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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-Libero-IlSole24Ore Rassegna Stampa
27.07.2010 Usa, Pakistan, doppio gioco, spionaggio, Gino Strada, guerra perduta....
Le analisi che ne spiegano i motivi

Testata:Il Foglio-Libero-IlSole24Ore
Autore: Mattia Ferraresi-Daniele Raineri-Carlo Panella-Leonardo Maisano
Titolo: «Lo spifferaio magico fa un favore al Nyt, benedetto da Obama- Come si dice 'embè' in Pakistan ?-Evitare la tempesta: come si fa geopolitica al tempo degli sputtanatori- E' l'alleanza con il Pakinstan il peccato originale degli Usa-L' 'insopportabile' ruol»

Su tutti i giornali oggi, 27/07/2010,viene dato grande risalto alle rivelazioni di Wikileaks. Tralasciamo le cronache, per privilegiare le analisi. Le abbiamo scelto da IL FOGLIO, LIBERO, ILSOLE24ORE. Ci auguriamo che il ruolo di Gino Strada, e della sua Ong Emergency, possa venirne fuori con la maggior chiarezza possibile.

Il Foglio- pag. I- " Lo spifferaio magico fa un favore al Nyt, benedetto da Obama "


il logo di Wikileaks

Roma. L’estate è calda, il cielo è azzurro, il governo ladro e il Pakistan un alleato infedele nella guerra al terrore. Quest’ultimo è uno dei molti segreti ovvi rivelati dallo “scoop” del sito Wikileaks opportunamente amplificato da New York Times, Guardian e Spiegel con l’operazione giornalistica che va sotto il nome in codice: “Afghanistan, the war logs”. Più di 90 mila documenti militari sono stati ricevuti da una fonte anonima, verificati dal capo di Wikileaks, Julian Assange – lo spifferaio magico – messi in bella copia, dotati di dignità multimediale e pubblicati, con l’intendimento di offrire un buon servizio alla verità della guerra in Afghanistan. Il risultato è un maneggevole database pubblicato in triplice copia in cui si raccontano quei singoli ingredienti che nella realtà si danno mischiati: il numero delle vittime civili diviso per le singole operazioni; le coordinate geografiche degli scontri; le perdite da fuoco amico; la slealtà del Pakistan e dell’Isi, il torbido servizio segreto di Islamabad. Sono verità che fanno sbadigliare gli osservatori del conflitto in Afghanistan, ma il lancio del prodotto giornalistico è curato nei dettagli. L’essenza del progetto Wikileaks e del canuto fondatore Assange è quella di fare del giornalismo scomodo basandosi su rivelazioni di insider che per i motivi più diversi offrono collaborazione anonima. Quando arriva una segnalazione, Assange prende contatti con la fonte e verifica l’attendibilità delle informazioni. Se l’attivista australiano è persuaso dell’utilità dei dati inizia a lavorarli assieme al suo team itinerante, trasferisce il materiale in acque cibernetiche sicure (i server in Islanda e Belgio offrono un ottimo livello di protezione) e assicura alla fonte la protezione necessaria. In questo caso ha accettato di omettere qualche decina di migliaia di documenti che avrebbero messo in pericolo uomini e missioni attualmente in corso. Quando il piatto è pronto, Assange lo serve sul suo sito, in barba ai giornali tradizionali e al loro arlecchinesco servilismo verso il potere. E’ un’opera titanica, trasversale, che persegue la trasparenza assoluta, con esplicite ambizioni da contropotere. Ma per l’ultimo colpo, il più importante, lo spifferaio magico si è imborghesito ed è sceso a patti con tre grandi giornali di area liberal. Le redazioni hanno ricevuto il materiale un mese fa e il tempismo non poteva essere migliore, soprattutto per il New York Times, che senza muovere un dito poteva spazzare via “Top Secret America” la grande inchiesta del Washington Post – fatta di cose note e stranote – sul mondo sommerso dell’intelligence americana. Naturalmente il grande quotidiano di New York non poteva non confrontarsi con la Casa Bianca prima di pubblicare il servizio confezionato da Wikileaks. La settimana scorsa il capo della redazione di Washington, Dean Baquet, il cronista d’intelligence Mark Mazzetti e un terzo uomo del Times sono andati alla Casa Bianca per mostrare tutte le carte passate da Julian Assange. La visita è stata confermata da Baquet in uno scambio con il cronista di Yahoo! News Michael Calderone: “Siamo andati alla Casa Bianca e gli abbiamo mostrato quello che avevamo”. A parte qualche obiezione degli ufficiali dell’Amministrazione – peraltro accolta dai cronisti –, il progetto del New York Times è stato approvato dal governo come pubblicabile. Mazzetti e i suoi non hanno fatto molti sforzi per arricchire il lavoro di Wikileaks e domenica sera hanno copiaincollato – in contemporanea con Guardian e Spiegel – la storia così com’era arrivata. Ci sono voluti pochi minuti perché la notizia iniziasse a girare, e perché contemporaneamente l’inchiesta del Washington Post finisse in fondo al mare e diventasse relitto da giornalismo estivo. Mettere il cappello sull’inchiesta di Wikileaks è un affare “win-win”, conveniente per tutti: i giornali hanno una notizia esclusiva a costo zero e Assange acquista quella credibilità che manca al suo status di attivista cospiratore che “gode a distruggere i bastardi”, come ha detto allo Spiegel. Per il New York Times l’affare è triplo: le verità contenute nel dossier non sono abbastanza scomode da indurre la Casa Bianca a porre il veto. Pubblicare notizie sì, togliersi i guanti no.

