Wikileaks al centro dei commenti anche oggi, 28/07/2010. Riprendiamo il commento di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE a pag.12, di Maurizio Molinari sulla STAMPA a pag.10, del FOGLIO in prima pagina, di Fausto Biloslavo sul GIORNALE.
Sullo stesso argomento leggere in altra pagina di IC l'articolo di Christian Rocca uscito oggi sul SOLE24ORE.
Il Giornale- Fiamma Nirenstein:" Per Wikileaks la guerra è un inferno ? Sai che scoop "

Fiamma Nirenstein
Forse le sole notizie contenute nei 92mila documenti di Julian Assange, il capo di Wikileaks, è che i talebani hanno missili antiaerei attratti dal calore, e anche i particolari di come l’Iran sostiene i talebani e Al Qaida, anche se in generale si sapeva anche questo. Per il resto, quello che si impara è che la guerra è un inferno, grazie tante, e che in Afghanistan tutto è molto difficile. Il buon giornalismo rivela novità, rompe stereotipi, aiuta la verità. L’operazione Wikileaks contro la guerra in Afghanistan non fa niente del genere, al contrario con questi 92mila documenti classificati (forse si classifica troppa roba) si nutre l’insistenza di chi vuole che gli Stati Uniti e i suoi alleati tornino a casa piuttosto che combattere la guerra mondiale contro il terrorismo.
Il capo di Wikileaks l’ha detto chiaro e tondo: è un modo di dire che la guerra in Afghanistan è uno schifo. Insomma è un’operazione prima ideologica che giornalistica. Assange vede nelle sue scoperte «le prove di crimini di guerra», il Time scrive che da qui si vede quanto sia «futile la guerra in Afghanistan»: se la macchina terrorista sia qaedista sia talebana dovesse essere aiutata dalla campagna di Wikileaks, se i generali David Petraeus e James Mattis dovessero sentirsi isolati a causa della campagna di Assange, sarebbe un guaio per tutto il mondo. Ma le rivelazioni non funzioneranno perché, punto primo, non sono tali, e anche, perché, secondo punto, mettono in moto un meccanismo che in pacifisti non vedono.
Infatti si sa da tempo che i servizi del Pakistan sono collusi con il terrore, che si permette all’Isi di incontrarsi con i talebani per organizzare il terrorismo; si sa anche che le Forze Speciali e la Cia conducono rally antitalebani; si immagina bene che questi attacchi si compiano contro una lista di terroristi pericolosi, e non credo che gli americani ne restino scandalizzati. Sanno cos’è il terrorismo su vasta scala, hanno conosciuto l’11 settembre, hanno visto staccare le teste di Daniel Pearl e di altri loro concittadini rapiti. Certamente odiano, come tutta la cultura occidentale del nostro tempo, che i civili siano feriti o uccisi nei villaggi dove invece si dovrebbero uccidere soltanto terroristi e capi talebani. Questo è il vero punto per la nostra civiltà, che giustamente condanna la morte dei civili.
Assange sa che il cuore è la carta vincente contro la guerra, come lo fu Song Mai per il Vietnam. Ma in tempo di guerra asimmetrica, ricordiamo con La Rochefoucauld che «l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù». Se si chiederà a un comandante se ha istruito i suoi soldati a evitare di colpire i civili, la risposta sarà «sì», e sarà veritiera. Ma la più importante domanda della guerra asimmetrica è qui: dove comincia, in un’operazione, il momento in cui entra in ballo l’imperativo primario, quello di salvare la vita? Salvare la vita vuol dire anche sparare quando non sai se la persona che ti si para di fronte è un militante o un contadino, fermare un grande ricercato che non ritroverai mai più, e colpire colui che domani farà saltare i tuoi soldati con un ordigno improvvisato, o attaccherà una struttura civile uccidendo donne e bambini. La questione diventa dunque di nuovo se questa guerra deve essere combattuta o abbandonata, consapevoli del fatto che non c’è esercito occidentale che non cerchi di evitare le perdite civili. Se si insiste a chiedere perché non ci si riesce, la risposta sarà alla fine non più: «farò del mio meglio» ma: «perché non è possibile». Sarà scritto nero su bianco nei libri di strategia, diverrà teoria della guerra. È questo che cercano Wikileaks e i suoi amici?
