, il ministro russo del Petrolio, Sergei Shmatko, riceveva a Mosca il suo omologo iraniano Massoud Mirkazemi. L’annunciata “cooperazione attiva nei settori del petrolio, del gas e del petrolchimico” si concretizzerà con la partecipazione di Gazprom nello sviluppo dei giacimenti di Azar e Pars Sud, abbandonati dagli europei. La Russia si prepara a supplire anche per la benzina: a fine luglio, Rajab Safarov, capo della commissione Iran della Camera di commercio di Mosca, ha dichiarato che la prima fornitura “potrebbe avvenire alla fine di agosto o settembre. Stiamo parlando di forniture serie”. Nonostante i molti ritardi, la Russia dovrebbe completare la costruzione dell’impianto nucleare di Bushehr entro la fine del mese. Le pressioni americane e israeliane hanno invece bloccato la consegna alla Repubblica islamica dei missili russi terra-aria S-300, necessari all’Iran per dotarsi di uno scudo aereo contro un eventuale attacco sulle sue installazioni militari. L’ultima risoluzione Onu vieta alla Russia di vendere i missili, ma mercoledì l’agenzia Fars ha annunciato che l’Iran ha ricevuto due S-300 dalla Bielorussia e altri due da un fornitore sconosciuto. Secondo l’oppositore bielorusso, Stanislav Shushkevich, la consegna dei missili da parte della Bielorussia all’Iran “sarebbe stata assolutamente impossibile senza l’assenso della Russia”. Bielorussia e Russia hanno smentito. In un briefing a un gruppo ristretto di giornalisti mercoledì alla Casa Bianca – raccontato dal Lexington notebook dell’Economist – Obama ha spiegato la sua strategia sulla Repubblica islamica, sottolineando che le varie componenti della sua politica non devono essere viste in modo isolato. Una “diplomazia ben eseguita”, ha detto Obama. Tutte le opzioni sono sul tavolo – compreso l’uso della forza – ma l’America è ancora disponibile a dialogare. Poi alcuni alti funzionari dell’Amministrazione si sono vantati del loro successo nello schiacciare economicamente e diplomaticamente l’Iran. Per l’Economist, è stato un successo riuscire a convincere russi e cinesi a votare la risoluzione dell’Onu. Ma “rimane da vedere se tutti questi elementi di pressione convinceranno l’Iran ad abbandonare le sue presunte ambizioni di diventare una potenza nucleare militare. Potrebbe essere rivelatore il fatto che lo stesso Obama stia minimizzando le aspettative e inizi a parlare sempre più di altre non specificate opzioni sul tavolo”.
Il FOGLIO - " Ora i pasdaran accumulano profitti astronomici sul mercato nero"
Dubai. L’analista di origini iraniane Amir Taheri, in una recente column sul quotidiano arabo in lingua inglese Asharq al Awsat, dice che un pezzo dell’establishment iraniano si fregherebbe le mani in occasione di ogni inasprimento delle sanzioni comminate dalla comunità internazionale al regime di Teheran. “Secondo questa visione – scrive Taheri – il Corpo della Guardie della Rivoluzione islamica, in realtà, saluta con favore le sanzioni come un’opportunità di fare più ricchi profitti”. Questa teoria è debitrice delle affermazioni di Mehdi Karroubi che, a dispetto dello 0,85 per cento dei voti raccolti nelle elezioni dell’anno scorso, è un autorevole leader dell’opposizione al presidente Mahmoud Ahmadinejad. Karroubi, che rivendica la volontà di un più “puro” continuismo del dettato di Khomeini, conduce da anni una guerra personale contro le Guardie della Rivoluzione, cioè i pasdaran. Quando nel 2002 la sua fortuna politica era maggiore e ricopriva la carica di speaker del Majlis, il Parlamento di Teheran, Karroubi aveva già denunciato il sospetto che i pasdaran controllassero più di cinquanta scali marittimi illegali sulle coste del paese. E da ultimo è tornato alla carica affermando: “Credo che alcuni settori del regime e le Guardie della Rivoluzione siano in favore delle sanzioni, in quanto traggono enormi e astronomici profitti da esse”. In effetti, non è un segreto il fatto che dopo la fine della guerra tra Iraq e Iran il Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica si sia infiltrato in ogni settore dell’economia iraniana, travolgendo, grazie a fortissime coperture politiche, la potenziale concorrenza degli imprenditori privati. Le Guardie sono state attive, dapprima, nell’accaparrarsi ogni possibile appalto pubblico, soprattutto nel settore delle costruzioni in cui controllano, tra l’altro, Khatam al Anbiya, un conglomerato che impiega come dipendenti più di cinquantamila persone, in larga parte affiliati al Corpo dei pasdaran. Khatam al Anbiya ha centinaia di commesse per la costruzione di dighe, tunnel, autostrade, oleodotti e lavora anche per la metropolitana di Teheran. Nel corso degli anni, però, le Guardie hanno