Il Foglio pag. I-Mattia Ferraresi,Daniele Raineri- " Come si dice 'embè' in Pakistan ?"


al centro Julian Assange

Salta fuori che con una grande intesa sotterranea l’organizzazione Wikileaks ha passato 92 mila documenti sulla guerra in Afghanistan classificati come “segreti” – non il livello di segretezza massimo, è un livello intermedio tra “confidenziale” e “top secret” – a tre grandi quotidiani: il New York Times in America, il Guardian in Gran Bretagna e lo Spiegel in Germania. I giornalisti hanno avuto un mese di tempo per frugare la montagna di rapporti e di dispacci a cui in teoria non avrebbero mai avuto accesso da soli e che ieri invece sono finiti pubblicati sul sito dell’organizzazione, in contemporanea con una conferenza stampa trionfale da Londra del fondatore di Wikileaks, l’algido Julian Assange. E’ stato un buon lancio pubblicitario su giornali diversi, come si farebbe per l’uscita di un nuovo film. Nelle intenzioni di Assange, “The war Logs” raccolti tra il 2004 e il 2009 dalla sua organizzazione vorrebbero essere i “Pentagon papers” degli anni Zero, ovvero quello studio riservato sulla politica e la guerra del Vietnam compilato dal dipartimento della Difesa che cadde in mano al New York Times nel 1971 e dimostrò che l’Amministrazione Johnson aveva mentito sistematicamente sulla guerra al Congresso e agli elettori. O, almeno, la consacrazione definitiva del progetto di sputtanamento dall’interno e da Internet del potere politico-militare grazie al volenteroso contributo di mille talpe che – come accade sul sito enciclopedico e non parente, Wikipedia – concorrono all’infinito a provvedere spicchi sempre più succosi di informazione. Il primo colpo Assange l’ha segnato qualche tempo fa, quando ha pubblicato il video ripreso dalla telecamera di un elicottero da guerra americano Apache che nei cieli di Baghdad uccideva due giornalisti di Reuters nel quartiere sciita di Rustamiyah, scambiando la telecamera di quelli per un lanciarazzi (un episodio che non era per nulla nuovo: David Finkel, del Washington Post, l’aveva già raccontato in un lungo capitolo del suo bellissimo libro sul surge americano in Iraq, “The Good Soldiers”, pubblicato l’anno scorso. Ma il video è uscito lo stesso come uno scoop clamoroso su fatti inediti grazie all’abilità di Assange. Il soldato che l’ha passato a Wikileaks è in una cella militare in Kuwait). Lo scoop coordinato di ieri voleva essere anche il colpo di grazia da parte dell’informazione in libera circolazione su Internet contro i canali tradizionali: vedete, noi abbiamo materiale che voi non riuscite a trovare (e però per farsi pubblicità sono ancora costretti a passare per un accordo con il New York Times e con due giornali europei). In realtà, per il fronte degli oppositori della guerra che aspettava chissà quali rivelazioni indicibili sulle malefatte della Coalizione a guida americana in Afghanistan, la montagna di documenti è deludente. Questa volta l’effetto dirompente non c’è. Persino Mother Jones, l’equivalente americano di Indymedia, il sito di controinformazione della sinistra ultraarrabbiata, sbadiglia. La