La Stampa-Maurizio Molinari: " Obama, non cambia nulla "

Maurizio Molinari
Al Pentagono è caccia al colpevole della massiccia fuga di notizie sull’Afghanistan e la Casa Bianca sminuisce la portata delle rivelazioni di Wikileaks mentre Kabul punta l’indice sui «silenzi americani» sul sostegno pachistano ai taleban.
All’indomani della pubblicazione da parte di Wikileaks dei 92 mila documenti militari sulla campagna afghana il Pentagono ha lanciato un’indagine criminale fra i suoi ranghi per accertare il ruolo svolto dall’ufficiale dell'Intelligence Bradley Manning, 22 anni, o da altri. Dave Lapan, portavoce del Pentagono, parla di un’«inchiesta robusta» perché «punta a punire chi ha disseminato in pubblico segreti militari potenzialmente in grado di danneggiare le truppe come le operazioni in corso». Gli investigatori militari non escludono alcun tipo di scenario, lasciando intendere che il punto di partenza è il fatto che «l’ultimo documento rivelato risale a sei mesi fa».
Poiché si tratta di materiale top secret consultabile solo attraverso l’accesso a particolari banche dati non si può escludere il coinvolgimento di ufficiali di grado ben superiore a Manning. Anche il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha sottolineato l’urgenza di appurare la fonte della fuga di notizie perché «rivelare informazioni sensibili dal campo di battaglia comporta pericoli seri». Nessuna ipotesi può essere esclusa: neanche la vendetta contro il governo da parte di un alto ufficiale penalizzato dal recente cambio della guardia ai vertici delle operazioni in Afghanistan che ha visto Stanley McChrystal uscire di scena a favore di David Petraeus. La determinazione di Obama e del ministro della Difesa Robert Gates nell’appurare chi sono i colpevoli è di intensità pari all’impegno profuso dal governo per sminuire il valore delle rivelazioni fatte. «I documenti in questione non sollevano alcuna questione che non è stata discussa o dibattuta in pubblico» ha sottolineato Obama, secondo il quale «proprio i problemi in questione» dall’uccisione dei civili al ruolo del Pakistan a sostegno dei taleban «hanno portato alla revisione di strategia nello scorso autunno».
In sintonia con la Casa Bianca si mostra anche John Kerry, il presidente della commissione Esteri del Senato che 24 ore prima aveva chiesto «un riequilibrio di strategia in Afghanistan». «Il materiale rivelato non include alcuna rivelazione decisiva e non può essere paragonato ai "Pentagon Papers" sulla guerra in Vietnam» ha detto ieri Kerry, con una brusca marcia indietro che lo allinea alla Casa Bianca. D’altra parte a sostenere questa tesi sono alcuni dei maggiori quotidiani che non hanno esitato a demolire lo scoop. «Sono migliaia di documenti che rivelano poco di nuovo, 195 morti civili in 4 anni non sono una cifra-shock» ha scritto il Washington Post.
Di altro tono le reazioni del governo di Kabul, il cui consiglio per la sicurezza nazionale si lamenta del «mancato impegno degli Usa per colpire i taleban che trovano appoggi in Pakistan. Per Rangeen Dadfar Spanta, capo del consiglio di sicurezza afghano, «non è comprensibile» che Washington da una parte versi fondi per la ricostruzione a Kabul e dall’altra aiuti il Pakistan, i cui servizi appoggiano i taleban.
Il Foglio- " Caccia al pirla "

Julian Assange
Roma.