diversificato i loro business che ora si estendono in ogni campo: da fabbriche che costruiscono ricambi per auto a cliniche private. E un recente interesse per le telecomunicazioni ha condotto i pasdaran a controllare la rete di telefonia fissa, due compagnie di telefonia mobile e alcuni importanti internet providers. Anche ogni affare legato al nucleare è sostanzialmente nelle loro mani. Consapevole della situazione (secondo alcune stime circa un terzo dell’economia iraniana è in qualche modo gestita dai pasdaran), la comunità internazionale ha cercato di rendere più precise le sanzioni, cercando di colpire proprio le Guardie, bloccando loro l’accesso al sistema bancario occidentale e impedendo ai dirigenti dei pasdaran di viaggiare all’estero. Ma se queste misure possono effettivamente danneggiare alcune attività più visibili delle Guardie poco possono contro il reticolo economico sommerso che, anzi, dall’isolamento del paese e da sanzioni più restrittive può soltanto trarre giovamento. Infatti, se gli imprenditori privati iraniani che si occupano di import-export (o che per le proprie attività necessitano di prodotti o di energia che il paese non sa produrre) finiscono strozzati dall’inasprimento delle regole imposte dall’estero, il mercato nero gestito dai pasdaran ha imparato nel corso degli anni ad aggirare ogni steccato, con la benedizione del governo. Si calcola che il contrabbando abbia un volume di scambi annuali pari a circa 12 miliardi di euro e sono proprio le Guardie a gestire questi traffici, forti di un inestricabile pulviscolo di società schermo, di prestanome e di un network di molte centinaia di dissimulati “uffici esteri”. Gli scali marittimi clandestini, il controllo di una parte dell’aeroporto di Teheran, il sostanziale privilegio dell’esentasse tacitamente consentito dal governo e l’attento controllo delle due “duty-free area” iraniane di Kish e Qeshm consentono ai pasdaran di importare ogni prodotto illegale e, per quanto riguarda invece i beni legalmente importabili, di sconfiggere con una concorrenza slealissima e contrabbandiera gli altri operatori privati già finanziariamente tramortiti dall’accumularsi delle sanzioni internazionali. Accanto al mercato nero direttamente gestito dalle Guardie esistono anche traffici di minor cabotaggio animati da altri piccoli protagonisti dell’andirivieni frontaliero. Il New York Times ha recentemente raccontato il via vai di migliaia di autocisterne provenienti dal Kurdistan iracheno, cariche di quella benzina che l’Iran, pur ricchissimo di petrolio, non riesce a raffinare. E un reportage pubblicato da Newsweek ha descritto il brulichio di operatori in proprio che si affaccendano sui docks del porto di Dubai. Ogni possibile merce, dai pneumatici di fabbricazione cinese alle lattine di ananas affettato, dai prodotti hi-tech alle macchine per la purificazione dell’acqua, viene stoccata su tradizionali imbarcazioni di legno. Questi prodotti vengono poi sbarcati dall’altro lato del Golfo, sulle coste iraniane. In questo caso, i pasdaran si limitano a riscuotere una gabella e a lubrificare la distribuzione di questi beni nei bazaar e nei negozi di tutto il paese, dove figurano essere stati importati, singolarmente, da privati cittadini di ritorno dall’estero. Un gioco facilissimo per le Guardie che dispongono all’uopo di un enorme arsenale di numeri di carte di identità con cui falsificare la presunta tracciabilità di ogni prodotto importato.
La STAMPA - " Terrorismo, l’Iran in cima alla lista nera 'Aiuta Hezbollah' "
Barack Obama. Nonostante il Dipartimento di Stato americano abbia messo in cima alla lista nera per il terrorismo l'Iran, il preside Usa " lascia aperta la porta al dialogo ".
L’Iran è il principale sostenitore del terrorismo. Ad accusare Teheran è il rapporto annuale sul terrorismo del Dipartimento di Stato. Secondo Washington, l’Iran destabilizza la regione, appoggiando Hamas e Hezbollah. Barack Obama, però, lascia aperta la porta al dialogo: il presidente ha dichiarato che Teheran comincia a risentire delle sanzioni e questo riporterà Ahmadinejad al tavolo dei negoziati, aggiungendo che gli Stati Uniti «faranno di tutto per impedire una corsa agli armamenti nucleari nella regione». Oltre all’Iran, nella lista nera ci sono Sudan, Siria e Cuba. Ne resta fuori la Corea del Nord, nonostante le nuove tensioni tra Washington e Pyongyang, dopo l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan, che a fine marzo ha provocato la morte di 46 marinai. Gli Stati Uniti hanno classificato l’episodio come un’operazione condotta da un esercito contro un altro, non come un atto terroristico.
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