reazione più diffusa è: “Embè? Non c’è nulla che già non sappiamo”. Andrew Exum, uno degli analisti del Center for a New American Security che a Washington ispira la politica estera obamiana, è sarcastico: “Scoop! Ecco che cosa ho scoperto leggendo i documenti segreti diffusi da Wikileaks: ci sono elementi dei servizi segreti pachistani che aiutano i talebani, gli Stati Uniti integrano la strategia di counterinsurgency con operazioni delle forze speciali per catturare o uccidere i capi nemici e ci sono vittime civili in Afghanistan, spesso come risultato delle operazioni di combattimento della Coalizione. Se fossi rimasto sveglio più a lungo, avrei scoperto che ci sono quattro sillabe nella parola Afghanistan”. Thomas Ricks, storico corrispondente di guerra per il Washington Post e per il Wall Street Journal ora in forza a Foreign Policy, dice: “Avrei raccolto più rivelazioni a una cena con persone informate”. La pubblicazione dei segreti sta avendo l’effetto opposto alla rivoluzione prima dell’informazione e poi della politica estera sperato da Wikileaks. I documenti non fanno che confermare e rafforzare quello che gli analisti più falchi sospettano e sostengono da tempo: il Pakistan non sta dalla parte dell’occidente, ma con i talebani e al Qaida; i talebani non sono più un movimento locale antigovernativo, ma ormai sono radicalizzati e convertiti all’idea di rivoluzione islamista globale soffiata nelle loro orecchie dagli arabi di al Qaida; e gli alleati occidentali troppo timorosi sono più un fardello che un aiuto nella guerra afghana. Sono rivelazioni che potrebbero provocare un maremoto nelle relazioni geopolitiche nell’Asia centromeridionale e forse nelle cancellerie europee – ma non agiteranno la marea generica dei pacifisti troppo annoiata per immergersi nella geopolitica giocata tra l’Indo e il Potomac e per decifrare i dettagli. “Chiaro come il sole” Scrivono i quattro giornalisti del Nyt, capitanati dal solito Mark Mazzetti che in bilico sulle fughe di notizie tra Pakistan, America e servizi d’intelligence ha costruito una carriera scintillante: “…il Pakistan, un alleato degli Stati Uniti, permette a rappresentanti dei suoi servizi di spionaggio di incontrarsi direttamente con i talebani in riunioni strategiche segrete per organizzare reti di gruppi militanti che combattono i soldati americani in Afghanistan e anche per pianificare l’uccisione di leader afghani”. Alcuni dei rapporti – scrive il Nyt – dicono che l’intelligence pachistana lavora fianco a fianco con al Qaida. “I documenti contengono anche racconti di prima mano sulla rabbia degli americani contro la mancanza di volontà da parte del Pakistan di combattere i guerriglieri, che lanciano attacchi dai dintorni dei posti di guardia pachistani, vanno avanti e indietro impunemente sul confine a bordo di camion e cercano salvezza in territorio pachistano”. I novantaduemila rapporti gettati sul tavolo da Wikileaks dicono la stessa cosa che il mese scorso ha rivelato un paper molto più stringato scritto per la Harvard University da Matt Waldman. Il ricercatore ha avuto un