Primo: dimenticare William Colby, il capo della Cia che prese il comando dei servizi segreti dopo aver combattuto la Seconda guerra mondiale tra i partigiani francesi. Secondo: mettere da parte Aleksey Myagkov, l’agente del Kgb capace di fuggire dall’Unione Sovietica in piena Guerra fredda. Le wikispie, gli informatori che hanno passato migliaia di documenti top secret all’organizzazione Wikileaks, hanno poco a che fare con i loro predecessori. Non combattono una guerra, non passeggiano per strada con il passaporto falso e non potrebbero mai scrivere un libro di memorie avventurose, dato che passano gran parte del loro tempo incollati al monitor di un computer. Il loro ultimo colpo, la pila di pagine sulla guerra in Afghanistan riassunta lunedì da tre grandi quotidiani – New York Times, Guardian e Spiegel –, è l’ars poetica del gruppo: forse non è materiale interessante quanto sembra, ma almeno fa discutere. A pensarci bene, le spie vere fanno l’esatto opposto. Questa nuova categoria di agenti segreti è una via di mezzo tra l’hacker, il pirata che penetra nei sistemi informatici di giornali, industrie e governi per rubare segreti o, semplicemente, per dimostrare la propria abilità, e il whistleblower, come sono definiti nel mondo anglosassone coloro che denunciano in modo anonimo mancanze e soprusi dell’Amministrazione pubblica. Quelli di Wikileaks fanno capo a Julian Assange, 39 anni, faccia da ex bambino prodigio. Nel 2006 ha fondato un sito internet che raccoglie soffiate di ogni tipo, dalle immagini riprese sui campi di battaglia iracheni alle carte ingiallite che portano la firma di Kissinger. Riesce a procurarseli con l’aiuto di tanti smanettoni del computer, spesso al servizio di un apparato governativo, che sono pacifisti, che vogliono fermare le multinazionali farmaceutiche o sognano un lavoro più interessante del loro. Il loro impegno, manco a dirlo, ha raccolto numerosi riconoscimenti. Come l’International media award di Amnesty, l’ong che si occupa di diritti umani, e quello messo in palio dal settimanale Economist. La wikispia più conosciuta è Bradley Manning, un analista dell’esercito americano finito in arresto a maggio. Secondo gli inquirenti, ha passato a Wikileaks il video di un bombardamento avvenuto a Baghdad nel 2007 nel quale persero la vita una decina di civili, compresi due giornalisti della Reuters, i cui obiettivi furono scambiati per armi. Pochi giorni dopo la pubblicazione del video si è vantato del successo con un altro hacker, Adran Lamo, conosciuto per aver violato più volte i siti internet del New York Times, di Microsoft e di Fortune 500. Nella conversazione, Manning diceva che quella soffiata avrebbe potuto portare a una “discussione globale, a un dibattito, a riforme” sulla guerra in corso. Ma Lamo, anziché tenere la notizia per sé, l’ha passata agli investigatori americani. Oggi Manning si trova nel carcere di Camp Arifjan, in Kuwait, e rischia cinquant’anni di carcere. Si pensa che abbia collaborato anche all’operazione “The War Logs”, presentata lunedì da Assange, che ha portato grande imbarazzo nel team del presidente americano, Barack Obama. Alla Casa Bianca dicono che le rivelazioni di Wikileaks sono un pericolo per la sicurezza dei soldati che combattono in Afghanistan e in Iraq. Anche per questo, Assange ha deciso di non mettere piede per un po’ di tempo sul suolo americano. Dalla Russia con inesperienza Persino Anna Chapman, l’imprenditrice russa e procace arrestata a New York un mese fa con l’accusa di essere una spia del Cremlino, sembra Mata Hari in confronto agli uomini di Wikileaks. Pochi credono che sia riuscita a passare segreti decisivi ai Servizi russi, ma la sua reputazione di donna fatale e il passato misterioso nei salotti di Londra ne fanno un personaggio degno dei romanzi in stile Deighton. Per metterla in trappola, un agente dell’Fbi le ha dato appuntamento in una caffetteria di Manhattan, si è finto doppiogiochista e le ha offerto un passaporto falso con il quale condurre una nuova esistenza, rigorosamente sotto copertura, negli Stati Uniti. Anna non è caduta nel tranello e ha rifiutato la proposta a malincuore, dopo una telefonata al padre, ha bevuto l’ultimo sorso di Frappuccino ed è uscita in strada. L’hanno fermata qualche ora dopo. I tempi di Myagkov sembrano davvero alle spalle
Il Giornale-Fausto Biloslavo: " Svelati i segreti dell'Italia. Così si trattò per Mastrogiacomo "

Fausto Biloslavo
La bomba dei rapporti segreti del Pentagono sulla guerra in Afghanistan pubblicati da Wikileaks riguarda anche l’Italia e la dura missione dei nostri soldati: ci sono resoconti di riservati incontri diplomatici, minacce terroristiche e azioni di guerra.