colpo di genio e si è chiesto: la nozione che i talebani non sono che marionette nelle mani dei servizi segreti pachistani è ormai un segreto di Pulcinella, lo conoscono tutti; per ovvie ragioni di convenienza geopolitica, i pachistani che ingrassano con i soldi americani non confermeranno mai; perché non chiederlo direttamente ai talebani? Il risultato è un rapporto di 27 potentissime pagine. In sintesi: che i talebani sono manovrati dai servizi è, per usare le loro parole, che sono diventate il titolo del rapporto, “chiaro come il sole”. Non solo. La tutela pachistana è così forte che sono gli stessi talebani a sentirla come soffocante. Fa carriera e riceve armi, denaro e volontari soltanto chi accetta di prendere ordini. L’occidente ha imparato a chiamare i guerriglieri con il nome suggestivo di talebani, tradotto frettolosamente come “studenti” e con più correttezza “cercatori di sapienza”. Ma la definizione più esatta sarebbe “i mercenari del Dipartimento S”, ovvero il Dipartimento dell’intelligence che, in relativa autonomia, si occupa delle operazioni all’estero. E i cui ufficiali non temono di apparire – secondo i racconti raccolti da Waldman tra i capi guerriglieri – alle riunioni di alto livello dei talebani per decidere offensive e attentati. L’articolo del Nyt si ferma in particolare su un ex direttore dei servizi pachistani, il generale Hamid Gul, inchiodandolo alla sua complicità con al Qaida e i talebani. “Se fosse vera soltanto le metà delle attività del generale che abbiamo scoperto dai documenti di Wikileaks, allora non è credibile che il governo e i militari non ne sappiano nulla”. Questo per ora non impedisce al generale Gul di essere un personaggio pubblico, che rilascia interviste ai giornali – anche a Francesca Caferri di Repubblica nel 2008. Ieri Gul ha commentato così: “E’ tutta fiction”. Alleati poco preziosi I documenti di Wikileaks rivelano un altro segreto di Pulcinella. Esiste un’unità speciale americana, la Task Force 373, che si occupa di “disattivare” – come scrive il tedesco Spiegel – le reti dei talebani eliminando o catturando i capi. I raid di quest’unità speciale coinvolgono spesso l’appoggio dei bombardieri e provocavano anche morti tra i civili – prima che entrassero in vigore le nuove regole d’ingaggio chieste dal generale McChrystal per azzerare le perdite tra gli afghani non combattenti. Ma c’è comunque imbarazzo a Berlino, perché è venuto fuori che trecento uomini appartenenti alla 373 vivono in una base tedesca del nord, anche se in teoria la missione – che già adesso esercita un peso quasi insostenibile sul governo di Angela Merkel – è di peacekeeping. Sembra che, dopo la morte di sette soldati tedeschi, gli americani abbiano offerto con successo l’eliminazione dei capi locali talebani, trasformando ufficiosamente l’area in “zona di combattimento”. C’è un altro guaio. Dai documenti risulta che i rapporti del governo al Parlamento tedesco dipingono una situazione molto più rosea della realtà nella zona nord affidata ai soldati di Berlino. Wikileaks sta mettendo a rischio la missione più incline alla pace.

Il Foglio- Pag.I-" Evitare la tempesta: come si fa geopolitica al tempo degli sputtanatori"

Roma. La settimana scorsa l’Amministrazione americana ha versato 500 milioni di dollari al governo del Pakistan, parte relativamente piccola di un piano di aiuti da 7,5 miliardi. Non è un sacrificio sull’altare dei buoni sentimenti: con i soldi l’America testimonia la sua fiducia, induce conversioni occidentaliste nelle frange riottose di Islamabad, ripara ai danni fatti dai droni, unge il meccanismo pachistano per far funzionare l’alleanza chiamata a mettere ordine nella bolgia afghana. Negli ultimi mesi l’Amministrazione ha blandito il presidente Ali Zardari anche con concessioni non monetizzabili, ad esempio affidando al Pakistan una parte del lavoro di addestramento della polizia di Kabul, cosa di cui si erano sempre occupate le forze di sicurezza occidentali. L’America ha anche fatto finta di niente quando è venuta fuori la notizia che il presidente afghano Karzai si incontrava con impresentabili ambasciatori manovrati dall’Isi per conto dei talebani. La logica di Washington sul Pakistan è complessa e per certi versi imperscrutabile, ma il tempismo dei segreti svelati mostra i tratti della geopolitica al tempo di Wikileaks. Tutti sapevano tutto molto prima che accadesse e, come vecchi lupi di mare, hanno evitato la tempesta. Gli attivisti di Wikileaks non hanno trovato 92 mila schede del Pentagono sotto un sasso: servono tempo e risorse umane per studiare le informazioni, prendere accordi con la fonte, lavorare il materiale, possibilmente verificarlo e renderlo un prodotto pubblicabile. In questo lasso di tempo l’Amministrazione è riuscita a capire quali informazioni aveva Julian Assange, e ne ha dedotto che non sarebbe stata lei stessa a essere danneggiata per prima, ma il governo del Pakistan. Non è bello che l’esercito del tuo alleato ti sorrida e ti foraggi e quando giri l’angolo dica che sei inaffidabile, collabori con i talebani, navighi negli ambienti più sordidi del mondo e finanzi il terrorismo. Infatti a Islamabad lo “scoop” di Wikileaks non l’hanno preso bene. Anche per questo gli uomini di Obama hanno limato gli spigoli nei rapporti, si sono dimostrati accondiscendenti e prodighi di favori e danari. Ma come facevano i vecchi lupi di mare a sapere della tempesta prima del tempo? La risposta è Bradley Manning, analista militare che ha consegnato a Wikileaks il filmato degli elicotteri americani in Iraq che sparano su civili, fra cui un fotografo della Reuters. La cosa è stata riproposta dal sito di Assange con il titolo di “Collateral Murder”, omicidio collaterale. Manning ha ventidue anni ed è molto sprovveduto. Voleva che la verità sulla guerra dell’America venisse fuori, ma il fardello era troppo pesante per essere portato da uno soltanto. Così in una conversazione in chat ha confidato il suo peccato a un amico, Adrian Lamo, hacker “pentito” che collabora con esercito e polizia, cioè il peggiore dei confidenti. Lamo si è fatto dire tutto: che cosa aveva già passato ad Assange, i motivi, i mezzi, i tempi eccetera. E’ venuto fuori che Manning aveva dato a Wikileaks 260 mila documenti riservati sulle operazioni di guerra. L’ex hacker ha denunciato Manning, che è stato subito trasferito in una prigione del Kuwait in attesa di processo davanti alla Corte marziale, e il Pentagono si è messo a cercare Assange, che era sparito dalla circolazione. Sapevano che “Collateral murder” era solo l’antipasto e mentre cercavano il colpevole hanno iniziato a mostrarsi molto sorridenti con chi si sarebbe arrabbiato di più una volta pubblicati i documenti.