Emergency e gli Usa
Uno dei documenti «diplomatici» più interessanti descrive l’incontro a Washington fra l’ambasciatore italiano, Giovanni Castellaneta, e il vice segretario di Stato americano John Negroponte. L’incontro avviene il 30 marzo 2007, una decina di giorni dopo la liberazione di Daniele Mastrogiacomo, inviato di Repubblica catturato dai talebani, in cambio di cinque talebani scarcerati da Kabul. Si legge che Negroponte «sollecita Roma a usare la sua influenza per fermare la minaccia dell’ong Emergency di chiudere i suoi ospedali in Afghanistan fino a quando il loro dipendente, Ramatullah Hanefi, non sarà rilasciato dalle autorità afghane». Hanefi era il responsabile logistico dell’ospedale di Lashkar Gah, che ha trattato con i talebani lo scambio di prigionieri. Nelle mani dei rapitori c’è ancora l’interprete di Mastrogiacomo, Adjmal Nashkbandi, decapitato una settimana dopo. Secondo l’ambasciatore, «Emergency ha chiesto al governo italiano di intervenire per liberare più terroristi». Sembra di capire che servirebbero a far liberare Hanefi, ma è sicuramente un errore di trascrizione o di esposizione. In realtà i talebani avevano inizialmente chiesto il rilascio di 15 loro commilitoni. La famiglia di Adjmal era certa che liberando altri tagliagole il giovane traduttore sarebbe tornato a casa, ma nessuno lo voleva fare. Nel rapporto Castellaneta spiega che «l’Italia è contraria a qualsiasi nuovo scambio». L’ambasciatore chiede comunque aiuto agli americani per far visitare Hanefi in galera.
Il caso Calipari
Uno dei punti di discussione riguarda il caso di Mario Lozano sotto processo in Italia, che ne chiede l’estradizione. Il soldato americano ha ucciso per errore a Bagdad il numero due dei servizi segreti italiani, Nicola Calipari, durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, presa in ostaggio. Per Negroponte il caso è chiuso. Il vicesegretario chiede con durezza al «governo italiano di risolvere la questione comunicando alla corte che le azioni in zona di guerra sono fuori dalla sua giurisdizione». Castellaneta assicura che informerà D’Alema e suggerisce «una visita a Washington del ministro dell’Interno, Giuliano Amato, per discutere del caso».
Prodi e Bush
L’ultimo punto all’ordine del giorno ha un titolo che è tutto un programma: «Potus (il presidente Usa, nda) - Primo ministro Prodi: mancato incontro comincia a essere un problema politico». L’ambasciatore sottolinea che a Roma la questione è molto sentita «in particolare dopo un anno dell’elezione di Prodi». Castellaneta, pur di far incontrare Prodi con Bush, fa sapere che «l’Italia è flessibile sul luogo (Washington o Roma) e sui tempi».
Agenti iraniani
Il 28 settembre 2009 l’intelligence Usa segnala che 7 arabi e 4 iraniani sono stati segnalati nella provincia di Herat. Gli arabi, collegati ad Al Mansour, uno dei vice di Osama bin Laden, sono incaricati di eseguire attacchi suicidi contro truppe americane ed italiane (....)». Gli iraniani, invece, «fanno parte di un’unità di intelligence dei Sepah e Pasdaran (i Guardiani della rivoluzione, nda)». Il gruppo ha raggiunto il movimento armato di Ghulam Yahya Akbary, comandante degli insorti nella zona sotto controllo italiano. Il 17 febbraio 2009 Akbary è ucciso in un raid.
Trappole esplosive
Numerosi file segreti descrivono gli attentati contro gli italiani, «con 100 chilogrammi di esplosivo nascosti sotto un ponte», o il ritrovamento delle trappole esplosive grazie «alla Humint intelligence», informatori sul terreno. La descrizione asettica dei Tic, l’acronimo usato per indicare scontri e battaglie, non mancano. Il 4 ottobre, americani e italiani si sono trovati sotto il fuoco talebano a Nord di Herat. «Nelle ultime 24 ore ci sono state altre tre battaglie - si legge - Tutte nell’area di 3-5 chilometri». In altri casi gli italiani chiedono l’appoggio aereo, come il 20 agosto 2009 con due cacciabombardieri Mirage. In novembre il rapporto B/2-321 descrive l’ennesima battaglia a Bala Murghab sul fronte Nord dello schieramento italiano. «Gli italiani hanno 23 soldati al castello - scrivono gli americani - e la Forza di reazione rapida è in stato di allerta». Si combatte vicino alla nuova moschea, il bazar è deserto. Alla fine arrivano gli elicotteri Mangusta.
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