Libero- Pag.15- Carlo Panella: " E' l'alleanza con il Pakinstan il peccato originale degli Usa "


ISI, il logo

Nulla di nuovo nei 92.000 documenti top secret pubblicati dal sito Wikileaks, solo la conferma “timbrata” - e questo infastidisce la Casa Bianca - di fatti ampiamente noti. Il primo è che il “premio Nobel per la Pace” Barack Obama ha incrementato a dismisura l’uso dei Droni in Afganistan e che questo ha provocato un’impennata nella morte di civili afgani innocenti. Trascorrono infatti ore tra la segnalazione del “target” e l’arrivo del Drone che, non avendo pilota a bordo ed essendo pilotato dalla base di Tampa in Florida, non permette di verificare se al posto dei Talebani si trovino magari dei bambini. Di nuovo c’è solo la denuncia di una serie infinita di incidenti con i Droni: alcuni si sono schiantati al suolo o si sono scontrati in volo, costringendo le truppe Usa a intraprendere rischiose operazioni di recupero prima che i Talebani riuscissero a impadronirsi del loro armamento e della loro tecnologia. Sinora la stampa politically correct ha taciuto su questo “lato oscuro” della guerra di Barack Obama (tesa a risparmiare vite di piloti Usa a scapito di quelle dei civili afgani), ma ora - grazie allo scandalo innescato dalla pubblicazione di documenti ufficiali - dovrà finalmente prendere atto del fatto che George W. Bush era molto più attento alle vite dei civili afgani del suo successore. Nobel o non Nobel. Più grave, ma ugualmente nota, la denuncia della aperta complicità di parte dei Servizi Segreti pakistani con i Talebani, a cui hanno fornito dal 2001 informazioni, armi, consigli. Il testo ufficiale è inquietante: «Il Pakistan, formalmente alleato degli Stati Uniti, ha permesso a funzionari dei suoi servizi segreti di incontrare direttamente i capi talebani in riunioni segrete per organizzare reti di gruppi militanti per combattere contro i soldati Usa, e per mettere a punto complotti per eliminare leader afghani ». È qui, è in questa vergognosa intesa col nemico di generali e dirigenti dell’Isi (i “servizi” pakistani) la ragione fondamentale della capacità di resistenza dei Talebani e anche lo smacco subìto dagli Usa che in 9 anni non sono riusciti a catturare Osama bin Laden, ben protetto da questi generali pakistani. È uno scandalo da anni denunciato da molti analisti, ma su cui nessuno - neanche l’amministrazione Bush, va detto - è intervenuto. Il segreto della resistenza talebana sta tutto dentro la complicità di parte dei Quartieri Generali del Pakistan, per la semplice ragione che una parte dei generali di Islamabad condivide l’ideologia dei Talebani (di cui favorì la nascita negli anni ’90) e considera l’Afganistan - preferibilmente controllato dai Talebani - un “retroterra strategico” dell’unica guerra che i generali pakistani - quasi tutti - vorrebbero combattere: quella contro l’India per “ri - conquistare” il Kashmir. Alla base di questo intrico c’è lo sconsiderato appoggio che Jammy Carter diede al golpe del generale Zia ul Haq nel 1977. Ma Zia ul Haq era un fondamentalista che riformò il paese (persecuzione dei cristiani inclusa) sulla base dei principi di Abu Ala al Mawdudi, “il Khomeini sunnita”. Quasi tutti i generali pakistani di oggi vengono da quella esperienza e hanno quella formazione fondamentalista, per questo tramano con i Talebani, che non si possono sconfiggere se non epurando duramente il quadro dirigente militare pakistano. È un appuntamento a cui Bush si è sottratto e che ora Obama non può mancare. Pena una sonora sconfitta a Kabul.

IlSole24Ore- Pag.7-Leonardo Maisano: " L' 'insopportabile' ruolo di Emergency "


Gino Strada

LONDRA
«Sarà un lavoro lungo, ma se cercate mettendo semplicemente la parola "Italy" troverete numerosissimi riferimenti». Julian Assange, 39 anni, si ferma un istante, il cervello di matematico con un debole per la fisica teorica gli suggerisce una scorciatoia. «No, meglio se digitate, "Ity" è il codice più probabile per il vostro paese. Il materiale non manca. Un passaggio lo ricordo bene. È un telegramma dell'ambasciata americana che dice quanto sia diventata "insopportabile", proprio così "insopportabile", una Ong italiana. Riguardava una storia di ostaggi e di un ospedale gestito dall'organizzazione in Afghanistan ». Cammina disegnando cerchi concentrici nella sala più alta del Frontline Club di Londra dove ha appena terminato la conferenza stampa.
Julian Assange, figlio di giovanissimi contestatori che cementarono il proprio amore nei cortei contro la guerra in Vietnam, genitore, a sua volta, di Wikileaks e delle rivelazioni planetarie condivise con Guardian, New York Times e Spiegel, non può ricordarsi decine di migliaia di documenti. Ma quell'episodio italiano tanto «insopportabile» per gli Stati Uniti lo scuote ancora. E lo racconta, buttandolo là, senza altri dettagli. Si riferisce a Emergency? «Era una vicenda di ostaggi - risponde - e riguardava l'attività di un ospedale ». Non aggiunge altro, Russia Today e una fila di altre televisioni lo attendono per raccogliere il verbo del "padre di tutti gli scoop".
In realtà, per esclusione più che per esplicita ammissione,l'accenno si ritaglia perfettamente sul fisico di Gino Strada e sull'attività di Emergency. Nel 2010 tre operatori della struttura creata da Strada,Matteo Dell'Aira,Marco Garatti e Matteo Pagani furono bloccati da forze governative e rilasciati otto giorni dopo. Nel 2007 fu,invece,Ramatullah Hanefidirettore dell'ospedale di Emergency a Lashkargah, ad agire per la liberazione dell'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo e dei suoi accompagnatori afghani sequestrati dai talebani. Una vicenda che si concluse con la liberazione del giornalista italiano e l'omicidio dei suoi assistenti. Un altro report tra i 92mila pubblicati si riferisce allo stesso sequestro Mastrogiacomo e dice quanto il governo estone sia«profondamente contrariato con l'Italia per aver ceduto ai terroristi».
Punto acuto, per noi italiani, della tragedia afghana, passaggio che sfiora ancora la memoria di Julian Assange se ricorda di avere letto nei documenti diffusi di tanto malessere americano. È significativo, perché questo australiano allampanato di episodi specifici non vuole parlare. «Tutti mi domandano: "Julian qual è il fatto più grave?Chi s'è comportato peggio?". La vera storia non è nel particolare, nel dettaglio più tragico, è nell'evidenza della guerra. Terribile è ogni istante, quando muore un bambino, un ribelle, un soldato. Questa è la più completa ricostruzione del conflitto in Afghanistan dal 2004 al 2010». Eppure le vicende specifiche contano. «Alcuni eventi sono da considerare possibili crimini di guerra» ha detto senza indicare quali. Per poi aggiungere «basta ricercare utilizzando la parola amputati per capire quello che dico». A muoverlo è stato il desiderio di garantire a tutti «una maggiore comprensione della guerra» a organizzare la diffusione in questo modo è stata la volontà di «ottenere la maggiore pubblicità possibile, perché chi passa informazioni chiede questo in cambio». Sulle fonti è muto, ma sull'autenticità del materiale non ha dubbi. Il cover up c'è stato, ma per Julian Assange quello più frequente è confezionato dai ranghi più bassi. «Lo abbiamo visto incrociando i rapporti. È una distorsione paragonabile a quella che può praticare un agente di polizia invitato a indagare su sé stesso. Ma badate bene, questi rapporti non assolvono nessuno, certamente non i talebani». L'effetto spera che possa essere dirompente. «Accadrà quanto abbiamo visto con gli archivi della Stasi. Attraverso i file, i singoli protagonisti ritroveranno sé stessi, gli amici, i nemici. Cambieranno le convinzioni degli storici, dei civili, ma anche dei soldati...Non è solo la storia di abusi, ma, lo ripeto, un compendio completo sullo squallore e la tragedia della guerra».

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